"Il Basilisco" (racconto horror ottocentesco)

Marina non diede segno di aver udito la mia affermazione. Stando alle apparenze, il ricamo della mano di Venere sul quadro in seta del giudizio di Paride era più importante dell'amore che mi dilaniava il corpo e l'anima.  Rimasi in silenzio, in preda alla disperazione più assoluta, mentre per sette volte ella rinfilò l'ago.  Poi la mia indole appassionata proruppe in un grido: "Voi non mi amate!"  Marina alzò lo sguardo: sembrava affaticata, come se qualcuno le avesse impedito di riposare.  "Sentite", disse. "Esiste una creatura chiamata Basilisco: essa ha il potere di mutare gli uomini in pietra. Quand'ero ragazza, io ho visto il Basilisco... e sono di pietra!" Detto questo, si alzò e uscì dalla stanza, lasciandomi attonito e confuso: avevo capito bene ciò che aveva detto?  Avevo sempre saputo che la sua vita aveva un lato oscuro: un segreto che le permetteva di capire e di discutere argomento cui le altre donne non osavano neppure accostarsi con il pensiero.  Ma, ahimè, era anche un segreto che la condizionava al punto da impedirle di essere felice. Si infiammava e poi, improvvisamente, diventava di ghiaccio; dissertava della saggezza più pura a un'espressione altezzosa. Senza dubbio era stata questa sua eccentricità a scatenare la mia passione.  La sua bellezza non era del tipo che suscita nell'uomo un desiderio subitaneo: era pallida e quieta e aveva la grazia di un'immagine scolpita nel marmo.  Tuttavia, con il passare del tempo, il suo fascino divenne così prodigioso che persino il fruscio dei suoi abiti ondeggianti mi tormentava di desiderio.  Non era trascorso un anno dal nostro primo incontro, da quando l'avevo trovata, ricoperta di fiammeggianti viticci, nel bosco ormai rado della mia proprietà. Come una vera Driade, vestita nel colore dell'erba, intonava inni agli Dei silvani.  La ragnatela invisibile mi imprigionò e io divenni il suo schiavo. La sua casa sorgeva a due miglia dalla mia. Era una dimora bassa, circondata da un parco. La paglia che ricopriva il tetto era percorsa da erba pignola e da licheni dai colori vivaci. In mezzo ai camini centrali, un nido di ramoscelli ospitava un uccello migratore. Le alte finestre fiammeggiavano di emblemi araldici, e quadri raffiguranti re, regine e nobili erano appesi alle pareti delle camere in penombra. In questo luogo ella abitava con un seguito di servitori anziani, donne bizzarre e uomini pressoché idioti, che si prostravano davanti a lei e tuttavia le si rivolgevano in modo assai familiare. Non avrebbero potuto trattarla con maggior reverenza neppure se fosse stata lei ad aver dato loro la vita. Le donne le preparavano strane cose (scatole contenenti miscugli di erbe aromatiche e cuscini fatti con il pappo dei cardi) e gli uomini erano felici come non mai quando potevano riferirle del primo uovo deposto dal tordo nel roveto o di aver avvistato i tarabusi che abitavano la palude.  Marina era per loro Dea e figlia. Ogni giorno seguiva un disegno preciso: al mattino, Marina cavalcava, cantava e suonava; a mezzodì leggeva nella biblioteca polverosa, bevendo ogni parola dei drammaturghi e dei filosofi seguaci del platonismo. La sua stessa vita era così tragica che un poeta elisabettiano l'avrebbe adorata.  Nessuno, se non la sua gente, conosceva la sua storia, ma esistevano meravigliosi racconti che descrivevano il modo in cui ella si era piegata alla tradizione, riunendo in se stessa le caratteristiche di migliaia di antenati dediti alla stregoneria. Nel fiore della sua giovinezza Marina aveva cercato la conoscenza anomala, ne aveva fatto esperienza e se n'era pentita.  Il mattino successivo alla mia dichiarazione, ella attraversò cavalcando il parco, diretta al sentiero che avevo l'abitudine di percorrere, meditando, fino a mezzodì. Era sola, vestita di un abito bianco con una morbida cintura azzurra. Quando la sua puledra raggiunse la barriera di tassi, ella smontò da cavallo e mi venne incontro con una gaiezza del tutto insolita per lei. Al collo portava uno specchio scuro e le braccia seminude erano adorne di gioielli cabalistici. Quando mi inginocchiai per baciarle la mano, ella si lasciò sfuggire un doloroso singhiozzo.  "Non chiedetemi nulla", mi disse. "La vita in se stessa è già così priva di gioia per essere resa ancor più amara dalle spiegazioni. Lasciamo che ogni cosa rimanga tra noi come è ora. Io vi amerò con distacco e voi con trasporto e non ci saranno rapporti più profondi." La sua voce risuonò di una malinconica attesa, come se sapesse che io avrei dovuto combattere con quella sua decisione, chiara soltanto a mezzo. Aveva interpretato bene i miei pensieri, perché, prima ancora che avesse finito di parlare, proruppi in un grido di ribellione: "Non potrà mai essere così... non posso respirare... morirò." Marina si accasciò sul muretto coperto di musco. "Bisogna forse compiere il sacrificio?", chiese, quasi a se stessa. "Devo quindi svelargli ogni cosa?" Per un poco regnò il silenzio; poi, distogliendo lo sguardo, ella disse: "Vi ho amato fin dal primo istante, ma nell'oscurità, la notte scorsa, non riuscendo a dormire a causa delle vostre parole, l'amore si è trasformato d'un tratto in desiderio." Mi proibì di interromperla. "E il desiderio parve bruciare le corde che mi serravano. Nella forza di quell'attimo, ho sentito che sarei capace di abbandonare ogni cosa soltanto per la gioia di essere, una sola volta, completamente vostra." Bramavo di stringerla al mio cuore. Ma il suo sguardo era severo e, d'un tratto, si accigliò. "All'alba", riprese, "il mio desiderio si è spento, tuttavia nella mia estasi aveva giurato di concedere ciò che deve essere concesso per ottenere questa fugace beatitudine: abbandonarmi nelle vostre braccia e fremere con voi prima che si compia un'altra notte. Così sono venuta qui per pregarvi di seguirmi in quel luogo ove l'incantesimo possa essere sciolto, portando così la felicità." Chiamò quindi la cavalla che giunse con un nitrito lamentoso e scalpitò fino a quando Marina non le accarezzò il collo. Poi montò in sella, offrendo alla mia mano un piede calzato in una scarpina di satin e così piccolo da sembrare quello di una bambina. "Andiamo a casa mia", mi disse. "Ho ordini da impartire e dovere da compiere. Non vi tratterrò a lungo: è bene che il nostro breve viaggio abbia inizio al più presto." Mi avviai al suo fianco con la gioia nel cuore, sebbene, quando giungemmo in vista della casa, la supplicassi di parlarmi apertamente di quel viaggio misterioso. Ella si chinò verso di me, dandomi un affettuoso buffetto sul capo. "è una semplice questione di dare e avere", rispose. Dopo aver sistemato i suoi affari domestici, Marina raggiunse la biblioteca e mi pregò di seguirla. Con lo specchio scuro che le urtava le ginocchia, mi condusse nel giardino e poi attraverso un'ampia distesa selvaggia fino a che raggiungemmo un bosco avvolto nella nebbia. Era autunno e gli alberi erano magnifici, avendo assunto ogni sfumatura di toni bruni. Il sorbo, con le sue foglie ambrate e i frutti scarlatti, si trovava di fronte al sicomoro marrone e punteggiato di nero; il faggio argentato ostentava le sue monete dorate quasi a spregio della mia povertà; gli abeti, verdi e screziati di color fulvo, si erano assopiti dentro un'impalpabile ragnatela. Nessun uccello cantava, sebbene il sole fosse alto e caldo.  Marina notò quell'assenza di suoni e, senza preludio alcuno, intonò un brano della ballata della Madre Strega: cantava dei suoi nove nodi magici e del pettine che non riesce a sciogliere i capelli arruffati della donna e il folletto che corre sotto il suo divano.  Il sangue mi si gelò nelle vene: ero atterrito perché, nel cantare, il suo volto aveva assunto la maestà tipica di coloro che commerciano con i poteri infernali. Mentre l'ombra del bosco cadeva su di lei e noi, di tanto in tanto, attraversavamo l'oscurità, vidi che i suoi occhi scintillavano come anelli di zaffiri. Mi convinsi allora che l'ardua prova alla quale doveva sottoporsi sarebbe stata atroce e l'implorai di tornare indietro. Caddi in ginocchio, supplicandola: "Lasciate che io affronti il male da solo! Pregherò che i legami vengano sciolti. Lo pretenderò, accettando qualsiasi punizione." Marina si placò. "No", mi rispose in tono assai quieto. "Se esiste una possibilità di riuscire, essa appartiene soltanto al mio amore. Nell'ardore del mio estremo desiderio oserei fare qualsiasi cosa."  Eravamo giunti alla fine di un sentiero in discesa e ci trovavamo sulle rive di una vasta palude le cui acque luccicanti erano misteriosamente chiazzate di un giallo brillante. Foglie verdi, di una lucentezza così aspra che era quasi pericolosa da guardare, galleggiavano sulla superficie dei laghetti circondati da giunchi. Alte erbe simili a seducenti cortine di velluto muschiato crescevano al di sotto, in netto contrasto con il suolo. Ontani e salici si inclinavano sulle sponde. Dal punto in cui ci trovavamo emergeva a stento dall'acqua un sentiero di pietre grezze, percorso da canali profondi e rapidi, che si incrociavano al centro. Marina poggiò un piede sul primo masso. "Devo andare per prima", disse. "Solo un'altra volta ho percorso questo sentiero, benché conosca le sue insidie meglio di ogni altra creatura vivente."  Prima che potessi fermarla, Marina stava già saltando di pietra in pietra come un animale braccato. La seguii di slancio, cercando invano di ridurre lo spazio tra noi. Ansimava, il fiato le stava venendo meno e i battiti del suo cuore somigliavano al ticchettio di un orologio. Raggiungemmo infine un'ampia polla - delle dimensioni quasi di un lago - coperta di una schiuma color lavanda: lì il sentiero curvava bruscamente sulla destra ove sorgeva una macchia di olmi. Quando Marina li scorse, rallentò il suo passo per poi fermarsi, incerta: tuttavia, non appena ripresi a scongiurarla di non andare oltre, ella proseguì, trascinando la gonna di seta, ormai tutta inzaccherata. Risalimmo la spiaggia scivolosa dell'isola (perché tale era, elevandosi molto al di sopra della palude) e Marina tracciò la strada in mezzo all'erba rigogliosa verso una spaziosa radura ove, sostenuta da due imponenti pilastri, si ergeva una maestosa vasca di marmo, nel cui interno, incrostato da una patina stagnante, giacevano rami decomposti; alcune rane, gonfie e azzurrine, sbucarono fuori al nostro approssimarsi. Sulla sinistra sorgevano le colonne di un tempio: un edificio rotondo, sovrastato da una cupola, con una porta di bronzo, chiusa. Viti selvatiche crescevano lungo il portale, sul quale si abbarbicavano erbe rigogliose spuntate dal terreno fertilissimo; sugli scalini erano incisi dei simboli astrologici. In quel luogo, Marina si fermò. "Devo bendarvi", mi disse togliendosi la sua morbida cintura. "E voi dovete solennemente promettere di obbedirmi in tutto e per tutto. Il minimo errore potrebbe tradirci. "Io promisi e le consentii di bendarmi. Poi ella mi sfiorò la mano, invitandomi a non muovermi e a non parlare, e si diresse verso la porta del tempio. Per tre volte la sua mano colpì il metallo, producendo un rumore sordo. All'ultimo colpo, un sibilo stridente giunse dall'interno e i cardini pesanti scricchiolarono rumorosamente. Un soffio simile a una lingua di ghiaccio guizzò all'esterno e mi raggiunse: atterrito, allungai la mano verso la benda. La voce di Marina, colma di angoscia, mi fermò all'istante. "Oh, perché mai sono così combattuta tra l'uomo e lo spirito maligno? La rete che racchiude la vita sarà squarciata da parte a parte. Non esiste dunque pietà?" La mia mano ricadde inerte. Ogni muscolo del mio corpo cedette. Mi sentii mutato in pietra. Poi, dopo qualche tempo, mi giunse un sentore di legno bruciato, un profumo simile a quello delle essenze orientali che vengono offerte agli Dei indiani. Il portale girò sui cardini e io sentii la voce di Marina, fioca e inarticolata, levarsi in tono di violento rimprovero.  Ore e ore trascorsero in questo modo e ancora io rimanevo in attesa. La cintura, toccata da raggi del sole calante, aveva assunto ai miei occhi una tonalità cremisi, quando il portale si aprì. "Vieni con me!", sussurrò Marina. "Non toglierti la benda. Presto... non dobbiamo soffermarci a lungo. Egli deve saziarsi del mio sacrificio."  Una gioia novella risuonò nella sua voce. Avanzai incespicando e ricaddi tra le sue braccia. Dardi di piacere mi trafissero il cuore a quel primo contatto con il suo caldo seno.  Mi obbligò a voltarmi e, dopo avermi ordinato di guardare dritto di fronte a me, con un unico, rapido tocco sciolse il nodo. La prima cosa su cui cadde il mio sguardo stupito fu lo specchio nero che era stato appeso al suo seno: ora Marina lo reggeva in modo che io potessi scrutarne le profondità.  E laggiù, con un grido misto di paura e di stupore, io vidi l'ombra del Basilisco.  La Cosa giaceva prona sul pavimento: un presagio di orrore dormiente. Piume nere e vivacemente scarlatte gli coprivano il capo, simile a quello di un gallo e coronato d'oro, mentre le ali coriacee da drago erano ripiegate. La coda sinuosa, che terminava con un solo occhio e una bocca di serpente, s'incurvava in un atteggiamento di impudica e beata sazietà. Un male prodigioso guizzava nell'atmosfera che gli era intorno. Eppure, mentre guardavo tutto ciò, una foschia si addensò sulla superficie dello specchio: l'ombra si dissolse, lasciando solamente una forma indistinta e fluttuante.  Marina vi alitò sopra, e mentre io osservavo attentamente e meditavo, l'oscurità sparì dallo specchio, lasciando là ove prima si trovava la Cosa, l'immagine di un uomo prostrato.  Era giovane e robusto: una figura cupa con il volto bianco e corti riccioli neri che cadevano in ciocche aggrovigliate su una fronte armoniosa, mentre le ciglia erano rosse e languide. Il suo aspetto era quello di un demone-dio affaticato.  Quando Marina guardò di lato e scorse il mio stupore, si abbandonò a un riso così argentino e sommesso da ridestare i morti anfratti della palude. "L'ho conquistato!", gridò. "Ho acquisito la pienezza della gioia!"  E, tendendo un braccio, chiuse la porta prima che io potessi girarmi a guardare; con l'altro braccio mi circondò la nuca e, facendomi abbassare il capo, premette la sua bocca contro la mia. Lo specchio le cadde di mano ed ella lo frantumò con un piede sul terreno umido. Ormai il sole era calato dietro gli alberi e brillava attraverso l'intricato fogliame come il fuoco di una stufa.  Le ninfe della polla si levarono e si misero a danzare, grigie e fredde, esultanti per l'assenza della luce divina.  Il vapore, addensandosi, era così spesso che il sentiero divenne pericoloso.  "Fermati, amore mio", le dissi. "Lascia che ti prenda tra le braccia e ti porti. Non è più sicuro, per te, camminare sola." Marina non rispose ma, con una vampata di rossore che le saliva alle pallide guance, si alzò e acconsentì che io la sollevassi da terra, tenendola contro il mio petto. Posò le mani sulle mie spalle e non dimostrò la minima paura mentre io passavo di pietra in pietra. Il cammino si protrasse in modo incantevole e, quando raggiungemmo il piccolo bosco, la luna era ormai sorta sulle colline più lontane. Speranza e paura si contendevano il mio cuore: ben presto entrambe si placarono. Quando deposi Marina sul suolo ora asciutto, ella rimase in punta di piedi e mormorò, con squisito pudore: "Allora, questa notte, mio carissimo.  La mia casa è tua, ora." Così, uniti in un'estasi che nessuna parola può descrivere, camminammo a fianco a fianco, abbracciati verso la casa. All'interno fervevano i preparativi per un banchetto: le finestre erano illuminate e, dietro esse, si scorgevano numerose figure cariche di piatti colmi. Quando entrammo nel salone fummo salutati da una melodia fragorosa e trionfante. Nella galleria riservata ai musicisti alcuni veterano calvi suonavano il flauto, l'arpa e la viola da gamba. Disposti su due lunghe file stavano i bizzarri servitori di Marina, i quali, inchinandosi, gridarono gioiosamente: "Salute e felicità agli sposi!" Poi baciarono le nostre mani e, mentre i suonatori ricreavano quella dolcezza pressoché dimenticata che pervade gli antichi libri di canzoni, ci accomodammo al banchetto, sedendoci su un palco; allora i servi allestirono i tavoli sotto di noi. Ma non fingemmo di avere appetito. Quando l'ultimo vassoio di dolci venne portato via, uno strano spettacolo apparve improvvisamente all'estremità più lontana della sala del banchetto: Oberon e Titania e Puck e gli altri, vestiti con abiti di seta e di satin dalle meravigliose sfumature e adornati con fiori così tardivi da sembrare appena colti. Mi chinai in avanti e vidi che ogni volto era scuro e avvizzito mentre i capelli si erano diradati: così i loro movimenti e il loro canto nuziale mi apparvero maligni e sgradevoli; io non riuscii a sorridere fino a quando essi non furono scomparsi attraverso la porta più lontana. Poi i tavoli vennero portati via e Marina, prendendo le mie dita tra le sue, aprì una danza dall'andamento solenne. I servitori ci imitarono e durante il secondo giro una risata acuta e gioiosa annunciò che la sposa aveva raggiunto la sua camera... Poco prima dell'alba mi destai da un sonno inquieto. Avevo fatto un sogno angoscioso: una schiera di demoni, ladri di un gioiello inestimabile, mi perseguitavano.  Allora mi chinai sul cuscino per trovare consolazione in Marina: le mie labbra cercarono le sue, una mano scivolò sotto il suo capo. Il mio cuore batté un unico, folle colpo... poi si fermò.