Il mito di Tristano e Isotta

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Secondo una tradizione della Cornovaglia, la bella Iseult, incapace di sopportare la perdita del suo amato – il coraggioso Tristran –, morì di crepacuore e venne sepolta nella stessa chiesa ma, per ordine del Re, le due tombe furono poste distanti l'una dall'altra. 
Tuttavia, ben presto crebbe dalla tomba di Tristran un rametto di edera ed un altro dalla tomba di Iseult; questi germogli crebbero gradualmente verso l'alto fin quando gli innamorati, rappresentati dall'edera arrampicata, furono nuovamente uniti sotto il tetto a volte del cielo.


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Il primo e più suggestivo eroe dell'avventura bretone è Tristano, la cui creazione poetica sembra davvero attribuirsi a Thomas, scrittore francese del XII secolo.

Siamo in Cornovaglia, in un'epoca imprecisata, in una società di cavalieri che si muovono in mezzo alle magie e agli incantesimi più imprevedibili e sono costretti ad affrontare giganti e draghi.
L'atmosfera del racconto si presenta permeata di misteriose influenze a cui la creatura umana, che è debole, non può opporre alcuna resistenza: su questo presupposto si sviluppa la vicenda.

Regna in Cornovaglia il mitico re Marco, il cui volto è deturpato da orecchie equine. 
Il regno è succube di un'iniqua violenza giacché è costretto ad offrire annualmente al vicino regno di Irlanda un tributo di giovani vite umane.
è in questa occasione che conosciamo per la prima volta Tristano, principe di Leonois, nipote di re Marco. 
Tristano affronta ed abbatte in singolar tenzone il terribile Moroldo, figlio del re d'Irlanda, ma nel durissimo scontro rimane ferito dalla spada avvelenata dell'avversario, e la ferita è incurabile.
Tristano lascia allora la corte dello zio, che lo ama come un figlio; si allontana perché avverte pesare su di sé un avverso destino che è già implicito nel nome Tristano, il giovane triste, perseguitato dalla sfortuna.
Una nave senza vela, senza remi, senza timone lo trascina sulle coste dell'Irlanda dove Tristano è guarito dalla sorella di Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. 
Egli torna presso lo zio, appena in tempo per avere l'incarico di andargli a cercare la fanciulla cui appartiene il biondo capello che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi: giacché la bellezza di quel colore biondo ha fatto innamorare il re che vuole sposare la proprietaria.
Tristano porta a buon fine la ricerca e scopre che il capello appartiene ad Isotta la bionda, sorella di Moroldo, colei che lo ha guarito dalla piaga velenosa.
Incaricato di scortare la bella Isotta nel viaggio dall'Irlanda alla Cornovaglia, Tristano diviene protagonista di un episodio che sarà la causa permanente della sua felicità ed infelicità.

La regina, madre di Isotta, gli affida la custodia di un meraviglioso filtro magico che Isotta dovrà bere la prima notte di nozze, insieme allo sposo re Marco: quel filtro avrà il potere di suscitare tra i due coniugi un'indistruttibile ed intensa attrazione amorosa.
Ma per un errore di Brengania, la giovane ancella di Isotta, il filtro viene bevuto da Tristano e dalla bionda principessa: i giovani si innamorano. è amore passionale, fatto di carne e di sensi eccitati, amore che non conosce rischi e pudori.
Le nozze tra Isotta e Marco vengono celebrate ma la notte il re, che si illude di giacere con la bella Isotta, ha invece al suo fianco Brengania che paga con la sua verginità l'errore commesso.
Intanto i due amanti si ritrovano in tutti gli angoli del palazzo reale, del parco, del bosco, sotto un albero, vicino ad una fontana e tutto questo fino a che re Marco li sorprende in atteggiamenti inequivocabili e li scaccia dalla reggia e così i due amanti si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.
Ivi capita un giorno anche re Marco durante una partita di caccia e scopre i due giovani nel sonno. Dormono l'uno accanto all'altra, separati da una spada collocata tra i due corpi. 
Il re si commuove e decide di perdonare Isotta. La riconduce al castello mentre Tristano viene bandito e va esule nell'Armorica, una regione della Bretagna francese, non trovando pace in ugual modo. 
Decide di escogitare espedienti vari per rivedere Isotta.

è suggestiva la descrizione di questo stato d'animo di sconforto cui Tristano è protagonista.

Nella sua terra dimora Tristano
dolente, afflitto, triste e pensieroso,
Dentro di sé riflette come possa
fare per procurarsi alcun conforto.
Conforto gli bisogna per guarire;
se non lo trova, meglio val morire:
meglio morire una volta per sempre
che durar notte e dì in sì gran distretta;
meglio una volta per sempre morire
che in ogni tempo in gran pena languire...
Or egli è dunque di sua morte certo,
quando il suo amore, la sua gioia perde.
Poiché perde la sua regina Isotta
vuol morire, la morte egli invoca;
solo una cosa però gli sta a cuore,
ch'ella sappia che muore per suo amore;
che se Isotta saprà della sua morte,
forse il morire gli parrà più dolce

Il desiderio della bella Isotta diventa in Tristano un pensiero ossessivo, qualcosa che gli rode l'animo:

A tutti tien celato il suo proposito,
a nessuno lo vuole rivelare,
nemmeno al più fedele suo compagno,
per timore che quello nol distoglia.
In Inghilterra egli si vuol recare
a piedi vuole andar, non a cavallo,
per non essere tosto conosciuto
in quel paese ove egli è troppo noto:
(...)
Attentamente il suo consiglio cela
Tristano, intensamente egli riflette
(...) E l'indomani sul primo mattino,
si leva ed intraprende il suo cammino,
e va dritto, e non smette mai d'andare
finché non giunge alla riva del mare.

Quando, dopo il viaggio in incognito per nave, Tristano sbarca nella terra di Isotta, non riuscirebbe più a nascondere la sua identità se non ricorresse all'espediente della follia, al fingersi pazzo per riuscire a vedere la desiderata amante:

Sulle rive del mare s'asside.
Presto si informa dove sia il re Marco.
Gli dicon che nella città dimora
ed ivi tiene gran corte bandita.
- E dove è Isotta, la regina bella,
e Brengania, la leggiadra damigella?
- In verità, abitan qui ancor elle:
non molto tempo è ch'io ebbe a vederle;
vero è però che la regina Isotta
si mostra assai pensosa, come suole.
Appena ode Isotta nominare,
Tristano in cuore prende a sospirare
(...) perché re Marco (egli ne è ben conscio)
lo odia più di ogni altra cosa al mondo;
sa che, se prenderlo vivo potesse,
con grande gioia egli l'ucciderebbe.
Dentro sé pensa alla sua dolce amica,
dice: - Che importa, se anche mi uccide
il re? Pur debbo morir per amore
di lei: non muoio forse un po' ogni giorno?
Isotta, tanto per voi io mi dolgo;
per voi, Isotta, ora morire voglio.

Dopo vari espedienti, tra cui fingersi pazzo pur di vedere Isotta, Tristano ritorna in Armorica dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia di un duca. Il nome, la somiglianza dei tratti fisici gli richiamano alla mente Isotta la bionda; ma non c'è felicità alcuna con questa donna e ciò provoca in Isotta dalle bianche mani un sordo rancore per la sconosciuta rivale.
Si susseguono altre avventure, fin quando Tristano non rimane ancora ferito e nessuna medicina lo può guarire.
Solo la sua Isotta, la fanciulla bionda che lo aveva salvato la prima volta, potrebbe liberarlo dalla sua ferita, ma lei è lontana mentre l'altra Isotta vigila gelosa su di lui.
Una nave viene inviata a cercare Isotta la bionda nella speranza che possa giungere in tempo a salvare Tristano: se Isotta acconsentirà ad accorrere al letto dell'amico infermo la nave alzerà bandiera bianca; se Isotta rifiuterà, isseranno bandiera nera.
Passano i giorni, Tristano si aggrava. Quando la nave è all'orizzonte, e alza bandiera bianca, Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia e dal rancore, annuncia a Tristano che la vela è nera. 
Tristano, non resistendo al dolore, muore infelice.
Quando Isotta la bionda lo vede, muore anche lei di dolore.

Il mito di Tristano ed Isotta sembra simboleggiare il concetto che la passione amorosa è un nodo fatale al quale non si può sfuggire quando se ne sia gustato una prima volta il travolgente piacere.
I due amanti, che pure hanno coscienza della loro colpa, non riescono in alcun modo a liberarsi né a redimersi e restano nell'adulterio che li conduce alla tragica morte: una fine che sollecita la pietà di tutti coloro che sono sensibili alle pene d'amore.

L'influenza e la diffusione dell'immagine di Tristano, il cavaliere triste e infelice, l'eroe che celebra il culto dell'amore fino al sacrificio della vita, furono immense, e in una fase più avanzata, venne riscritto il romanzo in prosa, nel quale le vicende vennero collegate con il tema generale del Santo Graal e della Tavola Rotonda.

ALTRO APPROFONDIMENTO, info tratte da
 

Che l'accordo d'amore e di morte sia quello che risveglia in noi le risonanze più profonde, è una verità che sancisce a prima vista il prodigioso successo del romanzo.
Amore e morte, amore mortale: se non è tutta la poesia, è almeno tutto ciò che v'ha di popolare, di universalmente toccante nelle nostre letterature. L'amore felice non ha storia. Romanzi ne ha dati solo l'amore mortale, cioè l'amore minacciato e condannato dalla vita stessa. 
Abbiamo bisogno di un mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla morte, e ch'essa porta con sé la distruzione per coloro che vi si abbandonano con tutte le forze. Il mito di Tristano e di Isotta non sarà più solamente il romanzo ma il fenomeno che esso illustra e la cui influenza non ha cessato di estendersi fino ai giorni nostri. Passione della natura oscura, dinamismo eccitato dello spirito, attitudine preformata alla ricerca di una costrizione che lo esalti, fascino, terrore o ideale: tale è il mito che ci tormenta. Ed è tanto più pericoloso proprio in quanto ha smarrito la sua forma primitiva. I miti decaduti diventano velenosi come le verità morte di cui parla Nietzsche.
"Di tutti i mali, il mio differisce; perché mi piace; mi fa gioire; il mio male è ciò che voglio e il mio dolore è la mia salvezza. Non vedo dunque di che io mi dovrei lagnare, dacché il mio male mi deriva dalla mia volontà; è il mio volere che diviene il mio male; ma provo tanto piacere a voler in questo modo, ch'io soffra gradevolmente, e v'ha tanta gioia nel mio dolore ch'io sono malato fra le delizie" (Chrétien de Troyes)
L'apparente egoismo di un tale amore potrebbe da solo spiegare molti dei casi e delle tempestive malizie del destino che si oppongono alla felicità degli amanti. Ma come spiegare questo stesso egoismo, nella sua profonda ambiguità? Ogni egoismo, si dice, conduce alla morte, ma come alla definitiva sconfitta. Questo, al contrario, vuole la morte come il proprio perfetto completamento, come il proprio trionfo... Qui non rimane che una sola risposta, degna del mito. Tristano e Isotta non si amano, l'hanno detto e tutto lo conferma. Ciò che essi amano è l'amore, il fatto stesso d'amare. Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che si oppone all'amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all'infinito nell'istante dell'abbattimento dell'ostacolo, che è la morte.
Passione vuol dire sofferenza, cosa subita, prepotere del destino sulla persona libera e responsabile. Amare l'amore più dell'oggetto dell'amore, amar la passione per se stessa, dall'amabam amare di Agostino fino al Romanticismo moderno, significa amare e cercar la sofferenza. Amore-Passione: desiderio di ciò che ci ferisce e ci annienta col suo trionfo.
Perché l'uomo d'Occidente vuol subire questa passione che lo ferisce? Perché vuole questo amore il cui esplodere altro non può significare che il suicidio? Proprio perché egli conosce e prova se stesso sotto i colpi di esiziali minacce, nella sofferenza e sulle soglie della morte. Il terzo atto del dramma di Wagner descrive ben più che una catastrofe romanzesca: descrive la catastrofe essenziale del nostro sadico temperamento, questa smania repressa di morte, questo gusto di sperimentarsi nel limite, dell'urto rivelatore che è senza dubbio la più inestirpabile fra le radici dell'istinto della guerra che portiamo in noi.
Il prodigioso successo del romanzo di Tristano rivela in noi, lo si voglia o meno, una intima preferenza per l'infelicità. Sia poi questa infelicità, secondo la capacità dell'anima nostra, la "deliziosa tristezza" e lo spleen della decadenza, o la sofferenza che trasfigura, o la sfida che lo spirito getta al mondo, a noi preme ricercare ciò che può esaltarci fino a farci accedere, nonostante tutto, alla vera vita di cui parlano i poeti.  Ma questa vera vita è la vita impossibile. Questo cielo dalle nuvole esaltate, quasi un crepuscolo imporporato d'eroismo, non annuncia il Giorno, ma la Notte! La vera vita è altrove, dice Rimbaud. Essa non è che uno dei nomi della Morte, il solo nome col quale noi si osi chiamarla, pur fingendo di respingerla.
Perché a qualsiasi altro racconto preferiamo quello di un amore impossibile? Proprio perché ci piace bruciare, ed essere coscienti di ciò che brucia in noi. Profondo legame del soffrire e del sapere. Complicità della coscienza e della morte! (su di essa Hegel ha potuto fondare una spiegazione universale del nostro spirito e persino della nostra Storia)
La vera ragione è che l'avvicinarsi della morte è lo stimolo della sensualità. Essa aggrava, nel senso più completo del termine, il desiderio: talvolta lo aggrava addirittura fino a trasformarlo nel desiderio di uccidere l'altro, o di uccidersi, o di perire in un comune naufragio.

Nota di Lunaria: vedi il fenomeno del "cannibalismo sessuale" tipico di alcuni serial killer, analizzato in libri come questo:


Attirati dalla morte, lontani dalla vita che li respinge, prede voluttuose di forze contraddittorie ma che li precipitano nella stessa vertigine, gli amanti non potranno raggiungersi se non nell'istante che li priverà per sempre di ogni umana speranza, di ogni possibile amore, in grembo all'ostacolo assoluto e a una suprema esaltazione che si distrugge nel suo stesso compiersi.
"Ella m'ha interrogato un giorno, ed ecco che mi parla ancora. Per qual destino son nato? Per qual destino? La vecchia melodia mi ripete: per desiderare e per morire" (Wagner)
 
Nota di Lunaria: una bella canzone dei Cradle of Filth si intitola "Amor e Morte"
https://www.youtube.com/watch?v=A5LiCWJe5PQ








APPROFONDIMENTO: AMORE E TORMENTO NELL'AMOR CORTESE

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Tema della morte, che vien preferita ai doni del mondo:

Più mi è gradito dunque morire\che gioire di gioia volgare\perché la gioia che volgarmente sazia\non ha potere né diritto di piacermi tanto.

Così canta Aimeric de Belenoi. La "joie vilaine" la guarirebbe dal suo desiderio, se l'amore senza fine non fosse il male che egli ama, la "joy d'amor" il delirio che prevale:

...questo folle desiderio\mi ucciderà, sia ch'io parta o rimanga\perché colei che sola può guarirmi non mi compiange\e questo desiderio\benchè fatto di delirio\su ogni altro prevale

Non vuol morire ancora, perché non è abbastanza distaccato dal desiderio, perché teme di lasciare il corpo per disperazione, "peccato mortale" perché ignora ancora
a che possa servirgli\lasciar che l'anima si rapisca in estasi.

Ecco il tema della separazione, motivo dominante di tutto l'amore cortese:

Dio, come può essere\che più mi è lontana, più la desidero?

Ed ecco Guirat de Bornheil che prega la vera Luce aspettando l'alba del giorno terrestre: l'alba che lo riunirà al suo "compagno" di viaggio e quindi di prove nel mondo (questi due "compagni" non potrebbero essere l'anima e il corpo? L'anima che è legata al corpo, e pure desidera lo spirito?)

Ma, alla fine della canzone, il trovatore ha tradito i suoi voti? O ha trovato in seno alla notte la vera Luce da cui non bisogna separarsi?

Bello, dolce compagno, così ricco è questo soggiorno\che non voglio veder più alba né giorno\perché la più bella figlia che sia nata da madre\tengo tra le braccia: onde più non mi curo\di gelosia né d'alba.

Wagner, nel "Tristano", trasformerà nel grido sublime di Brangania: "Habet Acht! Habet Acht! Schon weicht dem Tag die Nacht!" (Attenti! attenti! Già la Notte cede al Giorno!) Ma anche Tristano risponde: "Che la notte eternamente ci avvolga!"

"In un frutteto, sotto un pergolato di biancospino, la dama ha tenuto l'amico tra le braccia finché la vedetta ha gridato: Dio, è l'alba! Venga dunque presto! Come vorrei, mio Dio, che la notte non finisse, che il mio amico potesse rimanere con me e la vedetta non annunciasse mai il sorgere dell'alba. Dio! è l'alba. Venga dunque presto!"

Amor, in provenzale, è di genere femminile; questo Amore che per Dante "move il sole e l'altre stelle" e di cui Guiraut dice che si libra "al di sopra del cielo" non è già la stessa Divinità dei grandi mistici eterodossi, il Dio che precede la Trinità di cui parlano la gnosi e maestro Eckhardt, e più precisamente ancora, il Dio sopraessenziale che secondo Bernard de Chartres "risiede al di sopra dei cieli" e di cui il Noys, il Nous greco, è l'emanazione intellettuale e femminile?

Leggiamo questa canzone di Peire de Rogiers:

Aspro tormento mi tocca soffrire.\Per quanto grande sia la mia ambascia per lei\il mio cuore non deve consumarsi.\Né mai mi è dato di intravvedere la promessa\di gioia, dolcezza o bene:\se pure cento gioie conquistassi con la mia prodezza\non ne farei nulla perché non so volere che lei.

E questo grido di Bernard de Ventadour:

M'ha tolto il cuore, m'ha tolto il mondo, m'ha\tolto me stesso; e infine si è sottratta anche lei,\lasciandomi solo con il mio desiderio e il mio\cuore assetato.

E in questa strofa di Arnaut Daniel, un nobile che si fece giullare:

Non voglio l'impero di Roma né che mi si faccia papa, se non posso tornare da lei per la quale il mio cuore arde e si spezza. Ma se ella guarisce il mio tormento con un bacio, prima del nuovo anno, mi avrà distrutto e si sarà dannata.

Infine, concludiamo citando i mistici arabi.

I mistici arabi insistono sulla necessità di custodire il segreto dell'Amore divino. Denunciano senza tregua gli indiscreti che vorrebbero immischiarsi nei misteri senza parteciparvi con tutta la loro fede. La lode della morte d'amore è il leitmotiv del lirismo mistico degli Arabi.

Ibn al Faridh: "Il riposo dell'amore è una fatica, il suo inizio una malattia, la sua fine la morte. Tuttavia per me la morte per amore è una vita; rendo grazie alla mia Amata d'avermela offerta. Chi non muore del suo amore non può viverne"

Uccidendomi voi mi farete vivere, perché per me morire è vivere e vivere è morire (al Hallaj)