Ecco come i cronisti del Trecento raccontano la storia del terribile flagello che grandeggia sinistramente nel prologo del Decamerone.
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Nell'anno del Signore 1348 fu nella città di Firenze e nel contado grandissima pestilenza; e fu di tale furore e di tanta tempesta, che nella casa dove s'appigliava nessuno voleva servire i malati; quelli che li servivano, morivano del medesimo male; e quasi nessuno passava il quarto giorno; e non valeva né medico né medicina. Medici non si trovavano, perocché morivano come gli altri. Quelli che si trovavano, volevano smisurato prezzo in mano prima di entrare nella casa d'un malato; ed entrativi, gli toccavano il polso col viso volto addietro, e da lungi volevano vedere l'urina, tenendo cose odorifere al naso. Il figliolo abbandonava il padre, il marito la moglie, la moglie il marito, l'uno fratello l'altro. Tutta la città non avea a fare altro che portare morti a seppellire.
Molti ne morirono di fame, per il fatto che, come uno si poneva in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli dicevano: "Io vo per lo medico" e serravano pianamente l'uscio sulla via; e non vi tornavano più.
Perché nessuno o pochi volevano entrare in una casa dove ci fosse un malato; ma neppure volevano accogliere quelli che, sani, uscissero dalla casa dal malato; e dicevano: "Egli è affatappato, non gli parlate." Moltissimi morivano senza esser veduti, che stavano in sul letto tanto che puzzavano. E i vicini, se ve ne erano, sentito il puzzo, mettevano mano alla borsa e lo mandavano a seppellire. Le case rimanevano aperte, e nessuno era tanto ardito da toccare nulla, che parea che le cose fossero avvelenate.
Si scavarono in ogni chiesa fosse profonde infino all'acqua, larghe e cupe, perché era tanta la gente da seppellire; quegli a cui toccava, si metteva di notte il morto in spalla, e lo gettava in queste fosse, o pagava gran prezzo a chi lo facesse. La mattina se ne trovavano assai nella fossa; si prendeva della terra e gliela si gettava addosso; e poi veniano gli altri morti sopr'essi, e poi la terra addosso a loro, a suolo a suolo, con poca terra.
Li beccamorti che facevano questi servigi, erano prezzolati di sì gran prezzo, che molti si arricchirono; ma molti morirono.
Le serviziali che servivano i malati, volevano da uno a tre fiorini per dì, più le spese di casa. Le cose che mangiavano i malati, confetti e zucchero, costavano smisuratamente. Fu venduto da tre a otto fiorini la libbra di zucchero, e al simile gli altri confetti. I pollastri e più gli altri pollami, carissimi; l'uovo saliva di prezzo del doppio; e beato che ne trovava, cercando per tutta la città.
Lo vestire di "stamigna" i morti come si usava, che soleva costare a donna, tre fiorini, arrivò al prezzo di fiorini trenta, e sarebbe andato a fiorini cento; senonché si levò l'uso della "stamigna", e chi era ricco vestiva di panno, e chi non ricco, veniva cucito in un lenzuoletto.
Venne vietato di portare in città le frutta nocive come susine acerbe, mandorle in erba, fave fresche, fichi e ogni altra frutta non utile e non sana. Intanto molte processioni e reliquie e la tavola di Santa Maria Impruneta vennero andando per la città, invocando: "Misericordia" e facendo orazioni; e venivano poi fermate sulla ringhiera de' Priori.
E così, chi si fuggiva in villa, chi nelle castella per mutare aria. Niuna Arte si lavorava in Firenze; tutte le botteghe serrate, tutte le taverne chiuse, salvo speziali e chiese.
La gente badava a salvarsi l'anima.
Era tale la paura, che tutti tremavano ed attendevano la morte di giorno in giorno, e pensavano più all'anima che al corpo. Se uscivano dal contagio sani e salvi, allora si ricordavano dei loro beni e facevano testamento.
Era uno spettacolo vedere quanti si affannavano a far testamento, notte e giorno, presso giudici e notai.
Questi naturalmente se ne approfittavano, e chiedevano cifre grossissime; e anche trovar testimoni era diventato carissimo. Quando qualcuno li cercava domandavano "è già scritto il testamento?" Se non era scritto, non ci andavano; se già era scritto, ci andavano, ma stavano sulla porta.
Questa pestilenza cominciò di marzo e finì di settembre 1348.
E le genti cominciarono a tornare. E furono tante le case piene di tutti i beni, che non avevano signore, ch'era uno stupore; poi si cominciarono a vedere gli eredi di questi beni. E tutti cominciarono a far sfoggio, nei vestimenti, e nei cavalli, sia le donne che gli uomini. I pochi che rimasero vivi si ritrovarono tutti ricchi; tutti spendevano fiumi di denaro per l'anima dei defunti; i chierici facevano baldoria dal mattino alla sera; tutti gli ordini e i monasteri si arricchivano. Anche i laici non avevano da lamentarsi, ché per ogni loro mestiere trovavano tutto ciò che volevano.
Nell'infuriare del flagello molti, disprezzando i beni terreni e pensando solo alla morte, non si erano preoccupati di ereditare dai parenti ricchi, e non avevano badato a essere inclusi nei loro testamenti: per cui in seguito ci furono parecchi amari pentimenti per le buone occasioni perdute, e tanta invidia per quelli che con tal mezzo si erano arricchiti. Passata la gran paura gli uomini ripresero vigore: chi non aveva moglie si maritò e le vedove si risposarono e andarono a nozze le giovani, le vecchie e le quasi bambine; anche le avvizzite, e anche le religiose, che gettarono l'abito.
Molti frati lasciarono la tonaca per sposarsi, e ci furono uomini di novant'anni che si ammogliarono con ragazzine. Tanta era la fretta che molti non attendevano neppure la domenica per rimaritarsi.
Finalmente, rifatto ordine in Firenze, si provò che fra maschi e femmine, piccoli e grandi, dal marzo infino all'ottobre ne erano morti novantaseimila.