L'Ermetismo

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L'Ermetismo è una corrente letteraria che si affermò in Italia negli anni tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Al principio fu solo il risultato di una forma di poesia nuova che ebbe come massimo esponenti Ungaretti (https://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/giuseppe-ungaretti.html) e Montale (https://intervistemetal.blogspot.com/2022/01/eugenio-montale.html), ma nessuno di questi poeti pensò di "formare una scuola", per insegnare agli altri "a fare poesia". Ungaretti diventò poeta nelle trincee del Carso e il suo canto isolato, fatto di brevi illuminazioni messe in risalto da vaste pause di silenzio voleva essere il grido soffocato di un'anima lacerata dalla guerra. Montale era uno spirito introverso che cercava invano una certezza a cui ancorare la propria infinita pena di vivere: strappava al suo silenzio interiore poche e scarne sillabe.

L'Ermetismo dell'uno e dell'altro era un fatto naturale, intimo, non il frutto di una ricerca sul valore arcano, assoluto, della parola.

Questa sarà lo scopo dei poeti che verranno dopo, che possono essere definiti ermetici: Salvatore Quasimodo, (https://quasimodopoesie.blogspot.com/) Alfonso Gatto (https://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/alfonso-gatto.html), Mario Luzi (https://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/mario-luzi.html), Vittorio Sereni (https://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/vittorio-sereni.html), le cui liriche sono da leggere ma anche da interpretare come il riflesso di un mondo ignoto, oscuro, che solo per brevissimi istanti si affaccia alle soglie della coscienza, grazie alla suggestione di un'immagine, al potere magicamente evocativo di una parola. 

Il poeta ermetico finisce col parlare un linguaggio da iniziati, che solo pochi eletti possono capire; il poeta ermetico coltiva il mito dell'incomunicabilità, la propria inguaribile solitudine.

Il termine "ermetico" fu usato per la prima volta nel 1936, da un critico della letteratura italiana, Flora, che attaccava i nuovi poeti accusandoli di creare una poesia poco chiara. L'accusa del critico diede avvio ad una polemica, e altri critici gli risposero sostenendo con motivazioni varie che la poesia ermetica fosse "poesia pura". Ciò che nessuno diceva era il fatto che l'Ermetismo era nato e si diffondeva in reazione a un clima politico dittatoriale: il Fascismo.

L'Ermetismo, in realtà, era il risultato di una profonda crisi del linguaggio che si riscontrava già in d'Annunzio e Pascoli: si trovavano a riempire di belle sonanti parole un vuoto che non riuscivano a colmare (Nota di Lunaria: non sono per niente d'accordo con questa affermazione)

Per uscire dall'equivoco della parola "che suona e che non crea", per dirla come Foscolo, occorreva partire da zero e, rompendo l'armonia tradizionale del verso, "isolare" la parola stessa nei suoi valori primitivi, musicali. Da qui la necessità di liberare le immagini liriche da ogni costruzione sintattica, abolendo d'un colpo le connessioni del discorso.

Ne è un esempio il "M'illumino di immenso", che per i difensori dell'Ermetismo erano versi degni del miglior Leopardi, perché sintetizzava al massimo lo stupore dell'uomo di fronte all'Infinito; secondi i critici dell'Ermetismo erano una presa in giro.

Un altro esempio è la poesia ungarettiana dedicata ai soldati: 

"Si sta - come d'autunno - sugli alberi - le foglie"; lette senza saperne il contesto, queste parole non dicono niente, ma se si leggono con le pause volute dal Poeta e conoscendo il loro contesto, ecco che creano una suggestione, una tristezza senza rimedio, carica di drammaticità: il campo di battaglia, i soldati accasciati nel fango, il dolore per un destino che li tiene sospesi sul filo della morte, proprio come le foglie d'autunno che la prima raffica di vento spazza via.

Attraverso l'Ermetismo la poesia italiana si liberò definitivamente degli ultimi e pesanti retaggi dell'Ottocento, prendendo contatto con la più moderna poesia europea.

Ecco perché gli Ermetici parlavano di poesia pura: l'unica forma accettabile era la lirica breve, basata su poche, folgoranti immagini, che andavano collegate mediante gli arcani rapporti suggeriti dal loro accostamento, non dal tradizionale tessuto logico di un discorso.

Era la poetica dell'analogia che tanto favore aveva incontrato presso i simbolisti:

"L'autunno è già venuto - una tomba di ghiaia - scoscende nell'imbuto - di porfido la baia"

Tuttavia, nessuno dei poeti di quegli anni fu disposto ad accettare l'etichetta di "ermetico", che restò per identificare "una scuola" della poesia italiana in un periodo di crisi: i suoi stessi genitori rifiutarono di riconoscere questo loro figlio. Eppure il suo nome vanta una certa nobiltà classica: deriva dal mito di Mercurio, che sotto l'appellativo di Ermete Trimegisto avrebbe istituito le scienze occulte...






Nota di Lunaria: un cd che ho sempre collegato all'Ermetismo, specie alle poesie di Luzi (che è il mio preferito, insieme a Quasimodo) è "Spleen and Ideal" dei Dead Can Dance, con quel suo sound così mistico e inquietante... e poi già il nome stesso della band è proprio un frammento ermetico: eh sì, I Morti Possono Danzare...




 Vedi anche: https://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/poesia-del-900.html

Igino Ugo Tarchetti: una poesia inedita

Poesia inedita di Igino Ugo Tarchetti, trascritta su un diario, datata 1863; tra le pagine, è stata conservata anche la fotografia della donna amata, che compare accanto al poeta.


Oh Lunaria, Vi vidi tra l'ellera (1) 

e i verdi gigari stillanti acre tosco, (2)

e riverberante di Voi, col cuore traboccante di passione,

mi accostai, bramando l'imago Vostra, nascosta da pizzi e velluti.

In un avel (3) calati, per l'amplesso, 

ho ancora in mente impresso

i Vostri capelli corvini,

a cui l'alma consacro,

foschi, tutt'intorno disciolti sul candido  

eburneo collo, di Dulcamara sentore, (4)

che reclinate giacente sulle mie labbra, 

i Vostri occhi fatali, come Aconito cobalto (5)

che infesta le lande d'Albione,

e la Vostra purpurea bocca che esala, con languore, 

"Sii Mio!" 

E il sospiro ci accomuna

mentre mi accosto al perlaceo Vostro seno

scostando il drappo purpureo, l'acherontea veste che lo cela.


Voi, Domina, nell'ombrosa grotta, 

più oscura eppur diafana rilucete, 

mentre l'angue, ben ascoso, (6) sovente tra le urne dei sepolcreti (7)

o in fra i sassi nelle cimmerie grotte 

spia i nostri convegni

e la procella, atra, (8) già rimbomba 

e di vento nocente (9) lo strepitare sconquassa l'aere, (10)

la densa nube si affosca, laggiù, nel precipizio a strapiombo, 

e il castello diroccato (11) è esposto alla furia d'Aletto degli Austri.


Oh Lunaria! Voi sola, Voi diletta! Voi Donna Sublime che amo!

Vi amai dal primo istante, nell'erma brughiera 

in fra le ombre crepuscolari,

tra le Dature sbocciate, (12) il ronzio dell'Acherontia (13)

e le sulfuree bacche di Belladonna (14) che riverberano, 

alle tue chiome fosche, mentre, lugubre, aleggia intorno la civetta

e lo spicchio di luna ingentilisce le aspre pendici

dai taciti orrori, gli aspri monti di stigia Notte, il volo del Vespertillo. (15)

Oh Lunaria! Voi sola, Voi diletta! Voi Donna Sublime che amo!

Vi amai al primo sguardo, mentre le alte superbe ruine gotiche ombreggiavano il suolo, (16)

tra sterpi e spine il Vostro passo ondeggiava grazioso.

E la campagna si copriva di fosca ombra e bruma e Voi, Diva, 

l'alma mia rischiaraste, il desio di Voi, e Voi sola, nacque. 

Eccomi a Voi, Lunaria, Vostro in perpetuo, sempiterno Vostro. 


Oh, il nostro amore sia eterno

e ci faccia da tomba, tra rose e gigli,

mentre l'ombra del tempo, il crudo verno, (17) si oblia di noi.


NOTE:

(1) Edera

(2) Gigaro, Arum maculatum, pianta velenosa che cresce nei luoghi ombrosi. Come testimonia la poesia, Tarchetti amava moltissimo passeggiare nei boschi in compagnia della donna amata, Lunaria, una celebre collezionista di libri che organizzò un salotto letterario nella Milano ottocentesca.

(3) Trattasi dei cimiteri di campagna, all'epoca molto frequenti in Lombardia.

(4) Pianta velenosa dai bellissimi fiori violetti.

(5) Altra pianta velenosa, dagli splendidi fiori blu.

(6) Serpente

(7) Questi continui riferimenti sepolcrali non devono stupire; Lunaria per un periodo soggiornò in Inghilterra, dove lesse i classici della Poesia Sepolcrale, che portò con sé in Italia; è plausibile che sedusse Tarchetti proprio declamando i versi di Gray o Parnell.

(8) Riferimenti rinascimentali e barocchi alla tempesta, che il poeta ha inserito per omaggiare la donna amata, essendo lei una grande lettrice e collezionista dei classici del 1500 e 1600. 

(9) Dannoso.

(10) Il cielo.

(11) Potrebbe trattarsi di un riferimento al celebre dipinto di John Martin, "The Bard".

(12) La Datura è una pianta velenosa; il fiore è bianco e sboccia durante le ore serali.

(13) L'Acherontia è una falena, celebre per una macchia impressa sul suo corpo che ricorda la "testa di un morto".

(14) Il Poeta associa le bacche nere di Belladonna, pianta velenosa, ai capelli della donna amata.

(15) Si notino i riferimenti all'oltretomba: lo Stige e il pipistrello.

(16) Tarchetti e Lunaria andavano frequentemente a visitare le rovine; probabilmente egli si innamorò di Lunaria a Castelseprio, vedendola passeggiare tra le rovine.

(17) L'inverno crudele.  


Un racconto inedito...

"Una Nobile Follia" (finale alternativo)

Ovunque noi ponevamo il piede, la morte ci aveva preceduti. Non vi era più lembo di terra o di mare ove la guerra, il colera o le febbri non avessero mietuto migliaia di vittime.
L'esercito di terra periva nelle battaglie, la flotta di morbo; entrambi dovevamo lottare coi venti, coi ghiacci, colle nevi, colle spaventevoli tempeste dell'inverno. Gli uomini e la natura combattevano contro di noi una battaglia formidabile. Non era più apprezzata la esistenza di un uomo di quanto lo sia oggi quella di un acaro: la morte appariva quasi denudata di tutto il suo orrore, tanto era l'abitudine di scorgerla, e tanti e sì grandi i dolori che la rendevano dolce e desiderata.
Negli tormentosi di quelle lugubri giornate d'inverno, sepolti in quelle profonde capanne scavate nella terra e coperte di uno strato immenso di neve, io pensavo a quelle scene di lutto e di orrore che si svolgevano intorno a me, a quelle che mi avevano preceduto nello scorso periodo della guerra.
Rammentavo Sinone, ove ci eravamo trattenuti alcuni giorni, e dove, all'aprirsi della campagna, era stata combattuta la più sanguinosa battaglia navale di cui gli uomini abbiano conservato memoria. 
Dodici navi turche, chiuse nel porto per inclemenza del tempo, erano state sorprese e attaccate dalla flotta nemica.
La lotta, accettata per l'eroismo della disperazione, cominciava a mezzogiorno e cessava dopo un'ora di notte.
La città incendiata, la flotta assalita intieramente (1) distrutta, otto navi colate a picco, le altre rotte o sfasciate, il fondo del mare nel porto disseminato di cadaveri.
(...) Io traevo una strana voluttà dal racconto delle battaglie avvenute nello svolgersi di quel primo periodo della guerra.
Sentivo che la mia natura ne subiva una influenza fatale, ma mi compiacevo meco stesso della mia infermità, e quasi desideravo di alimentarla. (...) Un giorno andai a piangere su quei dirupi ove si era combattuta quella grande battaglia di giganti.
Il terreno mostrava ancora qua e là le traccie (2) spaventose di quella lotta: i solchi delle ruote, le orme dei piedi umani e delle zampe ferrate de' cavalli, le pozzanghere di sangue che avevano lasciato nell'asciugare una crosta ampia e nerastra, armi e soldati insepolti, cadaveri che cadevano a brani dai pruni dei dirupi a cui erano rimasti sospesi, sepolture scoperte dallo sciogliersi delle nevi che avevano franato i terreni, e da cui apparivano monti di corpi corrotti.
Era stata una lotta combattuta nelle tenebre - procelloso il cielo, velata la terra di una nebbia fitta e profonda (...) Si ammucchiavano i cadaveri e i vivi per superare sopra di essi il fossato, ma l'artiglieria li respingeva sugli altri: pochi fortunati si salvavano quando già il ridotto era pieno, passando sui corpi degli uccisi. (...) Allorché si volle imprendere all'indomani la sepoltura dei morti, s'ebbe fatica a cacciarne le miriadi di corvi e di astori che, attratti dal fetore dei cadaveri, si erano calati a nubi su di essi, e ne avevano divorato gli occhi e le labbra, benché alcuni di quegli infelici non fossero per anco spirati.
Il sangue si era arrestato in sì grande quantità in alcuni declivi del terreno, che vi aveva formato delle pozzanghere, le quali impedivano il passo ai cavalli; alcuni soldati erano rimasti morti in piedi nelle macchie, onde le loro membra, irrigidite dal gelo della notte, avevano degli atteggiamenti minacciosi e severi; i fianchi dei dirupi erano segnati di lunghe striscie (3) di sangue, e spesso dai roveti che crescevano lungo le loro gole cadevano dei cadaveri lacerati come frutti avvizziti dagli alberi. (...) Tali erano le imagini (4) che dovevano presentarsi di continuo alla mia mente, imagini che mi struggevo io stesso di evocare, al cui aspetto inorridivo e tremavo, e dalle quali nondimeno io non sentivo l'ardimento di divellermi. A ciò si aggiungeva la vista degli orrori che le febbri e il colera spargevano nel nostro campo, si aggiungeva la vita inoperosa e meditativa della tenda, e i freddi crudeli dell'inverno, e l'incertezza del nostro destino in una terra inclemente e lontana.

E improvvisamente La vidi! Ella avanzava, come Apparizione Divina, camminando tra i filari di ossa e dei grossi sassi che parevano lapidi e antiche vestigia.
I muri diroccati, tutto quello che era sopravvissuto ai bombardamenti, troneggiavano come le vedute di rovine del Piranesi. 
La guardavo, incantato, mentre veniva verso di me, la lunga veste drappeggiata che turbinava nella gelida brezza.
I Suoi Lunghi Capelli Meravigliosamente Corvini ondeggiavano quasi volessero intrappolarmi nelle loro spire.
Donna? Spettro? Dea? Ah, non sapevo dirlo! 
Ella avanzava, fra il biancore delle ossa disperse che punteggiavano il lugubre terreno di brughiera, con le fosse improvvisate nelle quali avevamo sepolto i soldati caduti.
I rovi secchi erano come trincee, abbarbicati a fossati, con la terra ancora umida di sangue.
Ah! Costei avanzava verso di me, guardandomi con Occhi Cerulei; contemplai la Sua Algida Bellezza, perdendo la percezione del tempo.
Mattina? Pomeriggio? Sera? Ah, non sapevo più!
Ella portava con sé il Crepuscolo e io desiderai ardentemente il Suo Abbraccio. (5)
Poi, mi parve di vedere la luna, una fioca luna all'orizzonte, e una bruma che, lentamente, copriva le sterpaglie, dissolvendole. 
Ah! E fu allora, quando la foschia celava la brughiera e tutto aveva occultato, che concupii ardentemente questa Donna Divina, non so se Dea o Vampira, in quel campo!, in quella terra fumigante morte!, La concupii, tra gli avelli. 
Ella indossava una veste più cupa dell'ebano, ravvolta come in un sudario e sussurrava "Sii Mio! Sii Mio! Solo Mio!"

Mi vennero in mente quei versi del Monti (6)

"Sai tu qual sangue 
dalle mani mi gronda? Hai tu veduto 
spalancarsi i sepolcri, e dal profondo
mandar gli spettri a rovesciarmi il trono?"
"Allor che tutte
dormon le cose, ed io sol veglio e siedo
al chiaror fioco di notturno lume;
ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro
starmi d'incontro, ed occupar la porta
minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
in manto sepolcral, quel manto stesso
onde Dirce coperta era quel giorno
che passò nella tomba. I suoi capelli,
aggruppati nel sangue e nella polve,
a rovescio gli cadono sul volto,
e più lo fanno, col celarlo, orrendo."
Parmi allora sentir sotto la mano
tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tòcco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro
traverso i fianchi e mi trascina a' piedi
di quella tomba, e - qui t'aspetto - grida,
e ciò detto, sparisce."
"vieni pur: sangue chiedesti;
E questo è sangue.
L'agonia di morte
lo conduce al delirio."

E poi giacqui con lei, tra le foglie d'edera, un cupio dissolvi dove Ella riluceva nella Sua Bellezza Adamantina, avvolta in quel sudario.


Note:

(1)(2)(3)(4) Così nel testo originale

(5) Citazione che capiranno i veri fans dei Cradle of Filth



(6) "Aristodemo" di Vincenzo Monti










Le frasi più belle della "Touched saga"


"La morte, se sopraggiunge senza avviso, per quanto crudele non fa così paura, se non ti lascia il tempo di realizzare ciò che sta per accaderti. Conoscere il proprio destino, invece, è una condanna terrificante, forse peggiore della morte stessa. Un preludio alla follia. Temere lo spettro della morte a ogni respiro è uno straziante conto alla rovescia che ti sfinisce, privandoti della volontà di opporti purché l'eco del suo sussurro si plachi nel gelido silenzio che porta via ogni cosa. è come un veleno letale che agisce silenzioso prosciugando le tue forze, abbattendo le difese della tua mente, fin quando arrivi al punto di desiderare di arrenderti al suo conforto, lasciando che ti avvolga con il suo manto nero, pur di evitare che sia la paura stessa a ucciderti... lentamente. Quell'Angelo della Morte era lì per me e sarebbe presto venuto a prendermi perché, in un modo o nell'altro, io dovevo morire. Era il mio destino. E chi ero io per contrastarlo?"



Byron e il Male

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Nel 1816 George Gordon Byron abbandonò l'Inghilterra, profondamente disturbato dallo scandalo che aveva provocato la sua separazione da Annabella Milbanke.

A Londra lo si accusava di libertinaggio, di omosessualità, di incesto e Caroline Lamb, la sua ex amante, si era vendicata facendo uscire "Glenarvon", un romanzo gotico, con protagonista una sorta di caricatura, malinconica, cinica e crudele, di Byron stesso.

Byron, fin da bambino, era sofferente per la sua menomazione: era zoppo; e fu specialmente la storia di Caino ad Abele a catturare la sua attenzione: 25 anni dopo Byron scrisse il dramma "Cain" affrontando il problema della predestinazione (Byron fu molto influenzato dal calvinismo e già ad 8 anni la sua bambinaia gli leggeva i Salmi), del destino, del libero arbitrio e del Male; in questa opera di Byron possiamo vedere il suo grande entusiasmo per "Death of Abel" di Gessner.

L'idea di essere predestinato al male fu rafforzata da "Zeluco", un romanzo gotico scritto da John Moore: il protagonista, un misantropo, viene spinto da forze incontrollabili a compiere misfatti.

Il fatto che alcuni parenti di Byron fossero stati giudicati pazzi influì sul carattere del poeta, che giunse a vedere nella malformazione delle sue gambe un'anticipazione del castigo di Dio.

Il successo e l'acclamazione del mondo londinese arrivò con il successo dell'opera byroniana "Il Pellegrinaggio del giovane Aroldo"; il protagonista dell'opera è quasi autobiografico, visto che Byron dal 1809 al 1811 peregrinò in Portogallo, Spagna, Albania, Grecia. 

Le donne adoravano Byron ed erano allo stesso tempo terrorizzate da quanto si vociferava su di lui, dal suo sguardo in tralice, improvviso e penetrante, insolente. Byron finì per incarnare il simbolo del male, un ribelle che per bocca di Lucifero e Caino lanciava il suo atto d'accusa contro le ingiustizie del destino e la stupidità umana.

Vedi anche: (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/09/byron-commento-al-manfredi-caino.html)   https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/11/byron-ma-prima-inviata-sulla-terra-in.html


I Personaggi dell'Amleto e il Suicidio

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William Shakespeare nacque in Inghilterra nel 1564. Dopo aver esercitato vari mestieri, divenne attore drammatico, poi autore di molte opere che restano fra le più importanti del teatro del suo tempo. Morì il 23 aprile 1616.

"Amleto", insieme al "Macbeth" è la tragedia più famosa di Shakespeare e venne composta nel 1601. Il suo protagonista è una tragica, struggente immagine dell'incertezza umana di fronte al problema del Bene e del Male: una delle più grandi figure che la mente di un poeta abbia mai concepito e certo uno dei più affascinanti personaggi teatrali.  Accanto a lui compaiono personaggi che rappresentano mirabilmente i sentimenti e le passioni umane, dalle più nobili e pure alle più abbiette e tormentate.

Trama: il principe Claudio ha ucciso il fratello, re di Danimarca, e ne ha usurpato il trono; ma il fantasma del morto appare al figlio Amleto e gli svela il tradimento. Amleto compie vendetta dell'usurpatore e dei suoi seguaci ma rimane ucciso in un tranello da essi ordito per sbarazzarsi di lui.

AMLETO: Colto, sensibile, portato alla riflessione più che all'azione, il giovane principe di Danimarca si trova di fronte al compito di vendicare la morte del padre ucciso a tradimento. Amleto compie la sua missione di vendetta ma finisce per essere travolto dai tragici avvenimenti di cui è protagonista.

ORAZIO: Amico di Amleto, è l'unico che lo segue fedelmente accettando le sue stranezze e condividendo il suo tormento, pur non comprendendo pienamente il dramma che travaglia l'animo del principe. è lui che raccoglie le ultime parole di Amleto e che ne conserva la memoria quando il dramma si è concluso.

CLAUDIO: Zio di Amleto, diviene re di Danimarca uccidendo a tradimento il fratello, il padre di Amleto. è una figura cupa, spregevole, sempre tormentata dal rimorso.

GERTRUDE: Madre di Amleto, travolta da un'indegna e insana passione, sposa l'usurpatore Claudio dopo il turpe assassinio del marito, padre di Amleto. L'enormità del suo delitto, di cui sembra non sentire il peso, e la sfrontatezza della sua condotta sono la causa diretta del grande dramma di Amleto.

POLONIO: il vecchio lord Ciambellano, ipocrita e servile che trama insieme all'usurpatore Claudio contro il principe Amleto.

OFELIA: Figlia di Polonio, ama ed è a sua volta amata dal principe Amleto. è una fanciulla pura e dolce che sarà vittima inconsapevole della terribile tragedia che incombe su tutta la famiglia reale danese.

Una delle scene più famose di "Amleto", oltre a quella dell'apparizione del fantasma, è l'annuncio del matrimonio di Re Claudio con la moglie del sovrano da poco scomparso. Amleto resta sconvolto da quello che ascolta: non comprende come la madre e lo zio possano aver preso una simile decisione a meno di due mesi dalla morte del padre.

ATTO I, SCENA II

Amleto: Oh potesse questa carne troppo solida fondersi, dissolversi e liquefarsi in rugiada! Oh se l'Eterno non avesse fissato la sua sacra legge contro il suicidio! (...) Due mesi appena dopo la sua morte... no, neppure; meno di due. (...) Oh Dio, una bestia, che non ha il dono della ragione, avrebbe pianto più a lungo - ecco, sposa mio zio, fratello di mio padre... nello spazio di un mese! Prima ancora che il sale di quelle lacrime indegne avesse finito di arrossarle gli occhi, era già risposata. Oh scelleratissima fretta... Dal male non può nascere che male...

Il triste soliloquio del giovane principe che vede crollare intorno a sé tutto ciò in cui credeva, la fedeltà, la dignità, il rispetto, e trionfare solo la sete di dominio e di piacere, viene interrotto dall'arrivo dell'amico Orazio, accompagnato da Marcello e Bernardo.

Orazio informa Amleto dell'apparizione cui egli stesso ha assistito e la notizia porta un nuovo turbamento nella mente di Amleto. Egli si fa promettere il silenzio dai suoi amici e stabilisce di trovarsi quella sera stessa, insieme a loro, sui bastioni davanti al castello. Giunge la sera. Sui bastioni Amleto e i suoi amici attendono che riappaia il fantasma; e intanto giungono alle loro orecchie le voci e i canti dei cortigiani che festeggiano, nel salone del castello, l'annuncio delle nozze del nuovo re con la regina Gertrude. Il fantasma compare all'improvviso: esso fa cenno ad Amleto di seguirlo, e Amleto si muove verso di lui. Il fantasma è proprio quello del padre e dalle sue parole Amleto viene a scoprire la verità.

Atto I, scena V

Spettro: Io sono lo spirito di tuo padre, condannato per un certo tempo a vagare di notte e a digiunar tra le fiamme di giorno... (...) Vendicane l'infame, lo snaturato assassinio.

Amleto:  Ch'io subito lo conosca! Ch'io possa, con ali rapide come il pensiero... volare alla vendetta!

Spettro: (...) Mentre nell'ore meridiane riposavo come di consueto in giardino, tuo zio si avvicinò furtivo a me che dormivo senza sospetto e da una fiala mi versò dentro l'orecchio l'essenza mortifera del giusquiamo (...) Nel sonno io fui privato tutt'assieme della vita, della corona, della sposa... Ah orrore! orrore! orrore!

Dopo questo colloquio, Amleto è profondamente mutato e tutti, alla corte di Danimarca, parleranno della sua follia; Amleto lascia che la sua mente vaghi sui sentieri della follia ma non perde mai la coscienza del proprio tormento. Una delle scene più famose è la recita del dramma allestito dalla compagnia di attori, in cui Amleto attende la risposta al suo dubbio.

Il giovane principe passeggia solitario in una sala del castello, parla e si ascolta: le sue parole sono il disperato lamento di un uomo che si sente posto di fronte al più drammatico problema dell'esistenza. Che cosa è più nobile: sopportare anche le sventure più dolorose oppure eliminarle per sempre con un tragico gesto, la morte? Amleto sembra preferire per un attimo quest'ultima soluzione ma l'illusione dura poco. Quali sogni verranno a turbare il sonno eterno, cioè quale sarà il destino che attende il suicida che si è spogliato della vita? La morte volontaria pone fine ai dolori terreni, ma non ne prepara forse altri, più atroci? Ed è proprio la paura del destino che lo aspetta dopo la morte, il pensiero dell'aldilà che ferma il giovane principe.

"Essere o non essere: il dilemma è questo, se sia più nobile tollerar le percosse e gli strali d'una sorte oltraggiosa oppure levarci a combattere tutti i nostri dolori e risolutamente finirli? Morire, dormire... null'altro. E col sonno dar termine agli affanni dell'animo e all'altre infinite miserie che sono l'eredità della carne... Morire, dormire... Dormire! Sognare, forse. Ah, ma questo è il punto: perché il pensiero da quali sogni possiamo essere visitati in quel riposo di morte, quando saremo spogli di quest'involucro terreno dovrà pur trattenerci; anzi, è codesta idea che ci fa reggere tanto a lungo la sventura di vivere: e chi sopporterebbe altrimenti il flagello e le offese del tempo, l'ingiuria degli oppressori, la villania dei superbi, gli spasimi dell'amor disprezzato, le lungaggini della giustizia, l'arroganza dei potenti e gli sfregi che l'umiltà dei meritevoli subisce dagli indegni, se si può liberarsene da sé con un sol colpo di lama? Chi vorrebbe portar sudando e gemendo il peso d'una logorante esistenza, se la paura di qualcosa oltre la morte - l'inesplorato paese donde nessun viandante fece mai ritorno - non trattenesse la nostra volontà facendoci preferire i mali presenti ad altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende codardi..."

Per concludere: "Amleto" è la storia di un delitto e di una tarda vendetta. Una trama semplice, comune a decine di tragedie, ma il genio di Shakespeare ha dato vita ad una rappresentazione acuta e potente della natura umana. Il problema centrale, da cui è dilaniata la mente di Amleto, è quello di riuscire a punire un orrendo delitto senza farsi trascinare da un impulso incontrollato: fare giustizia, e non solo compiere una vendetta. Ma può l'essere umano superare completamente le proprie passioni? Il tremendo interrogativo rimane senza risposta. è il destino a decidere la conclusione della vicenda.

Amleto uccide l'usurpatore solo quando, morente, capisce di non avere più tempo, e scompare portando dentro di sé il suo dubbio atroce. Intorno ad Amleto, come un grande affresco, si muovono tutti gli altri protagonisti: Claudio, il cupo assassino che è tormentato dal rimorso, ma non si redime; Gertrude, donna colpevole e indecisa, che non sa risolversi a tornare indietro; Ofelia, fanciulla innocente, vittima della trageda; suo padre Polonio, che ha rinunciato alla sua dignità per un po' di potere. Orazio, l'amico fedele, Laerte, ingenuo. I loschi cortigiani Guildenstern e Rosencrantz."Amleto" è un dramma che dall'inizio carico di presagi si snoda attraverso vari episodi con un crescendo incalzante, fino al finale tragico.

Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/search?q=shakespeare