Heinrich Heine: "Il negatore di fantasmi" (1826) e le poesie



Nella notte che passai a Goslar mi accadde una cosa straordinaria: non posso pensarci senza orrore. Di natura non sono così pauroso; sì, sa Dio che non ho mai provato paura, neppure, ad esempio, se una nuda lama tentava di fare conoscenza con il mio naso o se di notte mi smarrivo in un bosco malfamato o se durante un concerto un sottotenente minacciava di inghiottirmi con i suoi sbadigli. Ma davanti agli spiriti io tremo come davanti all'Osservatore Austriaco. Cos'è la paura? Viene dal sentire o dalla ragione? Discutevo spesso di queste cose con il dottor Saul Ascher quando ci incontravamo al Caffé Royal di Berlino, dove ero solito far colazione. Egli sosteneva che quando temiamo una cosa, la temiamo perché la ragione stessa con le sue deduzioni ce la fa ritenere temibile: la forza è la ragione, non il sentire. E mentre mangiavo e bevevo birra, egli mi dimostrava le prerogative dell'intelletto. Al termine della dimostrazione guardava il suo orologio e concludeva "La ragione è il principio più alto!"
Ragione! Quando sento questa parola, rivedo il dottor Ascher con le sue gambe astratte, il frac attillato d'un grigio trascendentale ed il viso così ruvido e glaciale che poteva fare da pubblicità a un manuale di geometria. Quest'uomo sulla cinquantina sembrava una linea retta personificata. Nella sua costante tendenza verso tutto ciò che è positivo il pover'uomo aveva ridotto a filosofia tutte le bellezze della vita, tutto lo splendore del sole, tutta la fede, tutti i fiori e non gli restava altro che una fredda e positiva tomba. Mostrava una particolare acrimonia nei confronti dell'Apollo del Belvedere e del cristianesimo. Contro quest'ultimo aveva scritto un opuscolo in cui ne dimostrava l'irrazionalità e l'assurdità. Aveva scritto una pila di libri in cui vantava l'eccellenza della ragione e, poiché era in buona fede, meritava ogni rispetto. Ma la cosa più divertente era la grottesca serietà del suo viso quando non riusciva a capire qualcosa. Qualche volta andai a trovare a casa il "dottor Ragione" e lo trovai con delle belle ragazze, perché la ragione non vieta la sensualità. Una volta che andai a fargli visita, il servitore mi annunciò: "Il signor dottore è morto", e la cosa non mi fece più impressione che se mi avesse detto: "Il signor dottore ha cambiato casa".
Ma torniamo a Goslar. "Il principio più alto è la ragione!", dissi a me stesso per rendermi tranquillo mentre mi mettevo a letto. Ma la formula non mi giovò. Nei "Racconti tedeschi" di Varnhagel di Ense, che avevo portato con me da Klausthal, avevo letto la terribile storia di un ragazzo che, destinato ad essere ucciso dal padre, era stato avvertito durante la notte dallo spirito della madre defunta. La magnifica narrazione del fatto mi impressionò talmente che durante la lettura fui scosso da un profondo brivido.  Certo i racconti di fantasmi danno un più forte senso di paura se letti nel corso di un viaggio, di notte, in una città, in una casa e in una stanza dove non si è mai stati. "Chissà quanti fatti terribili devono essere accaduti in questo luogo dove ti trovi!" si pensa spontaneamente. Inoltre la luna brillava così ambigua nella mia stanza, e sulla parete si muovevano ombre così strane... Quando mi drizzai sul letto per guardarmi intorno, vidi...
Non c'è niente di più inquietante che vedere per caso il proprio volto in uno specchio al chiaro di luna. Intanto suonò, pesante e sonnolenta, una campana, così a lungo e così lentamente che dopo dodici rintocchi pensai che fossero passate dodici ore e che dovesse ricominciare daccapo a battere le dodici. Fra il penultimo e l'ultimo rintocco suonò un orologio, rapido, squillante e quasi strillando, come spazientito dalla lentezza della sua signora compagna. Quando entrambe le voci metalliche tacquero e in tutta la casa regnò un silenzio di tomba, mi sembrò di sentire qualcosa muoversi, trascinarsi, nel corridoio davanti alla mia stanza, come l'esitante andatura di un vecchio. Alla fine la porta si aprì e lentamente entrò il defunto dottor Ascher. Un brivido febbrile mi corse per le ossa; tremavo come una foglia di pioppo; ed osai appena alzare gli occhi sul fantasma. Vidi, come in passato, lo strano abito d'un grigio trascendentale, le stesse gambe astratte, lo stesso viso matematico. Era solo più pallido d'una volta; anche la bocca, che misurava agli angoli 22 gradi e 1/2 era raggrinzita e il cerchio degli occhi aveva un raggio maggiore. Vacillando ed appoggiandosi come un tempo al suo bastone da passeggio mi si avvicinò e nel suo ostico gergo abituale mi disse cordialmente: "Non abbia paura e non creda che io sia un fantasma. è un'impressione della sua fantasia che lei mi veda come un fantasma. Che cos'è un fantasma? Me ne sa dare una definizione? Sa dirmi le condizioni di possibilità d'un fantasma? In quale logico rapporto si troverebbe tale apparizione con la ragione? La ragione, io dico la ragione!"
E il fantasma cominciò a fare un'analisi della ragione. Citò la "Critica della ragion pura" di Kant, seconda parte, primo libro, secondo capitolo, terzo paragrafo, dove si parla della differenza tra fenomeno e noumeno; parlò della problematica credenza dei fantasmi, mise un sillogismo dietro l'altro e concluse logicamente che i fantasmi non esistono. Nel frattempo un sudore freddo mi copriva la pelle; e i miei denti battevano come castagnette; e solo per paura annuivo ad ogni punto in cui il dottore dimostrava l'assurdità della paura dei fantasmi. Egli, da parte sua, si infervorò talmente nella dimostrazione che alla fine, per distrazione, invece dell'orologio d'oro tirò fuori dal taschino un pugno di vermi; e, notato l'errore, rimise in fretta e furia tutto in tasca. "La ragione è la cosa più alta...". L'orologio suonò l'una e il fantasma sparì.

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Info tratte da



Il poeta che chiude la grande parabola del Romanticismo Tedesco è Heinrich Heine (1797-1856)
Egli fu un'anima divisa e tormentata: i solenni ideali romantici giunsero a lui ormai spenti.
Costretto a subire per vivere la tracotanza borghese di un ricco zio banchiere, Heine condensò nel suo meraviglioso "Libro dei Canti" tutti i motivi tipici del Romanticismo ma li bruciò al fuoco di una ironia che distruggeva alla base ogni illusione.
"L'impero del Romanticismo è al termine e io sono l'ultimo re della favola", confessò.
Cantò di cavalieri e dame di un ideale Medioevo, ninfe e streghe, castelli e cappelle gotiche, i personaggi e luoghi del più scoperto Romanticismo ma ironizzandoci: con Heine il Romanticismo ironizza su se stesso, con un sorriso tra le lacrime.
Al termine della sua vita egli scrisse: "Il sonno è buono, la morte è migliore; ma ancora meglio sarebbe non essere mai nati."

Ecco come si presenta Heine nelle sue migliori poesie:

Io non so che voglia dire
che son triste, così triste.
Un racconto d'altri tempi
nella mia memoria insiste.

Fresca è l'aria e l'ombra cala,
scorre il Reno quetamente;
sopra il monte raggia il sole
declinando all'occidente.

La bellissima fanciulla
sta lassù, mostra il tesoro
dei suoi splendidi gioielli,
liscia i suoi capelli d'oro.

Mentre il pettine maneggia,
canta, e il canto ha una malia
strana e forte che si effonde
con la dolce melodia.

Soffre e piange il barcaiolo,
e non sa che mal l'opprima,
più non vede scoglie e rive,
fissi gli occhi ha su la cima.

Alla fine l'onda inghiotte
barcaiolo e barca… ed ahi!
Questo ha fatto col suo canto
la fanciulla Lorelei.


Da "Il libro dei Canti"

I pallidi morti, ch'io seppi
con magico motto evocare,
nel mondo di tenebra eterna
non vogliono più ritornare.

Il magico motto che appresi
obliai nel terrore; e me, ora,
gli spiriti stessi trascinano
laggiù, nella cupa dimora.

Lasciatemi, demoni oscuri,
e non sospingetemi più!
Ancora molta gioia può esservi
per me, nella luce quassù.

Io tendere debbo pur sempre
qui verso il bellissimo fiore;
che vale l'intera mia vita,
se darle non posso il mio amore?

Ancora una volta abbracciarla
e premerla al cuore infuocato!
La bocca baciandole e il viso,
godere un tormento beato!

Ancora una volta nel labbro
udire un suo tenero accento...
e tosto nel mondo di tenebra
vi posso seguire contento.

Gli spiriti m'hanno compreso
e accennano orribile un "sì"
Diletta ora sono venuto;
diletta, m'ami tu, dì?

Io, della mia donna la casa ho lasciato,
e la mezzanotte è appena suonata.
E dal cimitero, che sto costeggiando,
severe le tombe mi vanno accennando.

E là, della luna nel vivo chiarore,
m'accenna la lapide dell'umile cantore.
E ascolto un bisbiglio: "Io vengo, fratello!"
e un bianco fantasma vien su dall'avello.

E l'umil cantore, già fuori venuto,
sull'alta lapide sta ora seduto;
esperto percuote le corde alla cetra
e canta con voce così sorda e tetra:

Orsù ricordate l'antico motivo,
voi torbide corde, che il petto a me vivo
percosse con tanto furore?
Lo chiamano gli angeli gioire superno,
lo chiamano i diavoli tormento d'inferno,
lo chiamano gli uomini: Amore!

E questa parola è appena suonata,
ed, ecco, ogni tomba s'è già scoperchiata.
Aeree figure ne escono e ondeggiano
intorno al cantore, e in coro salmeggiano:

Folle amore, la tua possa
ci distese nella fossa;
gli occhi un tempo ci chiudesti,
perché ora ci ridesti?

è un ululo, un gemito confuso, un gridare
e d'ossa un sinistro urtare e scrosciare;
intorno al cantore lo sciame si serra.
Selvagge le corde cantando egli afferra...