''Clarimonde'' di Théophile Gautier
Lei mi chiede, Padre, se io abbia mai goduto dei piaceri dell'amore. Ebbene, sì. Atroce e strana è la mia storia: tanto che, sebbene abbia ormai varcato la soglia dei settant'anni, ancora ho ritegno nel cercare le braci vive d'un tal ricordo fra le ceneri della memoria. Ma a lei non oso rifiutar nulla: sia chiaro, però, che a nessun animo meno esperto del suo farei mai il racconto delle mie esperienze.
Volle il fato ch'io mi trovassi, per più di tre anni, preda e prigione d'una illusione diabolica. Io, misero e solingo prete di campagna, ogni notte condussi in sogno (e volesse Iddio che fosse stato solo un sogno!) la vita d'un Sardanapalo. Per correre il rischio di perdere l'anima immortale, mi bastò l'aver gettato un solo sguardo, forse troppo partecipe, su una creatura di sesso femminile. Per buona sorte infine, col soccorso di Nostro Signore e del mio Santo Patrono, riuscii a scacciare lo spirito immondo che mi possedeva: ma il rischio fu immenso.
La mia esistenza, a un certo punto della mia vita, s'era complicata per l'aggiunta d'una esistenza notturna supplementare, in pieno contrasto con l'altro. Il giorno, ero un piccolo prete adorno della propria castità, tutto preso dalle orazioni e dai servizi santi: ma la notte, chiusi gli occhi, mi trasformavo in un baldo giovane, profondo conoscitore di femmine, cani e cavalli, giocatore di dadi, bevitore, bestemmiatore. E, al risveglio, nel chiaro dell'alba, pensavo di stare sul punto di addormentarmi per sognare d'essere un prete.
Di questa vita da sonnambulo, mi sono rimasti ricordi, ahimè, incancellabili di cose che mai avrei dovuto vedere e parole che mai avrei dovuto udire. E malgrado non sia mai uscito dalle mura del mio presbiterio, a sentirmi parlare si direbbe ch'io sia un uomo dal passato intenso, che ha goduto di tutti i piaceri del mondo, e che infine si sia accostato alla pace religiosa per chiudere nel grembo di Dio i suoi giorni troppo agitati: non certo l'umile seminarista che fui nella realtà, invecchiato nel silenzio, disperso nel cupo d'un bosco ove mai ebbei occasione d'avere rapporto alcuno con le cose del mondo.
Invece, ho amato come nessuno su questa terra ha amato mai, di un amore furioso, così violento, ch'io stesso mi stupisco che il cuore non me ne sia scoppiato. Che tensione paurosa! Che notti! Che notti!
La vocazione a farmi prete l'avevo subita fin dalla più tenera infanzia: per cui, tutti i miei studi furono orientati a tale scopo, tanto che la mia vita, fino ai ventiquattro anni, non fu che un lungo noviziato. Conclusi gli studi di teologia e superati tutti i gradi minori, malgrado la mia giovinezza, i superiori mi stimarono degno di varcare l'ultima soglia, la più temibile: si stabilì che avrei ricevuto gli Ordini Sacri, e nella settimana di Pasqua sarei diventato prete.
Mai, prima d'allora, ero stato al di fuori della cinta in cui erano racchiusi il collegio che avevo frequentato, e il seminario. Sapevo, certo, che esisteva qualcosa che chiamavano "donna": ma con estrema vaghezza, e senza mai che su tal pensiero la mia mente si fosse soffermata. Ero d'una innocenza pura e perfetta.
Nulla avevo da rimpiangere, e non provavo dunque la minima esitazione di fronte all'impegno irrevocabile che stavo per sigillare: anzi, la mia anima era piena di gioia e d'impazienza.
Non credo che alcun fidanzato abbia mai contato gli istanti che lo separavano dall'unione con la promessa sposa con un ardore più acceso del mio. Non riuscivo neppure a prendere sonno, eccitato com'ero all'idea che alfine avrei potuto celebrare la Santa Messa. Esser prete: nulla al mondo sapevo concepire di più bello. Senza esitare, avrei rifiutato d'esser re o poeta.
E venne il gran giorno. Mi diressi alla chiesa con passi tanto leggeri che mi pareva che sulle spalle mi sorreggessero le ali d'un angelo. Simile a un angelo, infatti, mi credevo e mi meravigliavo dei volti scuri e preoccupati che attorno a me esibivano molti dei miei compagni: perché eravamo in molti in procinto di ricevere gli Ordini. Avevo passato la notte in preghiera, ed ero così esaltato da rasentare l'estasi. Il Vescovo, un vegliardo venerando, mi pareva Iddio, in atto di contemplare la propria stessa eternità. Attraverso le volte del tempio, vedevo il cielo.
Lei, fratello mio, conosce i particolari della cerimonia: Benedizione, Comunione, unzione delle mani con l'olio dei catecumeni, e infine il Santo Sacrificio, che si offre insieme con il Vescovo. Oh! Come aveva ragione Giobbe! Quanto è imprudente non fare un patto preventivo con i propri occhi! Per caso, a un tratto, alzai la testa, e di colpo vidi davanti a me, tanto vicina da poterla toccare (benché, in realtà, fosse piuttosta lontana), una giovane donna di straordinaria bellezza, vestita come una regina. Fu come se delle scaglie mi cadessero dagli occhi: provai la sensazione di un cieco che ritrova all'improvviso la vista.
Il Vescovo, così splendido fino a quel momento, subito si spense, i ceri impallidirono nei candelieri d'oro come le stelle al mattino, e in tutta la chiesa si fece per me il buio completo. L'affascinante creatura si staccava da quel sipario d'ombra come una rivelazione divina: pareva splendesse di luce propria, che fosse essa stessa una fonte di luce.
Abbassai le palpebre, deciso a non sollevarle mai più, per sottrarmi a ogni fascino che potesse provenire dall'esterno: perché in realtà mi sentivo sempre più distratto, e sempre meno mi rendevo conto di quel che facevo.
Un istante dopo riaprii gli occhi, perché anche attraverso le palpebre chiuse la vedevo brillare in una rossa penombra, come se stessi fissando il sole.
Quanto era bella! I più grandi pittori, anche quando vogliono raffigurare la Madonna, e cercano quindi di rappresentare l'ideale della bellezza, non si avvicinano neppure lontanamente a quella favolosa realtà. Nessuna tavolozza di pittore, nessun verso di poeta avrebbero potuto darne l'idea. Ancora non so se la fiamma che la illuminava provenisse dal cielo o dall'inferno: ma certo veniva o dall'uno o dall'altro.
Man mano che la contemplavo, sentivo schiudersi in me delle porte di cui non sospettavo nemmeno l'esistenza, e la vita mi appariva in una luce tutta diversa. Era come se nascessi a un nuovo essere, a un altro ordine di idee. Un'angoscia spaventosa mi mordeva il cuore, e ogni minuto che passava mi sembrava nello stesso tempo un secondo e un secolo.
La cerimonia, comunque, proseguiva, trasportandomi sempre più lontano da quel mondo di cui i miei nuovi desideri assediavano furiosamente l'entrata.
Comunque, nel momento fatale dissi "sì". Avrei voluto dire "no": tutto in me si rivoltava e protestava contro la violenza che la mia lingua stava facendo alla mia anima. Ma una forza occulta mi strappò la parola decisiva di gola, malgrado me stesso.
Qualcosa di simile deve accadare alle molte ragazze che vanno all'altare con la ferma risoluzione di rifiutare lo sposo che vien loro imposto contro la loro volontà: giunto il momento, nessuna ricusa le nozze. Qualcosa del genere deve anche accadere a tutte quelle povere novizie che finiscono col prendere il velo, anche quando sarebbero ben decise a farlo a brani al momento dei voti.
Poche osano far scoppiare scandali davanti a tutti, o deludere l'aspettativa di tante brave persone. Si indovinano, tese e concentrate sulla risposta che dovete dare, tutte le singole volontà dei presenti: i loro sguardi fissi opprimono come una cappa di piombo. E poi, ogni cosa è già predisposta, tutto è così ben regolato in anticipo, e appare così irrevocabile, che ogni reazione personale cede sotto quel peso immane e non può che arrendersi definitivamente.
Lo sguardo della bella sconosciuta mutava di espressione man mano che la cerimonia procedeva. Dapprima tenero e carezzevole, si coloriva sempre più di una sorta di sdegno e di disapprovazione, come per esprimere scontento per ciò cui doveva assistere.
Feci uno sforzo, da solo sufficiente a sradicare una montagna, per esprimere con un urlo la mia volontà di non farmi più prete: non riuscii a nulla. La mia lingua era incollata al palato, e non riuscii a tradurre la mia intenzione neppure col più insignificante cenno negativo. Sveglio, vivevo in una sorta di incubo.
Lei sembrò accorgersi del martirio che stavo subendo, e, come se mi volesse incoraggiare, mi lanciò un'occhiata piena di divine promesse. I suoi occhi erano un poema, di cui ogni sguardo costituiva una cantica.
Pareva che mi dicesse: "Se vorrai essere mio, ti farò più felice di quanto possa renderti Dio in Paradiso; gli angeli ti invidieranno. Strappa il lugubre sudario con cui stanno per avvolgerti: io sono la bellezza, la gioventù, la vita. Vieni da me: insieme, saremo l'amore. La nostra vita scorrerà come un sogno, non sarà che un lungo, eterno bacio. Spargi a terra il vino del calice che ti porgono, e sarai libero. Io ti guiderò verso isole sconosciute: dormirai sul mio seno, in un letto d'oro e sotto un baldacchino d'argento; perché io ti amo, e voglio sottrarti a Dio, verso il quanto tanti cuori riversano torrenti d'amore, che non arrivano nemmeno fino a lui."
Mi pareva di udire queste parole accompagnate da una musica dalla dolcezza infinita, perché il suo sguardo sembrava parlare, e le frasi che i suoi bellissimi occhi trasmettevano vibravano in fondo al mio cuore, come se una bocca invisibile me le soffiasse nell'anima. Mi sentivo prontissimo a rinunciare a Dio, ma intanto continuavo a compiere macchinalmente tutte le formalità del rito.
La bella mi gettò uno sguardo così carico di supplica e talmente disperato, che fu come se mille lame acuminate mi trafiggessero il cuore.
Ma, ormai, era fatta: ero prete.
Mai viso umano espresse un'angoscia più straziante: la giovinetta che vede cadere al suo fianco il promesso sposo fulminato da una sincope, la madre che trova vuota la culla del suo bambino, l'avaro che scorge una pietra al posto del suo oro, il poeta che ha lasciato scivolare nel fuoco l'unica copia della sua opera più importante, non avrebbero avuto un'espressione più desolata e inconsolabile. Il suo viso si fece bianco come il marmo, le braccia bellissime le caddero lungo il corpo. Si appoggiò a una colonna, come se le gambe non la reggessero più.
Quanto a me, ero livido, in un bagno di sudore più bruciante di quello del Calvario. Mi diressi barcollando verso il portale della chiesa. Soffocavo, e le volte pareva mi schiacciassero le spalle: era come se dovessi sostenere da solo l'intero peso della cupola.
Stavo per oltrepassare la soglia, quando una mano afferrò la mia: una mano di donna! Non ne avevo mai toccate: era fredda come la pelle d'un serpe, eppure mi rimase la sensazione come del marchio d'un ferro rovente. Era lei.
"Sciagurato! Che hai fatto!", mi sussurrò a bassa voce. Poi, svanì tra la folla. Mi passò davanti il vecchio Vescovo. Mi osservò con aria severa. In effetti, il mio contegno doveva apparirgli assai strano: impallidivo e arrossivo continuamente e, senza apparente ragione, ero in preda alle vertigini. Uno dei miei compagni si accorse del mio stato, e si prese cura di accompagnarmi: da solo, non avrei ritrovato neppure la strada del seminario.
Alla svolta di una viuzza, mentre il mio compagno guardava da un'altra parte, un paggetto negro, bizzarramente vestito, mi venne incontro e, senza fermarsi, mi consegnò un piccolo portafogli preziosamente istoriato, facendomi segno di nasconderlo. Lo feci scivolare nella manica, e non lo tolsi che quando fui solo nella mia cella. Feci saltare il fermaglio: dentro, c'erano due soli foglietti con queste parole: "Clarimonde, Palazzo Concini".
Conoscevo, così poco, a quell'epoca, delle cose del mondo, che non sapevo nulla di Clarimonde, anche se in giro si parlava molto di lei, e ignoravo poi del tutto dove si trovasse il Palazzo Concini. Feci infinite congetture, l'una più stravagante dell'altra: ma, in verità, quel che desideravo era di riuscire a rivederla, e ben poco mi importava di quel che fosse, gran dama o cortigiana.
Questa passione, appena nata, si era radicata in maniera incrollabile e non mi veniva nemmeno fatto di pensare alla possibilità di sradicarla. Quella femmina mi dominava ormai interamente: con un solo sguardo aveva fatto di me un altro uomo, mi aveva iniettato la sua volontà. Mi comportavo in modo assurdo, baciavo la mia mano nel punto in cui lei l'aveva sfiorata, stavo ore intere a ripeterne il nome. Appena chiudevo gli occhi, la vedevo così distintamente come se fosse presente, e mi ripetevo di continuo le parole che lei aveva pronunciato sul portale della chiesa: "Sciagurato, che hai fatto?".
Mi rendevo conto dell'orrore della mia situazione, e tutti gli aspetti più tristi del mio stato mi rivelavano con chiarezza: essere prete voleva dire rimanere casto, non fare all'amore, non badare mai né al sesso né all'età, distogliere gli occhi da ogni bellezza, comportarsi come un cieco, strisciare sempre nell'ombra gelida di un chiostro o di una chiesa, non avere contatti che con i moribondi, vegliare cadaveri di sconosciuti, e portare sempre il lutto, con quella sottana nera che, così com'era, avrebbe potuto servire benissimo anche come sudario per avvolgermi nella bara!
Come fare per rivedere Clarimonde? Non avevo alcun pretesto per uscire dal seminario, poiché non conoscevo nessuno in città. Non dovevo poi nemmeno rimanerci a lungo: stavo anzi aspettando che mi destinassero a una parrocchia. Tentai di scalzare le sbarre della mia finestrella, ma ero a un'altezza impressionante, e poi non possedevo una scala a pioli, dunque era inutile pensarci.
D'altra parte, non sarei potuto scendere che di notte, e come avrei saputo districarmi nel labirinto delle strade, che conoscevo appena? Tutte queste difficoltà, che a un altro sarebbero apparse insignificanti, erano invece invalicabili per un misero seminarista, neonato all'amore, senza esperienza, senza soldi e senza vestiti.
Ah! Se non fossi stato prete - mi dicevo - avrei potuto vederla ogni giorno; sarei diventato il suo amante, il suo sposo (tanto ero cieco) e, invece di starmene avviluppato nel mio sinistro sudario, avrei portato vestiti di seta e velluto, catene d'oro, spada e piume, come tutti i bei cavalieri.
I miei capelli, invece d'essere umiliati da una larga tonsura, si sarebbero avvolti intorno al collo in un gioco di riccioli. Avrei avuto dei bei baffi impomatati, sarei stato un giovane di mondo. Invece, una sola oretta passata davanti a un altare, da qualche mezza parola sussurrata a malapena, erano bastate a tagliarmi fuori dal novero dei vivi: io stesso avevo murato la mia tomba, io stesso avevo serrato il catenaccio della mia prigione!
Mi affacciai alla finestra: il cielo era splendidamente azzurro, gli alberi avevano indossato la loro livrea primaverile, la natura risplendeva di una gioia che a me appariva beffarda. La piazza del paese era piena di gente: chi andava, chi veniva. Giovani coppie si dirigevano, abbracciate, verso l'ombra dei giardini e dei pergolati. Alcune comitive passavano, tra risa e canzonacce, di bevitori: un tale movimento, lo slancio e l'allegria generale facevano risaltare ancor più miseramente il mio lutto e la mia solitudine.
Non riuscii a sopportare tale spettacolo: chiusi la finestra e mi gettai sul letto, col cuore pieno di odio e gelosia irrefrenabili, mordendomi le dita e rodendo la coperta, come farebbe una tigre digiuna da tre giorni.
Non so per quanto tempo rimasi così; ma, mentre mi rivoltavo nel mio giaciglio tra spasimi rabbiosi, scorsi d'un tratto l'Abate Serapione, immobile nel mezzo della camera, che mi osservava attentamente. Ebbi vergogna di me stesso e, chinata la testa sul petto, mi coprii gli occhi con le mani.
"Romualdo, amico mio, ti sta accadendo qualcosa di anormale", mi disse con voce calma Serapione, dopo qualche minuto di silenzio.
"Il tuo contegno è davvero inesplicabile. Un essere pio, calmo e dolce come te, si agita nella sua celletta come una belva. Fa' attenzione, fratello, a non prestare orecchio ai suggerimenti del Diavolo, perché di certo il Maligno, rabbioso nel saperti ormai consacrato al Signore, ti ronza intorno e fa l'ultimo sforzo per attirarti a lui. Invece di lasciarti abbattere, caro Romualdo, edifica una corazza di preghiere e mortificazioni, e combatti con forza il nemico: solo così vincerai. La prova è indispensabile alla virtù. Anche le anime più agguerrite hanno patito momenti simili. Prega, medita, digiuna: il Maligno batterà in ritirata."
Il discorso dell'Abate Serapione mi aiutò a ritrovare me stesso, e a ridarmi un po' di calma.
"Venivo ad annunciarti la tua nomina alla parrocchia di C... è morto il prete che la teneva, e il Vescovo ha designato te come suo successore. Sii pronto domani."
Assentii con un cenno del capo, e l'Abate mi lasciò di nuovo solo.
Aprii il messale, e cominciai a leggere una preghiera, ma le parole mi ballavano davanti agli occhi e il volume mi scivolò di mano senza che facessi nulla per trattenerlo.
Partire l'indomani, senza averla più vista! Aggiungere un'ulteriore impossibilità a tutte quelle che si frapponevano tra noi. Perdere per sempre la speranza di incontrarla di nuovo, a meno d'un miracolo. E se le avessi scritto? Ma chi avrebbe potuto recarle la lettera? Con chi potevo confidarmi, vestito com'ero dei sacri paramenti?
Provai un'angoscia indicibile. Mi tornò in mente quel che l'Abate mi aveva detto circa le manovre del Diavolo: la singolarità di tutta l'avventura, la bellezza soprannaturale di Clarimonde, il bagliore fosforescente dei suoi occhi, il tocco bruciante delle sue mani, il turbamento in cui mi aveva gettato, la metamorfosi che si era operata in me, la mia devozione dissolta in un istante, tutto provava senz'ombra di dubbio la presenza di Satana, e forse quella mano di seta non era che il guanto che ricopriva il suo artiglio.
Questi pensieri mi gettarono in un immenso terrore: raccolsi il messale e mi rimisi a pregare.
Il giorno dopo, Serapione venne a prendermi. Due muli ci attendevano alla porta, con i nostri scarsi bagagli. Lungo le vie della città, scrutavo ansiosamente ogni finestra, per vedere se mai vi apparisse Clarimonde, ma era ancora troppo presto, e la città non aveva ancora aperto gli occhi. Con lo sguardo, cercavo di penetrare al di là dei tendaggi che coprivano le finestre dei palazzi lungo il nostro cammino. Serapione doveva attribuire questo mio interessamento all'ammirazione per l'elegante architettura di quei luoghi, a me quasi ignota, perché rallentava il passo della sua cavalcatura, per darmi il tempo di vedere ogni cosa.
Superammo, infine, le porte della città, e cominciammo a salire sulla collina. In cima, mi volsi un'ultima volta per rivedere i luoghi in cui viveva Clarimonde. L'ombra di una nuvola ricopriva tutta la città. I tetti azzurri e rossi si confondevano in una mezza tinta generale, su cui aleggiavano, come bianchi fiocchi di spuma, le brume del mattino.
Un singolare effetto ottico faceva spiccare, dorato dall'unico raggio di luce, un edificio che superava in altezza tutte le costruzioni vicine, immerse nella nebbia; sebbene si trovasse in realtà a più di una lega da noi, mi appariva come vicinissimo, e potevo distinguerne tutti i particolari.
"Che cos'è quel palazzo illuminato dal sole?", chiesi a Serapione. Si fece schermo alla luce con la mano e mi rispose: "è l'antico palazzo che il Principe Concini ha regalato alla cortigiana Clarimonde. Dicono sia teatro di orge mostruose."
Proprio in quell'istante, realtà o illusione che fosse, mi parve di scorgere sulla terrazza una figuretta chiara che brillò un secondo e subito si spense. Era Clarimonde! Forse sapeva che in quello stesso momento, dall'alto di quel sentiero scosceso che mi allontanava ancor più da lei, io covavo con gli occhi la sua casa, che un beffardo gioco di luci sembrava mettermi a portata di mano, quasi per invitarmi a farvi il mio ingresso da padrone?
Certo, lei doveva saperlo: la sua anima era troppo affine e in assonanza con la mia per non avvertire i miei stessi turbamenti, ed era certo questo il sentimento che l'aveva spinta di prima mattina, ancora avvolta nei suoi veli notturni, a uscire sulla terrazza.
L'ombra ingoiò infine anche il palazzo, e di fronte non mi rimase ce un oceano immobile di tetti, di cui altro non si distingueva che un'ondulazione montagnosa. Serapione spinse il suo mulo, e il mio lo seguì. Una curva del sentiero mi tolse per sempre dalla vista la città di S..., in cui non dovevo più tornare.
Dopo tre giorni di viaggio, attraverso squallide campagne, vedemmo spuntare la cima del campanile della chiesa in cui dovevo servire. Percorso qualche sentiero tortuoso costeggiato da capanne e cortili, arrivammo davanti alla facciata. A sinistra c'era il cimitero, pieno di erbacce e con una gran croce di ferro al centro; a destra il presbiterio, nudo e misero.
L'Abate Serapione mi aiutò a installarmi, e dopo qualche giorno ritornò al seminario. Rimasi dunque solo, senz'altro sostegno che me stesso. Il pensiero di Clarimonde continuava a ossessionarmi e, per quanti sforzi facessi per cacciarlo via, non ci riuscivo.
Una notte, suonarono con forza alla porta. La vecchia perpetua andò ad aprire, e un uomo dalla pelle bruna, riccamente vestito, si mostrò sulla soglia. Qualcosa nel suo aspetto spaventò la vecchia; ma l'uomo la rassicurò, e disse che era venuto a prendermi per una questione che riguardava il mio ministero. La sua padrona - aggiunse - una gran dama, stava morendo, e aveva il desiderio di un prete. Presi l'occorrente per l'Estrema Unzione, e mi affrettai a seguirlo.
Davanti alla porta scalpitavano impazienti due cavalli, neri come la notte, e un fumo bianco usciva dalle loro narici. L'uomo mi aiutò a montare su uno dei due destrieri, e saltò sull'altro. Spronò e lasciò libere le briglie al suo cavallo, che partì come una freccia; il mio lo seguì, divorando la strada. Vedevo la terra filare sotto di noi, grigia e solcata: le sagome nere degli alberi ci fuggivano di lato come un esercito in rotta.
Traversammo una foresta così scura e gelida che sentii corrermi sotto la pelle un brivido di terrore superstizioso. Le scintille che i ferri dei nostri cavalli facevano sprizzare dai sassi formavano dietro di noi una scia di fuoco: se qualcuno avesse visto me e la mia guida a quell'ora della notte, ci avrebbe preso per due spettri a cavallo di un incubo. La criniera dei due cavalli si arruffava sempre di più, e rivoli di sudore scorrevano sui loro fianchi; ma quando li vedeva rallentare, lo scudiero, per rianimarli, emetteva un grido stridulo, che non aveva nulla di umano, e la corsa riprendeva con ancor maggiore furia.
Infine quel turbine cessò: una massa nera, costellata di qualche punto luminoso, ci si parò all'improvviso davanti. Il passo delle nostre cavalcature risuonò più rumoroso su una pavimentazione ferrata, e passammo sotto una cupa arcata sinistra che si apriva fra due immense torri.
Nel castello c'era una grande agitazione: gruppi di domestici, torce alla mano, traversavano il cortile in tutti i sensi, e luci diverse salivano e scendevano da un piano all'altro. Vidi confusamente nel buio immense architetture, arcate, colonne, rampe; era un insieme di costruzioni degno di una reggia.
Un paggetto nero, il medesimo che mi aveva consegnato il biglietto di Clarimonde e che riconobbi all'istante, mi aiutò a scendere di sella; un maggiordomo, vestito di velluto nero, venne verso di me, appoggiandosi a un bastone d'avorio. Grosse lacrime gli colavano dagli occhi sulla barba bianca.
"Troppo tardi!", mi disse scuotendo il capo. "Troppo tardi. Ma, Padre, se non ha fatto in tempo a salvarle l'anima, venga almeno a vegliare il povero corpo."
Mi prese un braccio, e mi guidò verso la camera ardente. Io piangevo quanto lui, perché avevo ormai indovinato che la morta altri non era che la mia Clarimonde, così disperatamente amata.
Mi inginocchiai, senza osar di gettare un'occhiata nel catafalco al centro della stanza, e mi misi a recitare i salmi con fervore, ringraziando Dio di aver posto un sepolcro fra me e quella donna, il che mi permetteva di pronunciare nelle mie preghiere il suo nome, ormai santificato.
Ma a poco a poco il mio fervore diminuì, e cominciai a fantasticare. Quella camera non aveva nulla di una camera mortuaria. Invece dell'atmosfera fetida e cadaverica che si respirava sempre in tali luoghi, un languido profumo d'essenze orientali, un non so quale afrodisiaco odore di donna aleggiava dolcemente nell'aria tiepida. La tenue luce della stanza pareva un'illuminazione sapientemente predisposta per la voluttà, piuttosto che il livido riflesso dei ceri che di solito palpita accanto a un cadavere. Pensavo al caso singolare che mi aveva fatto ritrovare Clarimonde proprio nel momento in cui la perdevo per sempre, e un sospiro di dolore mi sfuggì dal petto.
Mi parve di udire un sospiro anche alle mie spalle, e mi voltai istintivamente. Era soltanto l'eco, ma in quel movimento gli occhi mi caddero sul catafalco che prima avevo cercato di non guardare. I drappeggi di damasco rosso lasciavano vedere la morta, distesa con le mani incrociate sul petto. Era avvolta in un sudario di lino, d'un bianco abbagliante che risaltava ancor più accanto al colore sanguigno dei tendaggi, e così lieve che nulla riusciva a nascondere della sagoma seducente del suo corpo. Si sarebbe detta una statua di alabastro, oppure una giovane dormiente, su cui fosse caduta la neve.
Non riuscivo più a trattenermi: quell'aria di alcova mi aveva eccitato, e camminavo a lunghi passi per tutta la stanza, fermandomi di continuo a contemplare la bella defunta, sotto la trasparenza del sudario. Strani pensieri mi passavano per il capo. Immaginavo che non fosse davvero morta, e che tutto fosse una sua manovra per attirarmi nel castello e parlarmi del suo amore.
E poi mi dissi: "Sarà proprio Clarimonde? Che prove ne ho? Quel paggetto nero potrebbe aver cambiato padrona. Sono davvero un pazzo a disperarmi così."
Mi avvicinai al catafalco, e guardai con un'intensità anche più grande la causa dei miei tormenti. Devo confessarlo? La perfezione delle sue forme mi turbava in modo indicibile, e quel suo giacere era così simile a un semplice sonno che chiunque avrebbe potuto restarne ingannato.
Dimenticai che ero venuto in quel luogo per un servizio funebre, e mi figurai come uno sposo per la prima volta nella camera della giovane moglie che si copre il volto, pudica. Sconvolto dal dolore, rapito dalla gioia, tremante a un tempo di timore e piacere, mi chinai verso di lei e sollevai l'angolo del lenzuolo, trattenendo il respiro come per paura di svegliarla.
Era davvero Clarimonde, come l'avevo vista in chiesa il giorno in cui ero stato ordinato prete: era seducente come allora, e la morte sembrava aggiungerle una civetteria supplementare. Rimasi a lungo assorto in quella muta contemplazione e, più la guardavo, meno potevo convincermi che la vita avesse potuto veramente abbandonare quel corpo stupendo. Le toccai lievemente il braccio: era freddo, ma non più della sua mano quando aveva sfiorato la mia sotto il portale della chiesa.
Ah! Che atroce sentimento di disperazione e d'impotenza! Che agonia era per me quella veglia! La notte avanzava, e con l'alba sentivo avvicinarsi il momento della separazione eterna. Non potei impedirmi la triste e suprema dolcezza di deporre un lieve bacio sulle labbra di colei che aveva avuto tutto il mio amore.
O prodigio! Un tenue respiro si mescolò al mio, e le labbra di Clarimonde risposero alla pressione delle mie: i suoi occhi si aprirono, si illuminarono, e lei, sospirando, aprì le braccia e me le passò attorno al collo, con un'aria di estasi ineffabile.
"Romualdo", mi disse con voce profonda e dolce, simile alle vibrazioni finali di un'arpa. "Che fai? T'ho atteso così a lungo che ne sono morta. Ma ormai siamo uniti l'uno all'altra. Potrò vederti e venire da te. Addio, Romualdo, addio. Ti amo, e offro a te questa vita, che tu hai richiamato in me per un istante con un bacio. A presto."
Reclinò la testa, mentre le sue braccia ancora mi circondavano. Un turbine di vento spalancò la finestra ed entrò nella stanza. I lumi si spensero, e io caddi svenuto sul petto della bella defunta.
Quando rinvenni, mi trovai nel mio letto, nella piccola camera del mio presbiterio. La vecchia perpetua si dava da fare nella stanza con un'agitazione senile; apriva e chiudeva i cassetti, mescolava polverine nei bicchieri.
Vedendomi aprire gli occhi, la vecchia diede un grido di gioia; ma io ero così debole che non riuscii a dire una parola né a fare alcun gesto. Seppi poi che ero rimasto in quello stato per tre interi giorni, senza dare altro segno di vita che una respirazione impercettibile. La governante mi riferì che lo stesso uomo dalla pelle scura che mi era venuto a prendere la notte prima, mi aveva riportato la mattina dopo in una lettiga, e se ne era andato via subito.
Appena potei connettere i miei pensieri, ripassai mentalmente tutte le circostanze di quella notte fatale. Dapprima pensai d'essere stato vittima di un'illusione: ma l'evidenza di circostanze reali e palpabili cancellò ben presto quest'ipotesi. Non potevo credere d'aver sognato, dal momento che anche la governante aveva visto l'uomo dai due cavalli neri, di cui ricordava quanto me i medesimi particolari. Tuttavia, nessuno pareva sapere dell'esistenza nei dintorni di un castello simile a quello in cui avevo rivisto Clarimonde.
Un mattino, vidi entrare l'Abate Serapione. Mentre mi chiedeva notizie della mia salute, con tono ipocritamente mielato, fissava su di me le sue gialle pupille da leone, e immergeva i suoi sguardi come una sonda nel fondo dell'anima mia. Mi fece poi varie domande su come dirigevo la mia parrocchia, se mi trovavo bene, come impiegavo il tempo libero, quali erano le mie letture favorite e altre questioni insignificanti del genere.
Questa conversazione non aveva palesemente alcun rapporto con quanto in realtà era venuto a dirmi. D'un tratto, senza preamboli e come se d'improvviso si fosse ricordato di qualcosa che aveva paura di dimenticare, mi disse con voce alta e vibrante, che mi riecheggiò all'orecchio come le trombe del Giudizio Universale:
"La cortigiana Clarimonde è morta, nei giorni scorsi, dopo un'orgia durata otto giorni e otto notti. è stata una cosa paurosa e infernale. Si sono ripetute le azioni immonde dei festini di Balthazar e di Cleopatra. I suoi convitati erano serviti da schiavi di pelle nera che parlavano una lingua sconosciuta, e che sicuramente non erano altro che demoni. Su Clarimonde sono corse infinite, orride leggende, e tutti i suoi amanti sono finiti in maniera miserabile o violenta. S'è detto perfino fosse un Vampiro. Ma per me, è Belzebù in persona."
Tacque, e mi osservò con ancor maggiore attenzione, quasi volesse cogliere l'effetto che su di me avevano avuto le parole. Non avevo saputo reprimere un sussulto al sentir nominare Clarimonde, e turbamento e terrore comparvero sul mio viso, benché facessi di tutto per dominarmi.
Serapione mi lanciò allora un'occhiata preoccupata e severa. Poi mi disse: "Figlio mio, ti devo mettere in guardia. Hai già un piede nell'abisso: guardati dal precipitarvi. Satana ha lunghi artigli, e le tombe non sempre sono definitive. Bisognerebbe chiudere la lastra sepolcrale di Clarimonde con un triplo sigillo, perché pare che questa non sia neppure la prima volta che è morta. Che Dio vegli su di te, Romualdo."
E Serapione, voltandomi le spalle, lentamente se ne andò.
Infine mi ristabilii, e ripresi le mie funzioni abituali. Il ricordo di Clarimonde, e le parole del vecchio Abate, erano sempre nel mio spirito, tuttavia nessun evento straordinario venne a confermare le funeste previsioni di Serapione, e cominciai a pensare che i suoi timori e i miei terrori fossero eccessivi. Poi, una notte, feci un sogno.
Mi ero appena addormentato, che sentii sollevarsi le cortine del mio letto. Mi drizzai bruscamente, e vidi che un'ombra femminile mi stava dinanzi. Riconobbi Clarimonde. Aveva in mano un lumino di quelli che si mettono sulle tombe, il cui bagliore rendeva ancor più trasparenti le sue dita affusolate. Come unico abbigliamento, aveva un lieve sudario, le cui pieghe raccoglieva sul ventre, come se si vergognasse di essere così scarsamente vestita; ma la sua piccola mano non raggiungeva completamente lo scopo.
Era così bianca che il candore del velo si confondeva col pallore della sua carne, sotto il tenue raggio della lampada. Avviluppata in quel fine tessuto che rivelava ogni forma del suo giovane corpo, si sarebbe detta più il ritratto marmoreo di un'antica bagnante che una donna viva. Ma, morta o viva, statua o donna, ombra o corpo, la sua bellezza era sempre la medesima: solo il verde bagliore del suo sguardo era lievemente smorzato, e la sua bocca era livida. Poggiò la lampada sul tavolo e si sedette ai piedi del letto, poi mi disse, china su di me, con la sua voce a un tempo argentina e vellutata, che non ho mai sentito in nessun altro:
"Mi sono fatta attendere molto, mio caro Romualdo: forse hai pensato che t'avessi dimenticato. Ma sono dovuta venire da molto lontano, da un luogo da dove nessuno ritorna. Non c'è né sole né luna nel paese da cui vengo, né spazio, né ombra, né sentiero per il piede, né l'aria per le ali. E tuttavia, eccomi qui: il mio amore è più forte della morte, e infine vincerà. Quanti visi pallidi e orrendi ho visto nel mio viaggio. Con quanta pena la mia anima, tornata alla vita, per la forza della volontà, s'è dovuta riadattare al corpo. Che fatica per sollevare la terra con cui mi avevano ricoperta. Guarda: il palmo delle mie mani è tutto martirizzato. Baciale: solo tu puoi guarirle, amore mio diletto."
Mi applicò sulle labbra, l'una dopo l'altra, le sue gelide palme. Le baciai infinite volte, mentre lei mi guardava con un sorriso indecifrabile.
Confesso, a mia vergogna, che avevo ormai del tutto dimenticati gli ammonimenti dell'Abate Serapione, e il mio stesso abito talare. Ero caduto al primo assalto, senza opporre alcuna resistenza. Non avevo neppure provato a respingere la tentazione.
La freschezza che emanava dalla pelle di Clarimonde scendeva nella mia, e mi sentivo correre lungo il corpo brividi di voluttà. Povera bambina! Malgrado tutto quel che vidi poi, stento ancora a credere che fosse un demone. In quel momento, almeno, non ne aveva certo l'aria: Satana non ha mai nascosto meglio i suoi artigli.
Era accucciata sul bordo del mio lettuccio, in un atteggiamento pieno di civetteria spontanea, e ogni tanto mi faceva scorrere le dita tra i capelli e formava dei riccoli, come se volesse provare l'effetto, intorno al mio viso, di diverse acconciature. Io la lasciavo fare col più colpevole compiacimento, mentre lei accompagnava i suoi gesti col più seducente cinguettìo.
"Ti amavo infinitamente già prima di vederti, caro Romualdo. E ti ho cercato ovunque. Ti scorsi poi nella chiesa in quel fatale momento e mi dissi subito: è lui. Quanto sono gelosa di Dio, che ami più di me. Quanto sono infelice. So che non avrò mai il tuo cuore per me sola, io che per te ho vinto il sepolcro, e vengo a dedicarti la mia vita, io che mi sono ripresa unicamente per farti felice."
Ogni frase era interrotta da carezze deliranti e lascive, che mi stordirono al punto che, per consolarla, osai pronunciare un'orrenda bestemmia: le dissi che l'amavo almeno quanto Dio. Le sue pupille subito si ravvivarono.
"è vero. Tu mi ami quando Dio", esclamò abbracciandomi. "E poiché è così, verrai con me e mi seguirai dove vorrò. Lascerai questi lugubri vestiti neri. Sarai il più bello, e il più invidiato dei cavalieri, il mio amante. è un gran destino essere l'amante riconosciuto di Clarimonde, di colei che ha rifiutato un Papa! Che dolce vita felice e dorata condurremo. Mio signore, quando partiamo?"
"Domani! Domani!", gridai nel mio delirio.
"Va bene, domani", rispose Clarimonde. "Avrò il tempo di cambiarmi: l'abito che porto è troppo succinto, inadatto a un lungo viaggio. Bisogna anche che avvisi i miei servitori, che mi credono morta. Denaro, abiti, carrozza, tutto sarà pronto domani. Verrò a prenderti a questa stessa ora."
Mi sfiorò la fronte con le labbra gelide, poi la lampada si spense, le cortine si chiusero, e non vidi più nulla. Un sonno di piombo, un sonno senza sogni, mi avvolse, lasciandomi immoto fino all'indomani mattina.
Mi svegliai più tardi che d'abitudine, e il ricordo di quella apparizione mi turbò durante tutto il giorno. Finii col convincermi che era stata un frutto della mia immaginazione esaltata. Tuttavia, le sensazioni erano state così vive che mi era difficile credere che non fossero reali; non fu senza apprensione, dunque, che mi misi a letto la sera, dopo aver pregato il Signore di distogliere da me ogni laido pensiero, e di proteggere la castità del mio sonno.
Mi addormentai subito d'un sonno di piombo, e la visione della notte innanzi riprese. Le cortine si sollevarono, e apparve Clarimonde, non più nel suo diafano e bianco sudario, ma gaia e splendente in un superbo vestito di velluto verde con ricami d'oro. I suoi riccioli biondi sfuggivano da un ampio cappello nero, ornato di piume bianche; teneva in mano un frustino che aveva in cima un fischietto d'oro. Mi toccò leggermente e mi disse: "Allora, bell'addormentato? è così che ti prepari? Pensavo di trovarti in piedi. Lesto, non c'è tempo da perdere. Vèstiti e partiamo."
Saltai giù dal letto. Lei stessa mi porse gli abiti, togliendoli da un bagaglio che aveva portato, ridendo della mia goffaggine, e indicandomene il giusto uso, quando, per inesperienza, mi sbagliavo. Mi pettinò lei; porgendomi poi uno specchio, mi chiese: "Ti piace? Vuoi prendermi come tua cameriera personale?"
Non ero più lo stesso, non somigliavo a quello che ero prima più di quanto una statua non ricordi la pietra informe da cui è stata ricavata. Ero bello, e la mia vanità si gonfiava in seguito a questa prodigiosa metamorfosi. Quei vestiti eleganti, quella ricca giacca ricamata, facevano di me una persona completamente diversa. Lo spirito del mio costume entrava nella mia pelle.
Feci qualche passo su e giù per la stanza, per acquistare scioltezza di movimenti. Clarimonde mi osservava, soddisfatta dell'opera sua: "Bene, ora basta con le bambinate, Romualdo carissimo. Dobbiamo andare lontano: è tempo di incamminarci, se vogliamo arrivare". Mi tese quindi la mano e mi trascinò con lei. Tutte le porte si aprivano al suo solo apparire.
Fuori trovammo Margaritone, il cupo scudiero che mi aveva fatto la prima volta da guida. Reggeva per la briglia tre cavalli neri, uno per ciascuno di noi. Quei cavalli dovevano certo essere nati da giumente fecondate dal vento, perché correvano più veloci del turbine, e la Luna, che s'era levata al momento della nostra partenza per illuminarci, girava nel cielo come una ruota staccata da un carro: la vedevamo saltare d'albero in albero, come affannata per tenerci dietro.
Da quella notte in poi, la mia natura si sdoppiò: c'erano in me due uomini, di cui uno era ignoto all'altro. A volte, mi credevo un prete che ogni sera pensava d'essere un giovin signore; altre volte, un giovin signore che sognava d'essere un prete. Non riuscivo più a distinguere il sonno dalla veglia, né sapevo dove cominciasse la realtà e dove finisse l'illusione.
Il giovin signore vanesio e libertino si faceva beffe del prete, il prete detestava la condotta dissoluta del giovin signore; due spirali incastrate l'una nell'altra, senza tuttavia mai toccarsi, rappresenterebbero bene l'immagine di quella vita bicefala che era diventata la mia. Malgrado la stranezza della situazione, non credo tuttavia d'aver mai sfiorato la pazzia, neppure per un istante. Ho sempre conservato la percezione precisa delle mie due esistenze. C'era soltanto un fatto assurdo che non riuscivo a spiegarmi: il sentimento cioè di uno stesso "io" che conviveva in due uomini così differenti.
C'era poi la circostanza che io ero, o credevo di essere, a Venezia. Ancor oggi non so ben distinguere quanto vi fosse di realtà e quanto di illusione nella mi bizzarra avventura. Abitavamo in un lussuoso palazzo di marmo sul Canal Grande, ricco di statue e d'affreschi, con due Tiziano dell'epoca migliore esposti nella camera da letto di Clarimonde. Avevamo a disposizione una gondola e un barcaiolo ciascuno, la nostra sala da musica e il nostro poeta personale.
Conducevo la vita d'un principe, e mi davo da fare come se appartenessi alla famiglia di uno dei dodici Apostoli o dei quattro Evangelisti. Frequentavo la miglior società: figli di papà, magari rovinati, attrici, scrocconi, parassiti e spadaccini.
Tuttavia, malgrado i costumi dissoluti di tutti, restai sempre fedele a Clarimonde. Averla, era come godere di venti amanti diverse, come possedere tutte le donne, tanto lei era mobile, mutevole, multiforme: un vero camaleonte. Con lei, compivo tutte le infedeltà che avrei potuto compiere con altre, capace com'era di assumere completamente il carattere, l'andatura e il tipo di bellezza di qualsiasi donna mi avesse colpito.
Sarei stato del tutto felice, senza quel maledetto incubo che mi tornava ogni notte, e mi faceva credere d'essere un pretino di campagna che stava a macerarsi e a far penitenza per i suoi stravizi diurni. Rassicurato dall'abitudine di stare con Clarimonde, neppure pensavo più al modo singolare in cui ci eravamo conosciuti. Tuttavia, di tanto in tanto, le parole dell'Abate Serapione mi tornavano in mente, angosciandomi.
Da quache tempo la salute di Clarimonde era meno perfetta. La sua carnagione diventava ogni giorno più pallida: i medici nulla capivano della sua malattia, e non sapevano che fare. Prescrissero qualche medicina inutile e non tornarono più.
Ma lei continuava a impallidire a vista d'occhio, e la sua pelle era sempre più fredda. Era ormai bianca e smorta come in quella notte fatale, nel castello sconosciuto. Mi disperavo nel vederla deperire così. Commossa dal mio dolore, lei mi sorrideva dolcemente con l'espressione melanconica di chi sa di dover presto morire.
Una mattina, stavo facendo colazione accanto al suo letto, per non lasciarla sola nemmeno un minuto. Mentre tagliavo un frutto, mi procurai per caso al dito una ferita abbastanza profonda. Il sangue ne uscì subito fuori in un rivolo rosso e qualche goccia sprizzò su Clarimonde. I suoi occhi subito brillarono, e il suo volto si atteggiò ad un'espressione di gioia selvaggia, che non avevo mai visto.
Saltò giù dal letto con agilità ferina, come un gatto o una scimmia, e si precipitò sul mio dito, mettendosi a succhiarlo con indicibile voluttà. Suggeva il sangue a piccoli sorsi, lentamente e preziosamente come un buongustaio che assapori il miglior vino di Xères. I suoi occhi erano socchiusi, e la sua pupilla era diventata oblunga. Ogni tanto s'interrompeva per baciarmi la mano, poi ricomincava a premere le sue labbra sulle labbra della ferita, per cercare di estrarne qualche altra goccia purpurea.
Quando vide, infine, che il sangue non sarebbe più uscito, si alzò con gli occhi umidi e brillanti, più rosea dell'aurora di maggio, il viso ricomposto, la mano umida e calda: insomma, più bella che mai e in forma perfetta.
"Non morirò più. Non morirò più!", gridò, pazza di gioia, avvinghiandosi al mio collo. "La mia vita è nella tua, e tutto quel che è mio viene da te. Poche gocce del tuo ricco e nobile sangue, più prezioso di qualsiasi elisir, mi hanno restituito la vita."
Questo evento mi lasciò a lungo pensieroso, suscitando in me i più strani pensieri su Clarimonde. Quella sera stessa, appena il sonno mi ricondusse nel mio presbiterio, rividi l'Abate Serapione, più serio e preoccupato che mai. Mi osservò attentamente e mi disse: "Non contento di perdere l'anima, ora vuoi perdere anche il tuo corpo. Sciagurato, sei caduto in un'orribile trappola."
Il tono con cui pronunciò queste poche parole mi colpì vivamente, ma l'impressione non durò a lungo.
Una sera, però, in uno specchio di cui lei non aveva calcolato la posizione traditrice, vidi che Clarimonde mi stava versando una polverina nella coppa di vino aromatizzato che usava offrirmi sempre alla fine del pasto.
Presi la coppa, finsi di portarla alle labbra, e poi la posai su un mobile, come se avessi l'intenzione di finirla in seguito. Ma, appena la bella mi voltò le spalle, ne versai rapidamente il contenuto sotto il tavolo. Andai poi nella mia camera e mi stesi sul letto, deciso però a non dormire per rendermi conto di quello che sarebbe successo.
Non dovetti attendere molto. Clarimonde entrò in camicia di notte e, liberatasene, si sdraiò vicino a me nel letto. Si accertò che stessi veramente dormendo, poi mi denudò un braccio e, togliendosi dai capelli uno spillone d'oro, cominciò a mormorare sotto voce: "Una gocciolina, solo una gocciolina, un puntino scarlatto sul mio spillone! Povero amore mio, berrò il tuo bel sangue, così vigoroso. Dormi, bimbo mio, non ti farò male, prenderò della tua vita solo quel che basta per non estinguere la mia. Se non t'amassi tanto, potrei servirmi delle vene di qualche altro amante; ma da quando ti conosco chiunque altro mi ripugna. Che bel braccio, rotondo, bianco. Non so decidermi a pungere questa bella, piccola vena, amore mio."
E, mentre parlava, piangeva, e io sentivo le lacrime cadermi sulla pelle. Infine si decise, praticò una piccola incisione con la spilla, e si mise a succhiare il sangue che ne sprizzava. Appena ne ebbe sorbita qualche goccia, il timore d'esaurirmi la spinse a mettermi un cerottino, dopo aver medicato la ferita con un unguento che la cicatrizzò immediatamente.
Non potevo avere più dubbi, l'Abate Serapione aveva visto giusto. Tuttavia, malgrado l'acquisita certezza, non potevo fare a meno di amare Clarimonde, e le avrei dato volentieri tutto il mio sangue pur di prolungare la sua esistenza artificiale.
D'altra parte, non avevo nemmeno una gran paura. A quell'epoca avevo vene copiose, che non si sarebbero certo esaurite tanto presto, e non stavo a mercanteggiare la mia vita goccia a goccia. Mi sarei anche volentieri aperto da solo le vene e le avrei detto: "Bevi". Ma volevo evitare di alludere al narcotico e alla scena dello spillone, per non turbare il nostro accordo che continuava perfetto.
Solo i miei scrupoli di prete continuavano a tormentarmi, e non sapevo quali nuove penitenze inventare per vincere e mortificare la mia carne. Per evitare di cadere in balìa di quelle penose visioni, mi costringevo a non dormire; mi tenevo le palpebre aperte con le dita, e rimanevo in piedi, appoggiato alla parete, lottando con tutte le forze contro il sonno.
Ma la sabbia dell'assopimento mi bruciava gli occhi ben presto e, vedendo ogni lotta inutile, lasciavo cadere le braccia per lo scoramento e la stanchezza, mentre di nuovo la corrente mi trascinava verso le perfide rive della mia vita da dissoluto. Serapione mi faceva le esortazioni più vive, e mi rimproverava della mia ignavia e del mio scarso fervore.
Un giorno in cui ero più turbato del solito, mi disse: "Per liberarti dell'ossessione che ti travaglia non c'è che un rimedio e, benché sia estremo, converrà adottarlo. Io so dove Clarimonde è sepolta. Bisogna disseppellirla, in modo che tu veda quale sia in realtà l'oggetto delle tue insane passioni. Non sarai più tentato di perdere l'anima immortale per un immondo cadavere, roso dai vermi, vicino a dissolversi in polvere. Tornerai certamente in te, dopo questa esperienza."
Io ero così esaurito da quella doppia vita che acconsentii. Volevo sapere una volta per tutte chi, tra il prete e il giovin signore, era la vittima dell'illusione. Ero deciso a far perire, a vantaggio dell'uno o dell'altro, uno dei due uomini che vivevano in me; altrimenti, ad annientarli entrambi, perché una vita simile non poteva continuare.
L'Abate Serapione si munì di un badile, una leva e una lanterna, e a mezzanotte ci trovammo al cimitero di ***, di cui conosceva perfettamente la disposizione. Dopo aver illuminato parecchie lapidi con la lanterna, finalmente giungemmo a una pietra seminascosta dalle erbe, divorata dal muschio e dalle piante parassite, su cui si leggeva ancora un inizio di iscrizione:
Qui giace Clarimonde
la più bella delle donne
che, quando visse...
"Eccola", disse Serapione e, posata a terra la lanterna, inserì la leva nella fessura terminale della lapide, e cominciò a sollevarla. Il marmo cedette, e lui cominciò a lavorare col badile. Io lo guardavo fare, cupo e silenzioso come la notte. Quanto a lui, curvo sulla sua macabra operazione, era in un bagno di sudore, ansimava, e il suo respiro spezzato pareva il rantolo di un agonizzante.
Era uno strano spettacolo: chi ci avesse visti, ci avrebbe preso per profanatori o ladri di tombe, piuttosto che per due preti. Lo zelo di Serapione aveva qualcosa di duro e selvaggio, che lo rendeva più simile a un demone che a un apostolo, e il suo volto dai rudi tratti severi, profondamente marcati dal riflesso della lanterna, non aveva nulla di rassicurante.
Sentivo un sudore di ghiaccio colarmi lungo le membra, i capelli mi si drizzavano in testa, nel fondo di me stesso vedevo l'atto dell'austero Serapione come un abominevole sacrilegio, e avrei voluto che dalle nubi oscure che rotolavano su di noi scaturisse un fulmine per ridurlo in cenere. I gufi, appollaiati sui cipressi, turbati dal bagliore della lanterna, venivano a battere pesantemente contro il vetro le loro ali polverose, emettendo lugubri gemiti. Le volpi guaivano in lontananza, e mille suoni sinistri laceravano il silenzio.
Infine, il badile di Serapione urtò la bara, e le assi risuonarono con un rumore secco e sonoro, lo spaventoso rumore sordo che esce dal nulla quando lo si sfiora. Serapione alzò il coperchio, e vidi Clarimonde, bianca come il marmo, a mani giunte.
Il candido sudario l'avvolgeva con un unico drappeggio. Una goccia vermiglia sembrava una rosa sull'angolo della sua pallida bocca.
Serapione nel vederla fu scosso da un'ira paurosa: "Eccoti qui, demone, lurida cortigiana, succhiatrice di sangue e d'oro."
Asperse d'acqua benedetta il corpo e la bara, e con l'aspersorio tracciò un segno di croce. La povera Clarimonde, appena spruzzata dalla santa annaffiatura, si disfece in polvere: non ne restò che una miscela informe di ceneri e ossa mezzo consumate.
"Ecco la tua amante, signor Romualdo. Ti dice ancora qualcosa di bello l'idea di fare una passeggiata al Lido, con questa bellezza?"
Chinai il capo. Qualcosa era finito, dentro di me. Tornai al presbiterio, e il giovane Romualdo, l'amante di Clarimonde, si divise dal povero prete, a cui per tanto tempo aveva tenuto una compagnia così singolare.
La notte seguente, vidi ancora un'ultima volta Clarimonde.
Mi disse: "Sciagurato, che hai fatto? Perché hai ascoltato quel prete imbecille? Non eri forse abbastanza felice con me? Che t'avevo fatto di male per darti il diritto di violare così la mia povera tomba, mettendo a nudo le miserie del mio niente? Ogni legame tra le nostre anime e i nostri corpi è ormai spezzato per sempre. Mi rimpiangerai."
Svanì quindi nell'aria come nebbia, e non la rividi mai più. Purtroppo, con le sue ultime parole aveva detto il vero. L'ho rimpianta più di una volta e la rimpiango ancora. Ho acquisito ormai la pace dell'anima, ma a ben caro prezzo: l'amore di Dio non è stato poi eccessivo per sostituire il suo.
Ecco, Padre. questa è la storia della mia giovinezza. Non guardi mai nessuna femmina, e cammini sempre con gli occhi bassi: perché, per casto e tranquillo che lei si senta, un istante di distrazione è sufficiente per perdere l'eternità.
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