Sergio Quinzio: gli stralci più belli sulla Morte e il Nulla


"Malgrado il dogma di Gesù cristo incarnato, vero Dio e vero uomo (*), lo spirito anzichè vivificare ha soffocato la carne. Nella stessa affermazione della resurrezione dei morti si è vista soprattutto una ricomposizione, nel senso di un completamento, alla fine dei tempi, del "composto umano" che la morte ha lacerato separando l'anima dal corpo"
[...] Noi dobbiamo invece dire, cristianamente, che l'idea della sopravvivenza dell'anima è stata pensata quando ha incominciato a indebolirsi, con la fede dei battezzati, la speranza della resurrezione della carne [...]
L'immortalità dell'anima non è una speranza riposta nel Dio che salva, ma è concepita come qualcosa di connaturato all'essenza stessa dell'anima umana, immortale per sua natura. Non c'è bisogno che Dio intervenga per far sì che ciò che è "naturale" naturalisticamente si compia. L'immortalità dell'anima è concepita come qualcosa che già è, che non potrebbe non essere. 
Eppure la fede, pur non essendo del mondo, vive nel mondo, e in un mondo in cui la carne è esaltata. Questa esaltazione della carne è il frutto, per quanto stravolto, della tradizione ebraico-cristiana, è Gerusalemme, e non Atene. La resurrezione della carne è il culmine reale della nostra corporeità, mentre nell'orizzonte pagano e in altri orizzonti lontani dalla tradizione monoteistica la corporeità è in definitiva apparenza o inessenziale contingenza. Se la carne deve morire per sempre, allora è vano ogni suo trionfo. La carne ha bensì uno strettissimo rapporto con la morte: non soltanto è solo la carne a poter morire, ma è la morte che dà un sigillo di dignità alla sua debolezza, alla sua finitezza. è proprio questa debolezza, questa mortale finitezza che noi proclamiamo destinata ad essere salvata e consolata dal Signore. Solo chi sperimenta la morte può sperimentare la resurrezione. La resurrezione della carne è un raccogliere la debolezza e la finitezza dell'uomo, con le sue gioie e le sue sofferenze, un non lasciar cadere nel nulla il suo passato, la sua memoria, un restituirgli tutto nella sua umiltà, che Dio stesso ha assunto nell'incarnazione. Fin dalle primissime pagine della Genesi, Eva è data ad Adamo come consolazione e nelle ultime pagine dell'Apocalisse è scritto che Dio ci restituirà, Dio ci consolerà. La resurrezione ha anche un carattere tragico, come mostra il racconto di Lazzaro uscito dal sepolcro con il suo sentore di putredine. La resurrezione è l'estremo, il più perfetto atto di carità che può essere compiuto nei confronti di una creatura quando è caduta nella più irrimediabile delle povertà, la perdita di tutto, della sua stessa vita.
La salvezza promessa non può essere intesa soltanto come "perdono dei peccati": questa concezione ha finito per attribuirle il carattere di un'estratta conciliazione dell'anima con Dio, o di una formale non imputazione delle colpe. La salvezza deve essere compresa anzitutto come redenzione dalla sofferenza, dell'umano destino di patimento e di morte, di cui il perdono del peccato, ottenuto per mezzo della croce di cristo, è lo strumento, la causa, non il fine ultimo.
Sulla fede nella resurrezione dei morti - come  del resto anche sull'idea dell'immortalità dell'anima - cade facilmente l'accusa di non essere altro che una proiezione puramente immaginaria dell'attaccamento egoistico di ciascuno a se stesso. Non c'è nessun motivo - salvo l'ipocrisia che, intorno a noi, vediamo ispirare le più affettate istanze di perfetto altruismo - per negare cittadinanza a questo elementare e primario bisogno del vivente di non perdere la sua vita.
Ma la fede  nella resurrezione non è soltanto un segno di attaccamento alla propria vita, che al cristiano anzi è richiesto di dare per il prossimo. Le Sacre Scritture ci mostrano molto chiaramente che tale fede e il paradossale esito storico del bisogno irrinunciabile di credere nella giustizia di Dio. L'idea di resurrezione dei corpi appare infatti chiaramente, nella bibbia ebraica, come abbiamo visto, solo nel libro di Daniele, che viene datato al secondo secolo prima di cristo. Dio aveva promesso a chi osservasse la sua legge, la vita, e aveva minacciato, a chi non l'osservasse, la morte.
Ma intorno alla metà del secondo secolo gli ebrei subirono la terribile persecuzione di Antioco IV Epifane, nella quale a patire e a morire non furono coloro che non osservavano la legge, ma, al contrario, proprio, e solo, coloro che si ostinavano, contro la volontà del re, a restare fedeli alla loro religione e ad osservarne i precetti. Posti di fronte a questa tragica esperienza, che contraddiceva nel modo più terribile e diretto la promessa di Dio, negando così la sua giustizia e la sua veridicità, e quindi la sua stessa divinità, divenne necessario, per salvaguardare la sua giustizia, affermare l'esistenza di un tempo al di là della morte in cui i giusti che avessero sofferto avrebbero visto consolate le sofferenze ingiustamente patite e gli empi avrebbero espiato le loro colpe. Pensare la resurrezione non significa dunque pensare la salvezza della propria singolarità al di là della cancellazione e dell'oblio operati dalla morte, ma significa pensare anzitutto, nella resurrezione di cristo, la resurrezione con lui di ogni creatura - e non necessariamente soltanto delle creature umane, com'è scritto nell'ottavo capitolo della Lettera ai Romani. Un cristiano non potrebbe pensare la resurrezione se non come il ritrovamenteo di coloro che gli furono, e ancora gli sono nella fede della resurrezione, i più cari, i più amati, coloro le cui sofferenze e la cui morte sono state per lui esperienza ancora più amara, più scandalosa e più intollerabile delle proprie sofferenze e della propria morte.

Oggi la carne è ovunque esaltata. Un'esaltazione anticristica che la lega inscindibilmente allo spettacolo, al successo, al denaro, e che, nel vuoto generale, tenta di attrarre a quello che sembra l'ultimo residuo di realtà e di senso. Un simile, esasperato culto della corporeità ha ridotto l'esercizio della sessualità a ripetizione coatta sempre meno intensa, sempre meno appagante, sempre più bisognosa di stimoli artificiali. Il consumismo consuma infine anche se stesso. Ebbene, di questa anticristica esaltazione della carne siamo in gran parti colpevoli noi cristiani che, distaccando la carne da ciò che è voluto da Dio, e contrapponendola paganamente allo spirito, l'abbiamo abbassata, degradata, condannata come turpe, dimenticando che la carne vuole anzitutto consolazione. I pagani comprendevano tutto ciò che è umano nel segno armonioso della "misura" mentre la "dismisura" apparteneva agli Dei. Il cristianesimo ha invece portato nel mondo, con l'incarnazione e l'Uomo-Dio (*), la dismisura. Ma quando abbiamo esasperato quella dismisura - abbandonando la carne, sulle orme degli antichi filosofi greci, dichiarandola inferiore e indegna dello spirito - noi cristiani abbiamo consumato un tradimento e spalancato la via all'uso puramente egoistico di essa.
Ma per chi ha udito l'annuncio biblico, resta comunque cinico frugare nei corpi considerandoli destinati alla morte e alla corruzione e cancellandoli in modo che non resti di loro nessuna presenza e poi nessuna memoria.
Essi non andranno più a comporre nel tempo, ricongiungendosi ai loro padri, una catena che non si spezza e che nella sua continuità ha un senso.
Per noi la catena non si costruisce mai, perché è quasi completamente perduto il rapporto fra le generazioni, sicchè ogni anello viene di volta in volta staccato e buttato via. I corpi, in questa visione, sono stati ridotti ad oggetto, a merce, che come ogni merce ha un prezzo. E nessuna legge può impedire che questo avvenga. Come merce vengono dunque venduti e comprati non solo cadaveri ma anche uomini e bambini e feti abortiti uccisi per essere utilizzati in trapianti cellulari, in operazioni di ingegneria genetica, in ricerche biologiche, mediche, perfino cosmetiche, e chissà ancora in quali altri tipi di esperimenti. è difficile immaginare quanto spazio ci sia ancora da percorrere, in questa direzione, per giungere al limite ultimo di queste fino a ieri inediti e impensabili mostruosità. Nei confronti di tali orrori contemporanei, perfino gli eccidi e gli stermini più crudeli appaiono meno disumani, perché oggi gli uomini sono abbassati, senza residui, fino all'infimo grado di merce, da trattare senza odio e senza amore, senza disprezzo e senza pietà come oggetti indifferenti. L'odio per il nemico conservava, anche nell'orrore, un ultimo residuo di umanità, concedendo, a chi veniva torturato e ucciso, un'estrema briciola di dignità: quella di essere considerato, per quanto inferiore e degno di morte, un essere animato e non soltanto una cosa.
Non si tratta semplicemente di condannare l'uso,  
più o meno connesso alla compravendita, di esseri umani o di loro parti, in quanto i cadaveri sono considerati "sacri" e quindi intoccabili. Questo è riconosciuto da ogni civiltà e restano le romane dodici tavole a testimoniae che "sunt aliquid manes" che "deorum manium iura sancta sunto". La tradizione ebraico-cristiana ha abbandonato questa concezione "sacrale" del defunto. Non il terrore che il morto possa ritornare, non questo arcaico terrore sacro, impedisce nell'orizzonte cristiano di utilizzare corpi morti nei modi che si è detto o in altri ancora che potrebbero venire inventati. Se un cadavere è sacro, ma diremmo molto meglio "santo", lo è solo in quanto si riflette in esso la "santità" che appartiene a ogni essere umano, in quanto creato da Dio e animato dal suo stesso alito vitale, destinato perciò alla resurrezione e alla vita senza fine. è la santità del vivente, che si proietta sulle sue spoglie mortali. è facile capire che, se non è riconosciuta nessuna santità, non sentiremo più alcun obbligo di rispetto per il corpo morto di un nostro fratello - e forse neppure per quello della persona che ci è stata più vicina e cara, che più abbiamo amato. Ma questa incapacità, a sua volta, non potrà non tornare a riflettersi nell'incapacità sempre più radicale di considerare l'essere umano nella sua umanità e nela sua, comunque potenziale, santità.
La perdita del senso della vita umana conduce alla perdita del senso delle spoglie mortali, e questa, nuovamente, va a gravare di non senso, di indifferenza, il nostro modo di concepire i viventi.
Nella nostra società vi sono movimenti che vedono negli animali, o almeno in alcune specie di animali, qualcosa di non riducibile a pura merce, e rivendicano i diritti di queste creature. è quanto esigeva l'antica - ma ahimè caduto e ignorato - precetto della macellazione rituale, ancora ribadito nel Nuovo Testamento. Il sangue, biblicamente, è la sede del principio vitale dell'animale, del quale pertanto l'uomo, non disponendo di alcun diritto sulla vita, non può liberamente disporre. La legge di Dio concede di uccidere animali affinché l'uomo possa cibarsene, ma prescrive che essi siano dissanguati, poiché il loro sangue non appartiene all'uomo, bensì a Dio. Analogamente, il sacrificio cruento di animali, che sottostava alla stessa regola, riconosceva il valore della vittima sacrificale, proprio perché altrimenti essa non avrebbe potuto cancellare di fronte alla giustizia divina - come accade nel caso del sacrificio espiatorio - la colpa di un altro essere vivente, la colpa dell'uomo. Ma la perdita di rispetto per gli animali, il loro essere divenuti in ogni senso merce assolutamente disponibile - uccisa dopo la tortura dell'allevamento industriale o degli stabulari dei ricercatori - è stato l'antecedente dell'attuale riduzione a merce tanto del cadavere umano quanto dell'uomo vivo.
A questo moderno processo di perdita di significato e di valore della vita e della morte si contrappone d'altra parte nella cultura contemporanea, almeno nelle sue punte più significative, una tendenza che riconosce e addita questa profondissima decadenza, questa universale aberrazione. Vi è la concorde consapevolezza che alla perdita di senso della vita si accompagna quella della morte, perché senso della vita e senso della morte sono inseparabili. In altre culture la morte è stata accettata come un fatto naturale, e quindi senza patirne scandalo, come la fine di ciò che è solo parte della grande, necessaria ed eterna macchina cosmica. Ma fin quando resterà sia pure soltanto un residuo di senso cristiano, non potremo ritornare a nessuna serena e pacifica accettazione della morte. Fra i maggiori autori moderni e contemporanei sono molti gli irriducibili nemici della morte: in loro si manifesta la volontà di resurrezione dei morti che, negata e schiacciata in fondo ai cuori della presuntuosa stoltezza del mondo, preme e grida la sua domanda e la sua speranza.

Del resto, nella definitiva confusione del nostro tempo, molti prodotti culturali tendono in qualche modo a sopprimere la distanza incolmabile fra morte e vita, mantenendone tuttavia la più terribile tensione. Essi dimostrano così che il nostro immaginario collettivo è ancora attratto, sebbene nei modi più tetri e macabri, da un'esigenza trasmessaci nella stringente testimonianza della speranza ebraico-cristiana nella resurrezione dei morti. Impotenti a riattingere la vetta della più paradossale delle speranze, vediamo tuttavia molti uomini affascinati dai tentativi di pervenire, in futuro, alla possibilità di risuscitare i morti con metodi scientifici quali l'ibernazione, o di ritardare indefinitamente, sempre con mezzi scientifici, il momento della morte.
C'è chi già oggi segretamente confida nel progresso della scienza fino al punto di pensare di non dover mai più morire.
Ma chi percorre queste vie in realtà non fa altro che ripercorrere, con una fede nella scienza, l'antica prospettiva cristiana, la speranza di pervenire alla vita del regno senza dover passare attraverso la morte come affermava di sé Paolo.
Queste esperienze e queste vicende mostrano con sufficiente chiarezza che nella tecnica si assiste all'ultima metamorfosi del monoteismo, all'ultimo, e anticristicamente stravolto, tentativo di giungere alla salvezza che era stata annunciata nella fede. E attraverso di esse si vede la difficoltà e la contradditorietà del rapporto dell'uomo contemporaneo con la morte.
I tanatologi descrivono gl uomini del nostro tempo e della nostra società come incertamente sospesi fra tabù della morte e ostentazione della morte: la si nasconde nel chiuso degli ospedali, si evita di parlarne e insieme, proprio per questo, essa esplode e trionfa ovunque, sui teleschermi e sui giornali, per le strade.
La morte rimane l'unico, il vero problema, che fuggiamo e che ci attrae, che tentiamo invano di eludere perché sappiamo di non potervi dare risposta, se non facendoci timidi e confusi imitatori di un folle annuncio che abbiamo udito duemila anni fa.
Cerchiamo di eludere la morte fingendo che ci siano chissà quante altre cose più importanti. Mentre la morte sempre più ci divora, dal di dentro e dal di fuori, noi cerchiamo di sfuggirla soprattutto trasformandola in spettacolo. Impotenti a sperare e a credere, sempre più evadiamo nel'estetico, l'unico punto di fuga che può permanere una volta smarriti nel nulla i criteri della vita e della morte, del vero e del falso, del bene e del male. 

Stralci tratti da "La sconfitta di Dio"

Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici, per poterlo fare. (pagina 104)

Secondo Jonas, se Dio è buono e comprensibile (nel senso in cui ne parla la Bibbia) allora non può essere onnipotente; e se è onnipotente e buono insieme, non è comprensibile (soprattutto non è comprensibile dopo Auschwitz) [nota di Lunaria: questa stessa cosa, ovvero come è possibile, se è ancora possibile, credere in Dio, e soprattutto nella sua "bontà", dopo Auschwitz, se la chiedono anche i Pensatori Ebraici come Wiesel e Lèvinas; ma comunque sia, un dio unicamente maschile sarebbe comunque ingiusto verso le donne]. Dio è buono solo se non è onnipotente, unicamente a questa condizione possiamo affermare, nonostante l'esistenza del male nel mondo, che Dio è comprensibile e buono.

(nota di Lunaria: riporto qui le frasi di Pareyson, che così "giustifica Dio" e la sua onnipotenza:

"Dio contiene dunque in sé, come possibilità ab aeterno, vinte e superate, il Nulla e il Male. Per cogliere questo punto essenziale, si cerchi di pensare e tener fermo un unico atto originario, in cui l'irruzione di Dio nell'Essere (l'esistenza di Dio) il suo affermarsi come Positività (la sua scelta del Bene), il suo rifiuto dell'altra alternativa (l'eliminazione del Male), il suo superamento del Negativo (la sua vittoria sul Nulla) si identificano e sono tutt'uno, un unico e medesimo atto", "Egli è Libertà, e la Libertà è di per sé ambigua, nel senso che può esser Libertà positiva o Libertà negativa, e quel dilemma fra Bene e Male, Essere e Nulla, non fa che esprimere tale ambiguità.","Si ravvisa la suprema dialettica divina nel fatto che Dio è sempre insieme Positività e Negatività, Affermazione e Negazione, cioè collera e grazia, Ira e Misericordia inseparabilmente.","Il Male in Dio è soltanto la possibilità del Male, la quale può essere tradotta in realtà solo per opera dell'uomo, al momento della sua Caduta.", "L'aspetto angosciante consiste nel fatto che questa presenza del Male in Dio è già quasi l'annuncio della Catastrofe, cioè della Caduta dell'uomo, con la quale il Male sarà realizzato.")

Se nessuna onnipotenza si è mai data, se Dio non è mai stato e mai sarà onnipotente, sembra disfarsi il senso stesso del Dio unico: qualcosa o qualcuno, allora, lo limitava o lo limita fin dall'origine, e forse a questo qualcosa o qualcuno dovremmo allora attribuire il nome di Dio. (pagina 44)

Schelling, l'ultimo Schelling, che soccombette al trionfo hegeliano, ma al quale non mancarono e non mancano seguaci, pensava che l'onnipotenza implica anche la possibilità della rinuncia all'onnipotenza.
Se infatti diciamo che Dio c'è, diciamo che le cose sono in ultima analisi come lui le ha volute e decise, e cioè che sono come sono perché devono essere tali; se diciamo che non c'è nessun Dio, diciamo pressapoco la stessa cosa: non c'è nessun altro modo in cui le cose debbano o possano essere, le cose, insomma, sono così come devono essere.(pagina 95)

[Nota di Lunaria: Sartre, a questo proposito, in "L'Esistenzialismo è un Umanismo", scritto nel 1946, afferma: "L'Esistenzialismo non vuole essere ateo in modo tale nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla"] 


Stralci tratti da "La Croce e il Nulla"

[parlando di Simone Weil] "Come Dio si è ritratto, ha abdicato per amore della creatura, così l'uomo, a sua imitazione, deve negare se stesso e ritornare in Dio. Al sacrificio di Dio deve corrispondere il sacrificio dell'uomo che dopo aver accettato di sottomettersi all'infelicità alla "sofferenza che fa orrore, che si subisce proprio malgrado, che si vorrebbe fuggire, dalla quale si supplica di non essere colpiti" deve infine uscire dalla Natura e dalla Storia.

(Nota di Lunaria: riporto una frase che lessi alcuni anni fa, su un'antologia, ma non ricordo chi la disse: "Benedire l'Orrore dell'Esistenza"; a mio parere, è interpretabile così: l'esistenza non è che dolore e malattia, ma sia che lo si faccia "per fede in un Dio che si percepisce come Amore" (altrimenti, bisognerebbe bestemmiarlo e odiarlo, se la sua natura fosse solo di sadismo e male, per averci creato...) piuttosto che non "Devo trovare la forza di andare avanti, con qualcosa che potrebbe anche essere la speranza, altrimenti non mi resta che il suicidio" ecco che "benedire l'orrore dell'esistenza, i suoi dolori, la sua angoscia, accettarli, persino, rielaborarli" diventa l'unico modo per dare senso - o almeno tentare - di dare un senso alla nostra esistenza)

Il sacrificio è un dono a Dio, e dare a Dio è distruggere. è dunque bene pensare che Dio ha abdicato creando,(Nota di Lunaria: qui, a mio parere, Quinzio si riferisce allo Zim Zum ebraico, il contrarsi di Dio, il suo "farsi da parte", creando il vuoto, per permettere al mondo che stava per creare di poter esistere, nello spazio da lui lasciato vuoto contrandosi) e che gli si restituisca distruggendo. Il Sacrificio di Dio è la Creazione; quello dell'uomo è la Distruzione.

[Parlando di Elie Wiesel] "Perché benedirlo? (si riferisce a Dio, nota di Lunaria) Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare i crematori giorno e notte, e anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di Morte?... Il Dio Ebraico è nella domanda e non nella risposta." (Nota di Lunaria: lo stesso Wiesel era stato deportato).

Dopo tanti idoli illusori e deludenti, l'unica possibile salvezza dal Nulla è la consapevolezza del Nulla.
Fissato, il volto del Nulla può convertirsi nel Volto di Dio (Nota di Lunaria: qui mi sembra si possa fare un collegamento tra Quinzio e gran parte della Mistica Cristiana, specialmente Meister Eckhart, che concepisce Dio come un Puro Nulla) impotente nella Storia, la cui causa è indifendibile, ma che insegna l'implacabile pietà e l'implacabile coraggio della domanda.

A forza di pensarla per decenni, invecchiando, la Morte mi sembra sempre meno terribile. Questa è già la sua vittoria. Non mi prende alla gola perché mi ha già preso.

La mancanza di volontà di vivere, che oggi dilaga endemica, è l'unica malattia certamente mortale, alla quale non ci sarà rimedio in eterno.

Voler vivere l'attimo separato da memoria e speranza è già evadere dalla vita.

La Fede è il coraggio di fissare il Nulla.

Il moderno è un'enorme malattia cresciuta nello spazio del mancato evento escatologico, una malattia disperata perché consiste nella perdita della naturale rassegnazione alla sofferenza e alla morte.

Certo, non la pietà, non l'umiltà, non l'ingenuità, non la debolezza possono salvarci, ma forse il disporsi con orrore a povere sconfitte e disperate cose come queste.

Al tramonto delle ideologie della Storia è succeduta nella cultura e nel costume contemporanei la Notte del Nichilismo... ma la Notte del Nichilismo nasconde cose nelle sue tenebre, non è necessariamente un muro che chiude il cammino, ma è una possibilità nuova, sebbene estremamente difficile e precaria.

Ha senso riproporre oggi il ritorno a ciò che ci aveva già abbondantemente stancato e deluso ieri, solo perché quel che avevamo messo al suo posto ci ha a sua volta appena stancati e delusi?

Il Nichilismo è inseparabile da un grande amore per la vita perché un grande amore per la vita è inseparabile da una più che disperata delusione.

Il Nichilismo è lo svelamento storico del senso della Croce.

Il Nichilismo l'abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il Nulla.   


Trascrivo anche qualche pagina di Sandro Maggiolini, tratta da "Apologia del Peccato" (1983). Sandro Maggiolini è stato vicario episcopale per la Pastorale delle Università di Milano. Tra le sue pubblicazioni: "Il matrimonio, la verginità" (1976), "Parola di Dio, preghiera dell'uomo" (1980), "Quasi sorella morte" (1982).


Pagina 15-16

Chiamo "tragedia" una situazione dove gli elementi che entrano in contrasto non approdano ad una soluzione più alta e armonica, ma si elidono tra loro, si distruggono l'un l'altro, raggiungendo una "pace" che è quella della morte. L'uomo sperimenta la "tragedia" quando è lacerato da una antinomia senza scampo: quando in lui la dissociazione interiore non trova esito, e lo conduce a un assurdo che non può essere accolto o tollerato. Allora subentra la reazione nichilistica. Il suicidio sarebbe la conclusione più logica della "tragedia": il suicidio consumato di fatto in una maniera determinata, in un momento preciso; o il suicidio protratto nel tempo, vissuto come rinuncia a costruire il proprio destino: protestando, urlando nel vuoto, o piegandosi ad una fatalità che si avverte insensata ma inevitabile, e scelta, voluta. Non sono pochi i casi di persone che, pur non appendendosi a una trave, non sparandosi alle cervella, non ingurgitando dosi letali di barbiturici, avvertono, tuttavia, in modo ossessivo e raffinato il fascino del nulla e se ne lasciano conquistare. I più non vogliono neppure ammettere la contraddizione che li tormenta, e si "lasciano vivere" tentando di dimenticare la disperazione che pur urge dentro e invoca uno sbocco. "Fornicavano e leggevano giornali", direbbe Camus. E Thomas Mann: "Così viveva il ragazzo... giorno per giorno senza aspettare altro dalla vita se non il giorno che sorgeva e moriva." Si tratta di situazioni non poi tanto remote: forse in misura diversa le abbiamo vissute un poco tutti. Esistenze strascicate, scialbe, senza un rigurgito di dignità e un guizzo di fiducia.
Il momento "tragico" nasce nell'uomo dalla decisione di chiudersi in se stesso, di opporsi a ogni altra istanza, di rifiutarsi a ogni invocazione. In chiave cristiana, dalla scelta di ribellarsi a Dio. La "tragedia" coincide così col peccato. Anzi, col peccato radicale: quello per cui ci si sequestra nel proprio io e ci si rende inoppugnabili a ogni incursione della misericordia che viene offerta ma che non si impone. In un universo di comprensione cristiana, la "tragedia" non si giustifica con il nonsenso dell'esistenza, ma con la libertà di ciascuno che opta per un'esistenza priva di senso: assurda, perchè chiusa all'Assoluto.


Pagina 19

Ritengo leale ammettere degli errori o delle colpe nel passato o anche nel presente da parte cristiana. Da parte di noi credenti. Forse almeno dei malintesi non mancano neppure sul versante anticristiano. è quanto meno sbrigativo, a esempio, destituire l'uomo di ogni responsabilità asserendo che Dio non vorrebbe o non potrebbe togliere il male dal mondo, e dunque Dio medesimo andrebbe tolto di mezzo, come suggerisce una frase pungente e leggerissima, spesso sfoderata, di Voltaire: "Non credete affatto in Dio, piuttosto che addebitargli proprio ciò che negli uomini sarebbe impossibile... Essa (questa dottrina) fa di Dio la cattiveria stessa, la cattiveria senza misura e senza scopo, che ha creato esseri pensanti al fine di renderli infelici per tutta l'eternità, o anche l'impotenza e l'imbecillità stessa che non ha potuto né prevedere, né impedire l'infelicità delle sue creature". Già. Dopo di che, come si spiega il male? Lo si ipostatizza e se ne fa una sorta di destino cieco?  O a chi lo si attribuisce? Dopo Auschwitz, dopo i Gulag, davvero non si può più credere in Dio, o diventa necessario credergli, se non si vuole che i morti rimangano senza senso e che l'uomo sia schiacciato da una fatalità che non può neppur più essere chiamata cattiveria? è del tutto logico e ponderato cancellare Dio dalla realtà perché non lo si avverte sensibilmente agire dentro la storia?


Pagina 21

"Che cosa può un soggetto se, slegato dall'Assoluto, si è abbandonato all'alea dell'insensato?" ha scritto H.B. Lévy: "Niente, risponde il secolo. è materia, solo relativa materia, nell'alchimia della Storia. Andrà a rotolare in fondo al baratro col suo glorioso fucile... se non c'è più il peccato, il crimine è l'anima. Se non c'è redenzione, l'espiazione è il vivere. Se Dio non è più il Padrone, vince sempre la morte. Sollievo? Tutt'altro. Le catene sono più che mai pesanti. Vuoti i cieli senza Dio? Tutt'altro. Sono pieni della sua assenza muta, più esigente di qualsiasi presenza. Liberato l'empio? Non siamo mai stati tanto prigionieri come da quando non crediamo più."


Pagina 24

Siamo all'oscillazione, al pendolarismo cui alludevo. Irritante e comprensibile, se si riflette sul fatto che "ogni volta che l'uomo acquisisce una più elevata rivelazione di se stesso, si fa orrore", come afferma Proudhon: orrore per la responsabilità a cui si trova legato - qui mi stacco da Proudhon -, e non solo per l'inclinazione al male che registra in se stesso.


Pagina 30

Ancora un personaggio di Dostoevskij per sgomento di fronte alla libertà "restituisce il biglietto" dell'esistenza come rischio. Niente peccato possibile. Ma in tal modo, rimane ancora all'uomo una qualche fierezza, una qualche maestà?  Sartre ha previsto palesemente l'approdo della sua concezione di libertà illimitata: "Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre... sono libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte".


Pagina 44

Richiamavo Hegel, per il quale duro e crudele è il "dolore infinito dell'assenza di Dio", duro a provarlo e a confessarlo; ma è "crudeltà" necessaria, perchè la "sofferenza assoluta, ossia il "Venerdì Santo Speculativo", è condizione sine qua non della Resurrezione.


Pagina 45

Non bisogna scorgere nella mentalità e nel modo di vivere di oggi, soltanto errori e aberrazioni. Anche gli orologi fermi sono esatti due volte al giorno.


Pagina 56

E Maritain aggiungerebbe: "Senza la libertà fallibile, non vi è libertà creata; senza libertà creata, non vi è amore d'amicizia tra Dio e la creatura; senza amore d'amicizia tra Dio e la creatura, non vi è trasformazione soprannaturale della creatura in Dio, e non vi è ingresso della creatura nella gioia del suo Signore. Ed era bene che questa suprema libertà fosse liberamente conquistata. Il peccato, il male è il prezzo della gloria."


(*) Ovviamente Quinzio, da bravo maschietto cristiano,


non si interroga (né tantomeno troverebbe scandaloso o semplicemente irritante) al come mai dio si è fatto solo uomo maschio e cosa significhi che non ha reso divino il sesso femminile... cosa significa che noi signorine siamo rimaste senza ipostasi. Ennò, i cristianucoli maschi (ma pure le femminucole ingenuotte e analfabete) non se lo chiedono. Riporto qui, in sintesi, qualche spunto per schiarirsi le idee:

Mary Daly, "Al di là di Dio Padre":


"Non è tuttora insolito che preti e ministri cristiani, posti di fronte al discorso della liberazione della donna, traggano argomenti a sostegno della supremazia maschile dall'affermazione che Dio "si incarnò" esclusivamente in un maschio. In effetti la stessa tradizione cristologica tende a giustificare tali conclusioni.
Il presupposto implicito - e spesso esplicito - presente per tutti questi secoli nella mente dei teologi è che la divinità non poteva degnarsi di "incarnarsi" nel "sesso inferiore" e il "fatto" che "egli" non lo abbia fatto conferma ovviamente la superiorità maschile."

"L'idea di un salvatore unico di sesso maschile può essere vista come un'ulteriore legittimazione della supremazia del maschio (...) In regime di patriarcato un simbolo maschile sembra proprio il meno indicato ad interpretare il ruolo di liberatore del genere umano dal peccato originale del sessismo. L'immagine stessa è unilaterale per quanto concerne l'identità sessuale, e lo è proprio dal lato sbagliato, perché non contraddice il sessismo e glorifica la mascolinità."

"Gli aspiranti pacificatori delle donne amano molto citare il testo paolino che proclama "in Cristo non c'è né maschio né femmina". Viene spontaneo rispondere che anche se fosse vero, di fatto altrove maschio e femmina sicuramente ci sono. Per di più, i fatti concreti della realtà sociale e dato il fatto che l'immagine di Cristo è maschile, ci si deve chiedere quale significato-contenuto questa frase possa mai avere"
"Ho già osservato che il testo paolino "in Cristo non c'è... maschio né femmina", funziona in questo modo, perché semplicemente e palesemente ignora il fatto che Cristo è un simbolo maschile e perciò a tale livello esclude la femmina."

"Diviene sempre più evidente che i simboli esclusivamente mascolini per l'ideale della "incarnazione" o per quello della realizzazione umana non vanno bene [...] Una logica conseguenza della liberazione della donna sarà la perdita di credibilità delle formule cristologiche che riflettono ed incoraggiano l'idolatria verso la persona di Gesù."

"Le donne sono state condizionate a considerare riprovevole ogni atto che affermi il valore dell'ego femminile. L'ambizione femminile può "passare" solo quando viene diluita nell'ambizione vicaria tramite il maschio o per conto dei valori patriarcali. Per controbattere questa autosvalutazione di massa le donne dovranno costruire l'orgoglio femminile, alzando i nostri standard relativi a quanto è bello essere donna. Il nostro fallimento è consistito nel non aver affermato attivamente l'ego femminile. Se dobbiamo vergognarci di qualcosa, è di questo."