Commento introduttivo a Leopardi e ai ''Piccoli Idilli''

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è il più grande e infelice poeta del Romanticismo. Nacque a Recanati, nelle Marche, il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici, intenta soprattutto a riassettare il dissestato patrimonio familiare. Alla madre dell'infelice poeta mancò la capacità di comprendere le esigenze e la delicatissima sensibilità del figlio, sul quale pesava l'oppressione di quel mondo chiuso. Il Leopardi trascorreva le sue giornate sui libri nella ricca biblioteca paterna; fu un'autodidatta: a 14 anni conosceva già il latino, il francese, il greco e l'ebraico. A 15 anni aveva già composto una "Storia dell'Astronomia" e a 16 un "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi". Questi studi intensissimi gli fiaccarono per sempre il fisico: la deviazione della spina dorsale lo rese gobbo, la vista si indebolì.
Si volse presto alla poesia: appena 20enne, scrisse due canzoni, "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante". Nello stesso tempo la sua solitudine diveniva più amara e pensò di evadere dal mondo chiuso di Recanati, dove viveva. Tentò perciò di fuggire dalla casa paterna, ma fu scoperto e dovette rimanere nel "natio borgo selvaggio". E allora egli espresse in alcuni componimenti mirabili, che chiamò idilli, e la sua ansia di gloria, il suo desiderio di partecipazione alla vita, il suo dolore per i beni vagheggiati e perduti, la sua desolata rassegnazione. Nascono così "L'Infinito", "La sera del dì di festa", "Alla Luna", "La vita solitaria", "Alla primavera", "Ultimo canto di Saffo" e altri canti.

Finalmente nel 1822 poté recarsi a Roma, presso lo zio materno Carlo Antici; ma fu una grande delusione: anche lì la vita gli appariva vuota e misera. L'anno dopo tornò a Recanati e scrisse le "Operette Morali", nelle quali dimostra che l'universo è avvolto da un mistero impenetrabile e all'uomo è negata la possibilità di conoscere le ragioni del suo dolore. Dopo aver visitato Milano, sì recò a Pisa dove scrisse "A Silvia".
Le sofferenze fisiche tornarono presto a tormentarlo e dovette tornare a Recanati. "L'orrida solitudine del natio borgo selvaggio" richiamò al suo animo l'incanto delle illusioni della giovinezza, che egli cantò con nostalgia accorata in alcune altissime liriche: "Le ricordanze", "Il passero solitario", "La quiete dopo la tempesta", "Il sabato del villaggio", "Canto notturno di un pastore errante per l'Asia". Morì a Napoli, il 14 giugno 1837; i suoi ultimi canti furono "La ginestra" e "Il tramonto della Luna".

L'infelicità del Leopardi si deve soprattutto ricercare nello squilibrio che c'era tra un mondo nuovo che la sua immaginazione fervidissima gli dipingeva ricco di valori ideali e la realtà che si rivelava inferiore ai sogni e dolorosa. Il sentimento del poeta oscilla sempre tra il sogno che gli fa vagheggiare come beni inenarrabili la gloria, la bellezza, l'amore, e la realtà che al lume della Ragione gli appare priva di valori ideali. Il Foscolo aveva superato il doloroso dissidio tra ideale e reale con la religione delle illusioni: per Foscolo, infatti, amore, bellezza, gloria, onore e poesia sono, è vero, illusioni, ma hanno un sicuro valore positivo, perché confortano l'animo del mortale e lo spronano ad un'azione eroica, la quale dà sempre valore alla vita.
Per il Leopardi, invece, le illusioni sono fantasmi, che spingono l'uomo verso la solitudine amara e desolata. La giovinezza accarezza, vagheggia questi fantasmi, li sente vivi e reali ed apre ad essi il cuore e la speranza; ma la giovinezza è breve e il sogno che essa accarezza urta presto contro l'"arido vero" che svuota le illusioni del loro fascino e svela che "la vita è male". E nel poeta sorge spontaneo il pianto sulle illusioni cadute, sul mondo dolcissimo della giovinezza, a cui l'anima sua sempre si volge.


Commento "Alla Luna": il canto "Alla Luna" insieme a "L'infinito", "La sera del dì di festa" e "La vita solitaria" fa parte dei Piccoli Idilli. Per "Idillio" si intende quel componimento poetico in cui vengono trattati argomenti tenui e delicati intorno alla vita campestre. Per Leopardi, invece, "Idillio" è contemplazione della natura, la quale non viene descritta nella sua realtà oggettiva ma è ritratta con sentimento individualissimo e con mesta sensibilità. Il Leopardi ha chiamato "Idilli" alcune delle sue liriche perché egli evoca le sue illusioni, il dolore, le speranze, i sogni rivivendoli insieme al paesaggio nel quale sono sorti; il suo è quel che si può chiamare "paesaggio-stato d'animo", un paesaggio che assume quel tono e quei colori che sono come l'eco suggestiva del sentimento e del canto che fluiscono nella sua anima; Chiorboli, commentando "Alla Luna", nota che è "poesia di paesaggio e di ricordo: il paesaggio suscita il ricordo e il ricordo il canto. Canto piano, sommesso, come di chi voglia sentirlo risonare solo nell'intimo dell'anima"

"Alla Luna"

O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l'anno, sovra questo colle (1)
io venia pien d'angoscia a rimirarti:
e tu pendevi (2) allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia (3), che travagliosa
era mia vita; ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza (4), e il noverar l'etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l'affanno duri! (5)

(1) è il monte Tabor, presso Recanati. è lo stesso monte dell'"Infinito"
(2) "Allora, un anno fa, tu, Luna, sovrastavi, come adesso, sulla selva vicino al monte; e come un anno fa, la rischiari ancora, con la tua luce candida."
Il poeta vezzeggia la Luna, definendola "graziosa" e "diletta". Anche nel "La sera del dì di festa" ci presenterà un altro suggestivo paesaggio lunare:

"Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna"
 
(3) "Ma il tuo volto appariva ai miei occhi ("luci") come velato da una nube e tremolante a causa del pianto che mi sorgeva sul ciglio perché la mia vita è infelice."
(4) "Eppure mi è grato ricordare e contare uno ad uno gli anni trascorsi nel dolore."
(5) "Oh come si presenta gradito nell'età giovanile, quando la speranza ha ancora un lungo corso, perché al giovane resta ancora da sperare, e la memoria è breve; come si presenta gradito, allora, il ricordo delle cose passate; il ricordo, infatti, è sempre dolce anche se richiama momenti tristi."


Commento all'"Infinito": è la primavera del 1819; poco fuori da Recanati si alza il monte Tabor e il poeta vi si reca, come tante altre volte, perché la solitudine interiore del suo animo si accorda con la solitudine del colle, sulla cima del quale una siepe impedisce di vedere tanta parte dell'ultimo orizzonte. Tutto intorno è silenzio, si avverte solo un lieve stormire di vento. Ma la fantasia del giovine Leopardi si leva oltre la siepe e si immerge in un mondo che non ha confini, nell'infinito, dove gli spazi sono interminati e i silenzi sovrumani e la quiete profondissima. Il cuore allora ha quasi un attimo di paura. Ma proprio quel lieve stormire di vento richiama il potere alla realtà limitata e dolorosa e fa sorgere ancora in lui l'ansia incontenibile verso gli orizzonti sconfinati, dove l'animo si quieta nell'oblio dei mali.


"L'Infinito"

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, (1)
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte (2) il guardo esclude.(3)
Ma sedendo e mirando (4), interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo (5); ove per poco
il cor non si spaura (6). E come il vento (7)
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce (8)
vo comparando (9): e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei (10). Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

(1) colle solitario. è il monte Tabor
(2) estremo orizzonte
(3) impedisce
(4) "Nonostante la siepe impedisca al mio sguardo di vedere tanta parte dell'estremo orizzonte, io sedendo su questo colle e fissando lo sguardo intensamente, verso la siepe."
(5) "Mi creo nella fantasia, immagino spazi sterminati e silenzi assoluti che mente umana non può concepire ("sovrumani") e quiete profondissima."
(6) e in questo infinito il cuore ha quasi un attimo di smarrimento
(7) appena
(8) del vento
(9) "comincio a paragonare"
(10) "e mi viene in mente l'eterno, l'età già trascorsa, l'età presente e viva e il suono di questa, che passa come il vento che odo stormire tra le piante"


Commento al "Passero Solitario": composto nel 1829, fa da proemio agli Idilli scritti dal '19 al '21. Il canto nasce e si modula nello sfondo primaverile di un passaggio sereno: è il 15 giugno: nella valle si diffonde il canto armonioso del passero solitario, che vive, per sua natura appartato, mentre gli altri uccelli si inebriano a gara nel volo che li porta liberi nel cielo. Il poeta, da un angolo remoto della campagna, mira la primavera che brilla nell'aria ma non prende parte alla gioia della natura, proprio come il passero solitario, che in disparte, sulla vetta del campanile, rimane estraneo all'allegria dei voli. I giovani, intanto, spensierati e in festa allietano le vie del paese, gli uccelli fanno mille giri per il cielo, ma le due creature pensose, il passero solitario e il poeta, non sanno accordarsi alla vita dei loro simili. L'incanto della Natura, tuttavia, penetra nell'animo e nasce nel poeta un sentimento sconsolato ma sereno, perché la consapevolezza del dolore accettato dona un senso di serenità, anche se infinitamente triste. Il canto si chiude con l'amara constatazione che se il passero non avrà a dolersi della solitudine, perché egli ubbidisce solo all'istinto, il poeta invece, quando gli anni peseranno su di lui, rimpiangerà i giorni della giovinezza: "Ahi pentirommi e spesso - ma sconsolato, volgerommi indietro". Rimpianto chiuso il suo, senza imprecazione, senza ribellione.
Momigliano così lo commenta: "E intanto i giorni tramontano e la beata gioventù vien meno. Quanta tristezza e quanta pacatezza! La malinconia si fa musica e la poesia sembra insieme dolore e conforto. Il lettore di questi versi chiari e meditativi come un tramonto, sente quale conforto fosse per Leopardi rispecchiare in essi la sua anima desolata... Pare veramente che quel canto di passero che erra sulla campagna finché non muore il giorno sia una cosa sola con il solitario e musicale rimpianto del poeta che passa la giovinezza pensando invano alle sue gioie, imprigionato dentro una timidezza fatale, rassegnato e desolato del destino che gli ha dato tanta anima per contemplare il giardino magico della giovinezza e gli ha sempre vietato di varcarne le soglie.

 
"Il passero solitario"

D'in su la vetta della torre antica (1)
passero solitario, alla campagna
cantando vai (2) finchè non more il giorno;
ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno (3)
brilla nell'aria, e per li campi esulta,
sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte (4) il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d'allegria (5), schivi gli spassi;
canti, e così trapassi
dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de' provetti giorni
non curo io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito (6), e strano
al mio loco natio, (7)
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera, (8)
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla, (9)
odi spesso un tonar di ferree canne, (10)
che rimbomba lontan di villa in villa. (11)
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell'aria aprica (12)
mi fere (13) il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica (14)
che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver (15) che daranno a te le stelle,(16)
certo del tuo costume (17)
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core, (18)
e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.


(1) è la torre o campanile della chiesa di sant'Agostino in Recanati.
(2) "avverti la vastità della campagna verso la quale è diretto e si spande il canto così melodioso del passero"
(3) Il passero è solo sulla vetta della torre, immobile, eppure la primavera brilla di luce e di colori e i campi esultano e sembrano ascoltare assorti quel canto melodioso
(4) notare il contrasto: gli altri uccelli fanno mille giri per il cielo, mentre tu, passero solitario, "stai in disparte"
(5) non ti importa di essere allegro come gli altri uccelli
(6) solitario
(7) estraneo addirittura al mio stesso luogo natio
(8) è il giorno di san Vito, patrono di Recanati
(9) di campana
(10) sono gli spari a salve dei fucili
(11) rimbomba di borgo in borgo
(12) aperta al sole, illuminata
(13) mi ferisce
(14) dileguandosi, il sole pare dire che tutte le cose di dileguano
(15) declino della vita, vecchiaia
(16) la sorte
(17) modo di vivere
(18) quando i miei occhi non parleranno più al cuore degli altri perché non vivificati dalla luce della giovinezza per essi il mondo sarà senza scopo e senza attrative
(19) il cuore del poeta tornerà indietro, ma invano agli anni della beata gioventù che avrà ormai perduta e le cui gioie non ha saputo godere


Commento alla "Sera del dì di festa": anche questo idillio, come "Il passero solitario", nasce sullo sfondo di un paesaggio dolce e sereno. è la sera di un giorno festivo: il 15 giugno 1820; la gioventù di Recanati ha festeggiato San Vito, patrono del paese. La notte è dolce, chiara e senza vento; il lume della luna si posa sopra i tetti e in mezzo ai campi e gli Appennini lontani appaiono nitidi e sereni. Ma quel terso passaggio lunare è contemplato dal poeta attraverso il velo dell'anima tormentata. Mentre la donna che gli aprì la piaga d'amore nel cuore dorme tranquilla nelle sue quiete stanze, il giovane effonde il suo lamento angoscioso sulla natura apparentemente dolce e serena. La notte è immersa nel silenzio e nel sonno: si ode soltanto il canto solitario di un artigiano. Quanto sono caduche le cose umane! Tutto passa, come quel canto che si perde nelle vie del paese. è passato il giorno festivo, succedono i giorni feriali, perfino la grandezza di Roma è tramontata; e tace anche l'angoscia di quell'amore presente che si dissolve nell'incanto della natura e nel silenzio della notte lunare.

"La sera del dì di festa"

Dolce e chiara è la notte e senza vento, (1)
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,(2)
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce (3) la notturna lampa:
tu dormi, che t'accolse agevol sonno (4)
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m'affaccio,
e l'antica natura onnipossente,
che mi fece all'affanno. (5) A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov'è il suono
si que' popoli antichi? or dov'è il grido (6)
de' nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.


(1) l'incanto di questo paesaggio lunare ti scende nell'anima con la musica delle parole che hanno un tono sereno, chiaro, trasparente; la sensazione che provi è più spirituale che visiva.
(2) non sappiamo chi sia; forse è solo frutto della fantasia
(3) attraverso le imposte la lampada brilla solo qua e là nella notte, perché poche sono le case dove la gente è ancora sveglia
(4) il sonno della donna è agevole, cioè facile, perché essa non ha inquietudini ("e non ti morde cura alcuna")
(5) "Tu dormi; io invece saluto questo cielo che nella sua limpidezza si mostra benigno alla vista mentre in realtà, verso di me è tanto crudele e insieme al cielo saluto anche l'antica natura onnipotente che mi creò perché io soffrissi e mi ha negato anche la speranza"
(6) il tempo annulla ogni cosa


Commento a "Silvia": una giovane ventenne, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta di mal sottile nell'autunno del 1818. Il poeta aveva vagheggiato in questa fanciulla, che egli chiama Silvia, una bellezza e un amore ideali: le nere chiome, lo sguardo ridente e pudico, il canto dolcissimo di lei che si diffondeva nelle vie e nelle quiete stanze, avevano svegliato nel suo cuore un sentimento vago e indeterminato composto di quei sogni e di quelle speranze che solo la giovinezza può impersonare.
Nell'aprile del 1828, dieci anni dopo la morte di Teresa, il poeta rivive con tenera e casta commozione i sentimenti di allora: Silvia tesseva e il suo canto arrivava all'orecchio e al cuore del giovane poeta, il quale lasciava i libri per inseguire sogni, speranze e illusioni. Era il maggio odoroso, il sole batteva mite sulle vie e sui campi, verso oriente si stendeva l'Adriatico, verso occidente si alzavano gli Appennini. Ed affetti e speranze si confondevano in una rispondenza sentimentale, nel cuore di Silvia e del poeta e si intonavano alla natura, anch'essa così vaga e serena. Ma in autunno, con la morte di Silvia, si scioglie questo incanto. E nel cuore del poeta rimane solo compianto e rimpianto: rimpianto delle "nere chiome", "degli sguardi innamorati e schivi", del "caro immaginare" perché con Silvia si spensero la giovinezza e le speranze di Leopardi.


"A Silvia"

Silvia, rimembri ancora (1)
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa (2), il limitare
di gioventù salivi? (3)
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili (4) intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare (5) il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte, (6)
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte, (7)
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura, (8)
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo (9) combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore

Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero (10)
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.


(1) Silvia è morta da dieci anni, ma il poeta si rivolge a lei come se fosse ancora viva perché essa è ancora presente nel suo cuore.
(2) Silvia è pensosa: forse ha il presentimento della sua morte
(3) stai per varcare la soglia della giovinezza.
(4) ai lavori femminili
(5) passare il giorno
(6) gli studi di letteratura e i libri sui quali faticavo
(7) ho consumato il mio tempo migliore sui libri
(8) Per Leopardi la Natura è madre di tutte le cose e quindi unica responsabile del nostro destino
(9) di tisi
(10) "tu, o misera speranza, cadesti quando io conobbi il senso della vita, nella sua amara realtà, quando cioè cadute le illusioni mi accorsi che la vita è solo dolore e infelicità e meta ultima rimane la morte fredda ed una tomba squallida, che tu, o speranza, mi mostravi da lontano"

Nota di Lunaria: è suggestivo anche rivedere questo passaggio così:

"tu, o misera Silvia, cadesti quando io conobbi il senso della vita, nella sua amara realtà, quando cioè cadute le illusioni mi accorsi che la vita è solo dolore e infelicità e meta ultima rimane la morte fredda ed una tomba squallida, che tu, o Silvia, mi mostravi da lontano"



Commento a "La quiete dopo la tempesta"
: anche questo idillio, come molti altri di Leopardi, si apre sullo sfondo del paesaggio recanatese, contemplato attraverso uno stato d'animo pensoso. Il concetto fondamentale del canto è che nell'uomo il dolore rimane uno stato naturale e quella gioia che talvolta ci è possibile godere, è da considerarsi tale in quanto cessazione del dolore. Osserviamo che dopo la tempesta la gioia penetra in tutti i cuori: gli uccelli tornano nel cielo "cantando e giocolando gli uni con gli altri"; la gallina ripete sulla via il suo verso; e mentre la campagna si sgombra delle nuvole e il sole sorride sulle stille della pioggia recente e gli Appennini si profilano chiari attraverso l'aria tersa, ecco l'artigiano che si affaccia allegro sull'uscio a guardare il cielo ancora umido, le donne che si affrettano a cogliere l'acqua piovana, l'erbivendolo che torna a ripetere il suo grido quotidiano lungo i sentieri. Questi istanti di gioia, però, sono nati tutti dall'affanno: durante la tempesta, quando le folgori, nembi e vento si erano scatenati sulla terra, anche colui che prima aborriva la vita cominciò a temere la morte. Ed allora cosa sono i doni e i diletti che la natura ci offre? "Gioia vana", osserva il poeta, "ch'è frutto del passato timore": gran guadagno è per l'uomo solo una breve sosta dal dolore e veramente felice può dirsi colui che la morte libera finalmente dalla pena.


"La quiete dopo la tempesta"


Passata è la tempesta: (1)
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna, (2)
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
con l'opra in man, cantando,
fassi (3) in su l'uscio; a prova (4)
vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
della novella piova;(5)
e l'erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
l'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende? (6)
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;(7)
gioia vana, ch'è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.

O natura cortese, (8)
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge (9): e di piacer, quel tanto
che per mostro (10) e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni; assai felice
se respirar ti lice (11)
d'alcun dolor: beata
se te d'ogni dolor morte risana.


(1) Il poeta avverte subito la gioia che si diffonde intorno; dopo farà le sue considerazioni pensose, ma intanto coglie la gioia negli uccelli.
(2) dal denso velo di nebbia piovigginosa.
(3) si fa, si affaccia.
(4) a gara
(5) a raccogliere l'acqua della pioggia recente.
(6) incomincia quasi con gioia.
(7) è questo il tema centrale del canto: gli uccelli, le donne del paese, l'artigiano, l'erbivendolo, tutte le creature hanno aperto il loro cuore alla letizia, ma solo dopo che la tempesta li ha atterriti. Quindi il piacere nasce dal dolore e perciò non è una qualità positiva, ma una gioia vana, che è frutto "del passato timore".
(8) "cortese" ha valore ironico.
(9) il piacere è figlio dell'affanno, ma il dolore nasce spontaneamente, è uno stato naturale dell'uomo.
(10) e quel poco di piacere che talvolta, quasi per prodigio (mostro) o miracolo, nasce dal cessare del dolore, è veramente un grande acquisto.
(11) "Puoi stimarti felice se appena ti è concesso un po' di respiro da qualche dolore"
(12) "Puoi considerarti beato se la morte ti libera da tutti i mali"


Commento a "Il sabato del villaggio": ancora un quadro di vita paesana e dei più suggestivi. Nasce nell'atmosfera di festa che si diffonde nell'aria e nei cuori la sera del sabato. Il sole sta per tramontare: la contadinella torna alla campagna col suo fascio di erba sul capo e il mazzolino di fiori per potersi ornare l'indomani del giorno festivo; l'attesa gioiosa della festa si rispecchia anche nel viso della vecchiarella, che continua a filare rivolta verso il sole che tramonta rievocando i giorni della giovinezza, quando anche ella si ornava per andare a danzare con i coetanei. Intanto scende la sera: la luna diffonde la sua bianca luce e la campana annuncia la festa imminente: alle grida dei fanciulli che giocano sulla piazzola, si accompagna il fischiare dello zappatore che torna alla sua parca mensa. E quando la notte è già alta è tutt'intorno è silenzio e pace, s'ode ancora un frequente picchiare di martello: è il legnaiolo che si affretta a finire il lavoro prima che spunti l'alba: ma lavora in letizia perché poi anche lui potrà finalmente riposare. La notazioni paesistiche, nelle quali si distende questa nota di gioia, sono semplici, limpide, serene, come le anime di quel piccolo mondo che attende il giorno festivo. Ma già il poeta ha il presentimento della pena: egli sa che l'indomani le ore recheranno tristezza e noia, perché la gioia è solo nell'attesa del bene, il quale, appena raggiunto, si rivelerà vuoto. E così l'atmosfera festosa della vigilia si risolve nel rimpianto della gioia già passata prima ancora che sia goduta. Il poeta tuttavia non vuole togliere l'illusione al cuore del fanciullo che gioca e sogna e gli augura che la giovinezza tardi per lui a venire, perché quando egli sarà uomo vedrà cadere l'incanto che ha sognato.

 
"Il sabato del villaggio"


La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erbe; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta (1)
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno; (2)
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
già tutta l'aria imbruna, (3)
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti, (4)
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.(5)
Questo di sette è il più gradito giorno, (6)
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita (7)
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.


(1) con la quale si prepara
(2) col viso rivolto verso quella parte dove il sole sta per tramontare. La luce dell'ultimo sole illumina il viso della vecchiarella che partecipa alla diffusa gioia del sabato e rievoca, senza malinconia, la sua giovinezza lontana.
(3) Il sole è già tramontato
(4) sembra che le ombre scendano dai colli e dai tetti
(5) si ingegna di terminare il suo lavoro
(6) è il motivo centrale del canto: il sabato è il più caro di tutti i giorni, perché pieno di speranza e di gioia. E domani? domani, domenica, le ore porteranno tristezza e noia. La felicità è nell'attesa.
(7) la tua fanciullezza.



Commento a "Il tramonto della luna"

Primavera del 1836: il Leopardi è ospite dell'amico Antonio Ranieri in una villa di Torre del Greco, alle falde del Vesuvio. In questo luogo incantevole egli scrive il suo ultimo canto che si apre con un paesaggio - stato d'animo, il più desolato. La luna, che con la sua luce ha inargentato le campagne e le acque volge al tramonto e lontano tra le luci e le ombre create dalla semioscurità, sorgono forme indeterminate e incerte; poi quando essa cade del tutto, anche le ombre spariscono, il buio completo incombe sulla valle e sui monti e il canto mesto del carrettiere saluta la luce che fino allora lo aveva accompagnato lungo il cammino. Anche la giovinezza, che con le dolci illusioni ha allietato la vita mortale, si dilegua come la luna; e con essa si sciolgono le dilettose immagini. Ma sulle colline e nelle valli tornerà presto a splendere l'alba; per l'uomo, svanita la bella giovinezza, non ci sarà più sorriso d'altra luce o di altra aurora. E su di lui incomberà il più grave di tutti i mali: la vecchiaia. E dopo la vecchiaia, la morte.
In questo canto Leopardi esprime il suo malinconico addio alla giovinezza che si dissolve rapida ed alla vita che egli sente venir meno; si dice anzi che gli ultimi versi siano stati dettati al Ranieri due ore prima che il poeta chiudesse gli occhi e il cuore alle vie dorate, agli orti, al "primo degli augelli sussurro", alle montagne serene, alla notte dolce e chiara senza vento, ai suggestivi paesaggi lunari che anche nelle altre liriche egli aveva rimpianto, ma con un sentimento meno desolato di quello espresso in "Tramonto della luna"


"Tramonto della Luna"

Quale in notte solinga, (1)
sovra campagne inargentate ed acque,
là 've zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obbietti
fingon l'ombre lontane
infra l'onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
nell'infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l'ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta, (2)
e cantando, con mesta melodia,
l'estremo albor della fuggente luce,
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via; (3)

tal si dilegua, e tale
lascia l'età mortale
la giovinezza. In fuga
van l'ombre e le sembianze
dei dilettosi inganni; (4) e vengon meno
le lontane speranze,
ove s'appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
resta la vita. In lei porgendo il guardo,
cerca il confuso viatore invano
del cammin lungo che avanzar si sente
meta o ragione; e vede
che a sé l'umana sede,
esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta
nostra misera sorte
parve lassù, se il giovanile stato,
dove ogni ben di mille pene è frutto,
durasse tutto della vita il corso. (5)
Troppo mite decreto
quel che sentenzia ogni animale a morte,
s'anco mezza la via
lor non si desse in pria
della terribil morte assai più dura. (6)
D'intelletti immortali
degno trovato, estremo
di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
la vecchiezza, ove fosse
incolume il desio, la speme estinta,
secche le fonti del piacer, le pene
maggiori sempre, e non più dato il bene. (7)

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; (8) che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar novamente, e sorger l'alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura. (9)


(1) Come in una notte solitaria la luna, giunta all'orizzonte, dietro gli Appennini o le Alpi oppure nel seno infinito del Tirreno, scende sopra le campagne ed acque inargentate, dove spira un vento leggero di primavera (Zefiro) e le ombre lontane formano (fingono) mille aspetti indeterminati (vaghi) ed illusori (ingannevoli) fra le acque tranquille e fra i rami, le siepi, le collinette e le ville e il mondo si scolora.
(2) La notte, dopo il tramonto della luna, resta priva di luce.
(3) Il carrettiere saluta con la melodia mesta del suo canto l'ultimo chiarore lunare che ora va dileguandosi (fuggente).
Il paesaggio leopardiano assume il tono e i colori dello stato d'animo del poeta, il quale ormai sente prossima la tanto invocata morte. Egli, di questa notte, coglie l'atmosfera desolata così aderente alla sua esperienza di vita: l'ultima luce della luna si posa sopra i campi e sui colli; ad essa succede un buio profondo che sommerge i mille vaghi aspetti della natura. Lo stesso avviene nell'uomo: la giovinezza con gli ameni inganni sfocia e si dissolve nella vecchiaia. Quanta solitudine nel cielo dopo il tramonto della luna e quanta solitudine nell'anima dopo il tramonto della giovinezza! 
(4) I sogni e i fantasmi creati dalle piacevoli illusioni giovanili.
(5) Nella vita umana l'unica età dove si gode di qualche bene è la giovinezza: ma gli Dei vollero togliere agli uomini anche la giovinezza, assegnandogli un male peggiore anche della morte: la vecchiaia.
(6) Se prima della morte (in pria) non si concedesse loro anche quell'altra metà della vita (mezza la via) cioè la vecchiezza.
(7) Intatto il desiderio, morta la speranza di appagarlo.
(8) Prive di luce: alla notte succederà l'alba. Torna l'alba, ma non le illusioni della giovinezza.
(9) Ed alle tenebre che oscurano le altre età dell'uomo, cioè la maturità e la vecchiaia, non la giovinezza - gli Dei posero come meta (segno) la sepoltura. Quanta desolazione, in questa chiusa!