Gustavo Adolfo Bécquer "Il Raggio di Luna (leggenda di Soria)", 1862
Io non so se questa è una storia che sembra favola o una favola che sembra storia; quello che posso dire è che c'è una verità nel suo fondo, una verità molto triste, della quale forse io sarò uno degli ultimi ad approfittare, data la mia capacità di immaginazione.
Con questa idea un altro probabilmente avrebbe scritto un volume di filosofia lacrimosa; io ho scritto questa leggenda con l'idea che coloro che non riusciranno a trovarci niente sotto la superficie possano almeno divertirsi un poco.
I
Era nobile, era nato tra il frastuono delle armi, e l'insolito clamore di una tromba di guerra non gli avrebbe fatto alzare il capo neanche per un istante, né staccare gli occhi un secondo dall'oscura pergamena nella quale leggeva l'ultima cantiga di un trovatore.
Chi lo voleva trovare non lo doveva cercare nello spazioso cortile del suo castello, dove i palafrenerie domavano i puledri, i paggi addestravano i falconi al volo e i soldati trascorrevano i giorni di riposo ad affilare il ferro della lancia su una pietra.
"Dove sta Manrique, dov'è il vostro signore?" chiedeva qualche volta sua madre.
"Non sappiamo", rispondevano i suoi servitori. "Forse sarà nel chiostro del monastero di Peña, seduto sul bordo di una tomba, con la speranza di cogliere qualche parola della conversazione dei morti, o sul ponte, a vedere scorrer via una dietro l'altra le onde del fiume sotto gli archi; o rannicchiato nella spaccatura di una roccia e intento a contare le stelle del cielo, a seguire una nube con gli occhi o a contemplare i fuochi fatui che passano come fulmine sulla superficie dei laghetti. Si troverà da qualunque parte, ma non dove sta il resto del mondo."
Effettivamente Manrique amava la solitudine e la amava a tal punto che qualche volta avrebbe desiderato non avere ombra, affinché la sua ombra non lo seguisse dappertutto.
Amava la solitudine perché, dentro di sé, dando briglia sciolta all'immaginazone, costruiva un mondo fantastico, abitato da bizzarre creature, figlie dei suoi deliri e delle sue illusioni di poeta, perché Manrique era poeta; infatti mai si era sentito soddisfatto delle forme nelle quali poteva racchiudere le sue idee, e mai le aveva racchiuse nello scriverle.
Credeva che tra le braci rosse del focolare abitassero spiriti di fuoco dai mille colori, che correvano come insetti d'oro lungo i ceppi roventi o danzavano in un luminoso cerchio di scintille in cima alle fiamme, e passava ore intere seduto su uno sgabello vicino all'alto camino gotico, immobile e con gli occhi fissi nel fuoco.
Credeva che sotto le onde del fiume, tra il muschio della sorgente e sopra i vapori del lago, vivessero delle donne misteriose, fate, silfidi o ondine, che gemevano e sospiravano o cantavano e ridevano nel monotono mormorio dell'acqua, mormorio che ascoltava in silenzio, cercando di tradurlo.
Fra le nubi, nell'aria, nel folto dei boschi, nelle crepe dei massi, si immaginava di intravedere forme o di ascoltare suoni misteriosi, forme di esseri soprannaturali, parole indecifrabili che non poteva capire.
Amare! Era nato per sognare l'amore, non per sentirlo. Amava tutte le donne per un istante: questa perché era bionda, quella perché aveva le labbra rosse, l'altra perché camminando oscillava come un giunco.
Qualche volta, nel suo delirio, arrivava al punto di restare una notte intera a guardare la luna, che galleggiava nel cielo immersa in un vapore argenteo, o le stelle, che tremolavano lontano come le sfaccettature delle pietre preziose. In quelle lunghe notti di poetica insonna esclamava:
"Se è vero, come mi ha detto il priore della Peña, che è possibile che questi punti di luce siano dei mondi; se è vero che in questo globo di madreperla che ruota sopra le nuvole dimorano delle genti, che donne stupende saranno le donne di queste regioni luminose! E io non potrò vederle, e io non potrò amarle... Come sarà la loro bellezza?... Come sarà il loro amore?..."
Manrique non era ancora pazzo al punto che i ragazzi gli dessero la baia, però lo era abbastanza per parlare e gesticolare da solo, ed è così che si comincia.
II
Sopra il Duero, che scorre lambendo le pietre sgretolate e scure delle mura di Soria, c'è un ponte che unisce la città dell'antico convento dei Templari, le cui proprietà si estendevano lungo la sponda opposta del fiume.
Nell'epoca di cui parliamo, i cavalieri dell'Ordine avevano ormai abbandonato le loro storiche fortezze; però erano ancora in piedi i resti dei larghi torrioni delle mura; ancora si vedevano, come in parte si vedono oggi, coperti di edera e di campanelle bianche, i massicci archi del chiostro, le estese gallerie ogivali delle piazze d'armi, nelle quali sospirava il vento con un gemito, agitando le erbe alte.
Negli orti e nei giardini, i cui sentieri già da molti anni non erano calpestati dai religiosi, la vegetazione, abbandonata a se stessa, dispiegava tutte le sue grazie, senza il timore che la mano dell'uomo le mutilasse credendo di abbellirla.
Le piante rampicanti si inerpicavano lungo i vetusti tronchi degli alberi; gli ombrosi viali di pioppi, le cui cime si toccavano e si confondevano tra loro, erano coperti da un tappeto erboso; i cardi selvatici e le ortiche germogliavano in mezzo ai trascurati sentieri e tra i resti degli edifici prossimi a crollare, il sisimbrio, oscillando al vento come il pennacchio di un cimiero, e le campanelle bianche e azzurre, dondolandosi come in un'altalena sui lunghi e flessibili steli, annunziavano la vittoria della distruzione e della rovina.
Era notte; una notte d'estate, tiepida, piena di profumi e dolci mormorii, e con una luna bianca e serena al centro di un cielo azzurro, luminoso.
Manrique, l'immaginazione catturata da una vertigine di poesia, dopo aver attraversato il ponte, dal quale contemplò per un attimo il nero profilo della città, che si stagliava sul fondo di alcune nubi biancastre e leggere arrotolate all'orizzonte, si addentrò fra i ruderi deserti dei Templari.
Stava per scoccare la mezzanotte. La luna, che lentamente si era alzata, era arrivata ormai al punto più alto del cielo quando, nell'imboccare uno scuro viale di pioppi che portava dal chiostro in rovina alla sponda del Duero, Manrique emise un grido, un grido tenue, strozzato, mescolanza insolita di stupore, di paura e di giubilo.
In fondo all'ombroso viale aveva visto muoversi una cosa bianca, che svolazzò un istante e sparì nell'oscurità. L'orlo della veste di una donna, di una donna che aveva attraversato il sentiero e si nascondeva tra il fogliame nello stesso istante in cui il pazzo sognatore di chimere e utopie penetrava nei giardini.
"Una donna sconosciuta!... In questo luogo!... A quest'ora! Questa, questa è la donna che io cerco", esclamò Manrique; e si lanciò al suo inseguimento veloce come una saetta.
III
Arrivò nel punto in cui aveva visto perdersi nel folto dei rami la donna misteriosa. Era sparita. Dove? Laggiù, lontano, molto lontano, credette di scorgere tra il fitto incrociarsi dei tronchi un chiarore o una forma bianca che si muoveva.
"è lei, è lei, ha le ali ai piedi e fugge come un'ombra!", disse, e si precipitò a cercarla, scostando con le mani le ragnatele di edera che si stendevano come un arazzo tra i pioppi. Facendosi largo attraverso i roveti e le piante, arrivò fino a una specie di radura illuminata dal chiarore del cielo... nessuno!
"Ah, ecco, va di qua, di qua", esclamò allora. "Odo i suoi passi sopra le foglie secche, e il fruscio del suo vestito, che sfiora il terreno e accarezza gli arbusti", e correva, correva come un pazzo, di qua e di là e non la vedeva. "Ma continuano a risuonare i suoi passi" mormorò un'altra volta. "Credo che abbia parlato; non c'è dubbio, ha parlato... Il vento, che sospira tra i rami; le foglie, che sembrano pregare a voce bassa, mi hanno impedito di udire le sue parole; ma non c'è dubbio: va per di là, ha parlato... ha parlato... in che lingua? Non so; ma è una lingua straniera..."
E ricominciò a correre al suo inseguimento. Fatica inutile. Una volta credendo di vederla, un'altra pensando di udirla; ora notando che i rami tra i quali era sparita si muovevano, ora immaginando di scorgere per terra l'orma dei suoi piedi minuti; subito dopo fermamente persuaso che un profumo speciale, che a momenti si percepiva, era un'aroma appartenente a quella donna che si burlava di lui, compiacendosi di sfuggirgli tra quegli arbusti intricati.
Vagò alcune ore da una parte all'altra, fuori di sé, prima fermandosi ad ascoltare, dopo scivolando silenziosamente sull'erba, e infine in una corsa frenetica e disperata.
Camminando, camminando dentro gli sconfinati giardini che costeggiavano la riva del fiume, arrivò finalmente ai piedi delle rocce sulle quali si innalza il santuario di San Saturio.
"Forse da questa altura potrò orientarmi per continuare le mie ricerche dentro questo confuso labirinto", esclamò, arrampicandosi di roccia in roccia con l'aiuto della sua daga.
Arrivò in cima. Da lì si vede la città in lontananza e una gran parte del Duero, che si snoda ai suoi piedi, trascinando una corrente impetuosa e scura tra le tortuose sponde che lo imprigionano.
Manrique, raggiunta la sommità delle rocce, girò lo sguardo tutto intorno, ma nel girarlo e fissarlo alla fine di un punto, non poté trattenere una bestemmia.
La luce della luna brillava nella scia di una barca che a tutta velocità si dirigeva verso l'altra riva.
In quella barca aveva creduto di intravedere una forma bianca e leggiadra, senz'altro una donna, la donna che aveva visto ai Templari, la donna dei suoi sogni, la realizzazione delle sue speranze più pazze. Scese giù dalle rocce con l'agilità di un daino, scagliò a terra il berretto, la cui piuma ricurva e lunga poteva intralciarlo nella corsa e liberandosi dell'ampia mantellina di velluto, si slanciò come un fulmine verso il ponte.
Pensava di attraversarlo e arrivare alla città prima che la barca toccasse la sponda. Che follia! Quando Manrique arrivò, ansante e madido di sudore, all'entrata, coloro che avevano attraversato il Duero dalla parte di San Saturio entravano già a Soria da una parte delle porte della muraglia, che in quel tempo arrivava fino al margine del fiume, nelle cui acque si specchiavano i suoi scuri merli.
IV
Svanita la sua speranza di raggiungere coloro che erano entrati dalla posterla di San Saturio, non per questo il nostro eroe perse le speranze di sapere quale casa della città poteva alloggiarli. Con questa idea fissa penetrò nell'abitato e, dirigendosi verso il quartiere di San Juan, cominciò a vagare a casaccio per le strade.
Le strade di Soria erano allora, e lo sono ancora, strette, buie e tortuose.
Un silenzio profondo regnava in esse, silenzio solo interrotto ora dal lontano latrato di un cane, ora dal rumore di una porta che si chiudeva, ora dal nitrito di un destriero che, scalpitando, faceva risuonare la catena che lo assicurava alla mangiatoia, nelle scuderie sotterranee.
Manrique, con l'orecchio attento a questi rumori della notte, che alle volte gli parevano i passi di qualuno che svoltava l'angolo di un vicolo deserto, altre volte, gli sembravano voci confuse di gente che parlava alle sue spalle e che ogni momento egli si aspettava di vedere al suo fianco, per alcune ore corse a caso da un posto all'altro.
Alla fine, si fermò vicino a una grande casa in pietra, scura e antichissima, e nel fermarsi i suoi occhi brillarono d'una espressione di allegria indescrivibile. Ad una delle alte finestre ogivali di quello che potremmo chiamare un palazzo, si vedeva un raggio di luce tenue e soave, che passava attraverso leggere tende di seta rosa e si rifletteva nel muro nerastro e screpolato della casa di fronte.
"Non c'è dubbio; qui abita la mia sconosciuta", mormorò il giovane a voce bassa e senza staccare un attimo gli occhi dalla finestra gotica, "abita qui... è entrata per la posterla di San Saturio... dalla posterla di San Saturio si arriva in questo quartiere... in questo quartiere c'è una casa dove, passata la mezzanotte, ancora c'è gente che veglia... che veglia. Chi se non lei, che ritorna dalle sue escursioni notturne, può vegliare a quest'ora?... Non c'è altro da dire: questa è la sua casa."
Persuaso fermamente di questo e mulinandogli nella testa le più pazze e fantastiche idee, aspettò l'alba davanti alla finestra gotica, che restò illuminata tutta la notte e dalla quale egli non staccò lo sguardo un istante.
Quando spuntò il giorno, le massicce porte dell'arcata che dava accesso alla grande casa - sopra la cui chiave di volta si vedevano scolpiti i blasoni del proprietario - girarono pesantemente sui cardini, con un cigolio prolungato e acuto. Un domestico apparve sull'uscio con un mazzo di chiavi in mani, fregandosi gli occhi e mostrando nello sbadiglio una chiostra di denti capaci di far invidia a un coccodrillo.
Per Manrique vederlo e precipitarsi alla porta fu tutt'uno. "Chi abita in questa casa? Lei come si chiama? Di dov'è? Perché è venuta a Soria? Ha marito? Rispondi, rispondi, animale;" questo fu il saluto che, scuotendogli il braccio con violenza, rivolse al povero domestico, il quale, dopo averlo guardato per un bel po' di tempo con occhi spaventati e sorpresi, gli rispose con voce strozzata per lo stupore:
"In questa casa vive l'onoratissimo signore don Alonso de Valdecuellos, il maggiore battitore di nostro signore il re, il quale, ferito nella guerra contro i Mori, si trova in questa città per rimettersi dalle sue fatiche."
"Ma, e sua figlia?" interruppe il giovane, impaziente. "Sua figlia, o sua sorella, o la sua sposa, o quello che sia?"
"Non ha una donna con sé."
"Non ha una donna!...Allora chi dorme là in quella camera, dove ho visto ardere per tutta la notte una luce?"
"Là? Là dorme il mio signore don Alonso che, siccome è malato, tiene accesa la lampada finché albeggia."
Un fulmine che fosse caduto all'improvviso ai suoi piedi non gli avrebbe causato più meraviglia di quella che gli causarono queste parole.
V
"Io la devo trovare, io la devo trovare, se la trovo sono quasi sicuro di saperla riconoscere... Come? Questo non potrei dirlo... ma saprò riconoscerla. Per riuscirci mi basterà riudire l'eco dei suoi passi, o riascoltare una sola sua parola, rivedere un lembo della sua veste, solo un lembo. Notte e giorno vedo ondeggiare davanti ai miei occhi quelle pieghe di una tela diafana e bianchissima; notte e giorno continuano a risuonarmi qui dentro dentro la testa, il fruscio del suo vestito, il rumore confuso delle sue incomprensibili parole. Che disse?... Che disse?... Ah, se io potessi sapere ciò che disse, forse...; ma anche senza saperlo, la troverò...; la troverò; me lo dice il cuore, e il mio cuore non mi inganna mai. è vero che ormai ho percorso inutilmente tutte le strade di Soria che ho passato notti e notti all'addiaccio, divenuto pietra di un cantone, che ho speso più di venti doppie d'oro per far parlare serve e scudieri; che a San Nicolàs ho dato l'acqua benedetta a una vecchia, imbacuccata così bene nel suo mantello di sàrgia da farmela credere una divinità; e una notte, all'ora del mattutino, uscendo dalla Collegiata, ho seguito come uno scemo la lettiga dell'Arcidiacono, credendo che l'orlo della sua cappa fosse quello della veste della mia sconosciuta; ma non importa...; io la devo trovare, e la gloria di averla sarà superiore sicuramente alla fatica di cercarla. Come saranno i suoi occhi? Devono essere azzurri, azzurri e umidi come il cielo della notte; mi piacciono tanto gli occhi di questo colore; sono così espressivi, così melanconici, così... sì...; non c'è dubbio: azzurri devono essere, sicuramente sono azzurri, e i suoi capelli, neri, molto neri e tanto lunghi da ondeggiare... Mi pare di averli visti ondeggiare quella notte, come il suo vestito, ed erano neri...; non mi inganno, no; erano neri.
E come stanno bene occhi azzurri, a forma di mandorla e languidi, e una chioma sciolta, ondeggiante e scura, a una donna alta...; perché... ella è alta, alta e leggiadra come quella degli angeli dei portali delle nostre basiliche, i cui volti ovali generano un misterioso crepuscolo nell'ombra dei baldacchini di granito!
La sua voce... la sua voce l'ho udita...; la sua voce è soave come il rumore del vento fra le foglie dei pioppi, e la sua camminata misurata e maestosa come le cadenze di una musica.
E questa donna, che è bella come il più bello dei miei sogni di adolescente, che ha i miei stessi pensieri, i miei stessi gusti, che odia quello che io odio, che è uno spirito fratello del mio spirito, che è il mio complemento, non si deve commuovere nell'incontrarmi? Non mi deve amare come io l'amerò, come l'amo già, con tutte le forze della mia vita: con tutte le facoltà della mia anima?
Andiamo, andiamo al luogo dove la vidi la prima e unica volta che l'ho vista... Chi lo sa se, capricciosa come me, amica della solitudine e del mistero, come tutte le anime sognatrici, si compiace di vagare tra le rovine nel silenzio della notte."
Due mesi erano trascorsi da quando il domestico di don Alonso de Valdecuellos aveva disingannato l'illuso Manrique; due mesi durante i quali a ogni ora aveva costruito un castello in aria, che la realtà faceva svanire con un soffio; due mesi durante i quali aveva cercato invano quella donna sconosciuta, e il suo assurdo amore per lei era cresciuto nella sua anima, grazie alle sue ancora più assurde fantasie, allorché, assorto in questi pensieri, dopo aver attraversato il ponte che conduce ai Templari, il giovane innamorato si perse fra gli intricati sentieri di quei giardini.
VI
La notte era serena e bella; la luna brillava in tutta la sua pienezza nel punto più alto del cielo, e il vento sospirava con un rumore dolcissimo tra le foglie degli alberi.
Manrique arrivò al chiostro, volse uno sguardo circolare all'intorno e guardò attraverso le massicce colonne delle sue arcate... Era deserto.
Uscì, incamminò i suoi passi verso l'oscuro viale di pioppi che porta al Duero, e ancora non era penetrato in esso, quando gli sfuggì dalle labbra un grido di giubilo.
Aveva visto ondeggiare un istante, e sparire, l'orlo della veste bianca, della veste bianca della donna dei suoi sogni, della donna che ormai amava come un pazzo.
Corre, corre dietro di lei; arriva al luogo dove l'ha vista sparire; ma giunto lì si ferma, fissa gli occhi spaventati al suolo, rimane un attimo immobile; un leggero tremito nervoso agita le sue membra, un tremito che cresce, cresce, e presenta i sintomi di una vera convulsione, e prorompe alla fine in una risata, una risata sonora, stridula, orribile.
Quella cosa bianca, leggera, ondeggiante, era tornata a brillare davanti ai suoi occhi, ma aveva brillato ai suoi piedi un attimo, non più di un attimo. Era un raggio di luna, un raggio di luna che penetrava a sprazzi tra la verde volta degli alberi quando il vento muoveva i rami.
Erano passati alcuni anni. Manrique, seduto su uno scanno vicino all'alto camino gotico del suo castello, quasi immobile, e con uno sguardo vago e inquieto come quello di un idiota, a malapena prestava attenzione alle tenerezze della madre e al conforto dei servitori.
"Tu sei giovane, tu sei bello", gli diceva lei. "Perché ti consumi in solitudine? Perché non cerchi una donna da amare, e che amandoti possa farti felice?"
"L'amore!... l'amore è un raggio di luna", mormorava il giovane.
"Perché non vi scuotete da questo letargo?", gli diceva uno dei suoi scudieri. "Vestitevi di ferro da capo a piedi, fate spiegare al vento il vostro vessillo di gentiluomo, e marciamo alla guerra. Nella guerra si trova la gloria."
"La gloria!... La gloria è un raggio di luna."
"Volete che vi reciti una cantiga, l'ultima che ha composto don Arnaldo, il trovatore provenzale?"
"No, no!", esclamò infine il giovane, alzandosi in collera dal suo scanno. "Non voglio nulla... anzi sì, voglio: voglio che mi lasciate solo. Cantigas... donne... glorie.... felicità... tutte menzogne, vani fantasmi che creiamo nella nostra immaginazione e vestiamo a nostro capriccio e li amiamo e corriamo dietro a loro, perché, perché? Per trovare un raggio di luna."
Manrique era pazzo; per lo meno tutti lo credevano tale. Io invece credo che egli avesse ritrovato il senno.