La Cascina della Morte

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Cascina "Della Morte" (scomparsa): cascina antichissima, di proprietà dei canonici di San Nazaro di Milano; era posta vicino a Cascina dei Prati, in prossimità dell'oratorio di san Matroniano.

Per raggiungerla c'era una strada apposita che partiva da Viboldone, poco dopo Videserto, sulla destra.

Venne nominata negli atti del censimento del 1537 dove si cita "Francesco Grasso, massaro nella Cascina della Morte"

Nelle mappe antiche attorno a questa cascina figurano il Prato della Morte e il Bosco della Morte, un fontanile che nasceva vicino alla cascina, chiamato Il Fontanile della Morte.

Non conosciamo l'origine di questa denominazione, possiamo solo dire che attorno ai prati su cui sorgeva si svolse un'aspra battaglia tra milanesi e truppe imperiali di Federico II nel 1239 e che sempre in quel luogo vi era il borgo di Madregnano, scomparso.

La cascina venne abbattuta nel 1800 e apparteneva al comune di Sesto Ulteriano.

Nei registri del Monastero di Viboldone appare anche una Cascina Novella (1558), descritta come una casa con cortile e fienile, ubicata vicino a Montone, e poi scomparsa. Non sappiamo nient'altro.


Storia di Pedriano (con foto del 2025 e cose nuove che ho scoperto!)

Avevo già dedicato un post a Pedriano (così piccino, eppure la ricerca storica che più mi ha dato soddisfazione, insieme a Villastanza, Villapia e Mantegazza) https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2023/08/la-cappella-degli-ex-voto-pedriano.html ma visto che mi era venuta nostalgia 💜 ci sono tornata. Ecco foto molto più nitide rispetto a quelle del 2023! E nuove cose che ho scoperto 😍😁

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Nota di Lunaria: è dal 2019 che conosco Pedriano, ma non ero mai andata da sola, a piedi, bensì lo avevo visto passandoci in macchina, come "passeggera". L'ultima volta lo vidi il 20 agosto 2023, verso le 20.30 e pur avendo scattato le foto della Cappella degli Ex Voto, non erano venute molto nitide.

Negli ultimi tempi, provando nostalgia per quelle zone (che amo molto) ci sono ritornata, questa volta a piedi, "mettendomi alla prova" (non sono proprio percorsi facili ed immediati da raggiungere...) e ho scattato le foto, che sono venute più nitide. Perciò riaggiorno la ricerca su Pedriano, con le foto scattate il 6 Ottobre 2025, in una bella giornata autunnale solare (fare tutto quel percorso a piedi, nei campi, da sola, è stata una bella esperienza, e sono arrivata fino all'Ossario di Mezzano) 



Inoltre rispetto alle altre volte, studiando bene Pedriano con googlemaps, sono riuscita a localizzare l'ex cimitero (del quale esisteva una foto, ma in bianco e nero)

Ebbene, l'ho scattata io a colori e giustamente rivendico questo ex cimitero con i Capolavori degli Abysmal Grief, che ho tenuto come sottofondo per questa Impresa Lunariale! 

Ad Maiorem Metal Gloriam! 💜💀

Info tratte da

La prima notizia riguardante il borgo di Pedriano è contenuta in un atto del 1090 in cui vengono nominati paesi e fondi del milanese, e tra questi si trova anche un "Pudriano".

Nel XIII secolo, nell'elenco del Bussero, si trova menzione di un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo (protettore dei Longobardi) Questo potrebbe indicare che alle origini, a Pedriano, si fosse stanziato un gruppo di soldati dell'esercito longobardo.

Le terre di Pedriano furono via via proprietà di famiglie diverse: Litta, Cottica, Crivelli, Castano, della Corte, che possedevano anche il mulino del vettabiolo e il diritto d'uso delle acque della Vettabbia del Priorato di Calvenzano.

Al nucleo iniziale di Pedriano nel 1600 fu aggregata la Cascina Maiocca. [Nota di Lunaria: ci sono diverse "cascine" a Pedriano, e non so quale possa essere o se esista ancora, perciò metto la foto di una cascina, anche se non so se sia Cascina Maiocca]

Nel 1570 a Pedriano vi erano 127 abitanti, nel 1722 296 e nel 1862 vi era un totale di 837 abitanti.

Nel 1722 vi erano un'osteria e un prestino; nel 1869 Pedriano venne aggregato a Viboldone.

Dell'antichissima chiesa di Pedriano, dedicata a San Michele Arcangelo, non abbiamo molte notizie, ma si sa che esisteva fin dal XIII secolo.

Era un piccolo oratorio, con altare di legno e un crocifisso in oricalco; nella parete dietro l'altare era dipinto il trionfo di San Michele; il pavimento era in cemento, due finestre e la porta si apriva sul lato ovest; era a forma quadrata e attorno ad esso vi era il cimitero, chiuso da un cancello di legno.

Il campanile era già stato costruito nel 1587; da una fonte del 1749 sappiamo che si accedeva all'oratorio scendendo dei gradini di marmo perché il livello della chiesa era più basso rispetto alla strada: la chiesa era antichissima perciò venne interrata dall'innalzamento del terreno causato dalle sepolture circostanti.

Non sono rimasti disegni di questa chiesa, se non uno schizzo planimetrico del 1867: essa sorgeva alle spalle dell'abitato di Pedriano, vicino a Cascina Colombara.

Cadente, fu demolito [Nota di Lunaria: manca la data; non è chiaro se la chiesa sia stato demolita poco dopo il 1867 o nel '900] ma per perpetuarne la memoria, fu costruita sulla strada comunale una cappelletta votiva, unico ricordo dell'oratorio di San Michele Arcangelo, fondato all'epoca della dominazione longobarda 



[Nota di Lunaria: ho guardato all'interno di questa cappella e uno degli ultimi ex voto appeso alle pareti è datato 1988, il che lascia intendere che almeno fino al 1988 la gente ha continuato a pregare attorno a quella cappelletta e a mettere ex voto per le grazie ricevute. Non ho però visto riferimenti a San Michele Arcangelo, ma è presente un quadro di una Madonna con Bambino e una statuetta di un santo che potrebbe essere San Giuseppe o san Pietro… Ad ogni modo non credo che prima di me qualcuno abbia scattato foto dell'interno della Cappella - che peraltro, non sembra neanche una cappella, da tanto è diroccata, ma un magazzino per gli attrezzi, se non fosse per la piccola croce che fa capolino dal tetto, e che dubito davvero venga notata dagli automobilisti di passaggio… - perciò la rivendico come MIA ESCLUSIVA]














 

Non si sa quando il cimitero di Pedriano, posto attorno alla chiesa antica, sia stato chiuso alle inumazioni; i suoi defunti ad un certo punto vennero portati a Melegnano.



Nel 1792 si costruì un altro camposanto, in un'area isolata, dove ora vi è la via San Francesco di Melegnano (chiamato "el cimiteri di rann") [Nota di Lunaria: oggigiorno non credo sia rimasto più niente, ma quella via non l'ho percorsa tutta, e tra l'altro è l'unica via percorribile a piedi per raggiungere Pedriano]

L'area su cui sorgeva venne ceduta al Comune di Melegnano nel 1942, assieme alla cascina Maiocca e alla Maiocchetta, e i defunti di Pedriano e Mezzano lì sepolti vennero trasferiti a San Giuliano Milanese.

Nel 1932 venne costruito il sottopasso conducente da San Giuliano a Sant'Angelo e la costruzione della strada Binasca [Nota di Lunaria: tristemente nota perché è stata spesso usata come luogo per la prostituzione e lì, nel 2021, è stata barbaramente accoltellata una donna, Luljeta, e nel campo dove è stata aggredita compare una croce] hanno stravolto questo lembo del territorio sangiulianese.





Nota di Lunaria: tornando indietro verso Melegnano, ho notato quella che sembra essere una cappella:




La vedo anche dal finestrino del treno e in effetti mi chiedevo come mai Melegnano, che ha conservato tante nicchie e affreschi votivi, non avesse una cappella... Possibile che quello fosse "el cimiteri di rann" e magari si è salvata solo questa cappella? 

Visto che è una specie di cantiere abbandonato non posso neanche entrare per vedere se effettivamente trattasi di una cappella...


Byron: "Un Frammento"

Nell'anno 17... poiché da tempo avevo deciso di fare un viaggio in paesi fino ad allora poco frequentati, partii accompagnato da un amico che chiamerò col nome di Augustus Darvell. Questi era maggiore di me di pochi anni e possedeva una notevole fortuna e un titolo nobiliare di antica data, vantaggi che la sua grande intelligenza gli impedivano di sottovalutare ma anche di tenere in eccessiva considerazione. Alcune particolari circostanze della sua vita avevano attirato la mia attenzione, il mio interesse e perfino un rispetto che né il suo riserbo né le occasioni manifestazioni di inquietudine, che rasentavano a volte l'alienazione mentale, erano riusciti a cancellare.

Io ero ancora un neofita in un genere di vita che avevo intrapreso molto presto, ma la mia intimità con lui era di recente data. Avevamo frequentato le stesse scuole e la stessa università, ma lui vi era andato prima di me e da tempo era stato iniziato a quello che viene comunemente definito il mondo, mentre io vi stavo ancora facendo il mio noviziato. Durante questo periodo avevo spesso sentito parlare della sua vita passata e presente; e benché tali racconti contenessero ogni sorta di contraddizioni insanabili, pure nel complesso ne dedussi che doveva trattarsi di una creatura fuori del comune, che, pur facendo ogni sforzo per non farsi notare, non poteva passare inosservata. In seguito avevo coltivato la sua compagnia e avevo cercato di conquistarmi la sua amicizia, cosa però che sembrava impossibile: qualsiasi fossero stati i suoi affetti precedenti, ora sembravano scomparsi o concentrati su pochissimi oggetti. Che le sue emozioni fossero acute ebbi spesso modo di notarlo, perché, pur riuscendo a controllarsi, non poteva dissimularle completamente. D'altro canto aveva la capacità di dare a una passione le apparenze di un'altra, per cui era difficile stabilire esattamente che cosa gli si agitasse dentro.

Per di più sul suo viso le espressioni si succedevano così rapidamente anche se in modo impercettibile, che era inutile cercare di rintracciarne la causa.

Una cosa comunque era evidente, che fosse vittima di un'incurabile ansia.

Ma non riuscii a scoprire se questa era dovuta all'ambizione, all'amore, al rimorso, al dolore, a una o a tutte queste passioni messe insieme, o semplicemente a un temperamento morboso fino all'instabilità. Si sarebbero potute citare circostanze a sostegno di ciascuna di queste ipotesi. Ma come ho detto, queste erano così contraddittorie tra loro e così spesso smentite, che non se ne poteva dare nessuna per certa.

Dove c'è un mistero, si dice generalmente che ci sia anche del male.

Io non saprei: c'era senz'altro un mistero, ma in quanto al male non riuscii mai ad accertare fino dove arrivasse, anzi per quello che mi riguardava ero perfino restio a credere che esistesse.

Le mie offerte d'amicizia furono accolte con evidente freddezza, ma ero giovane e non mi scoraggiavo facilmente, per cui alla fine riuscii a ottenere quello scambio di vedute e quella superficiale confidenza basata su interessi simili e su frequenti incontri in società, che vengono definiti amicizia o intimità a seconda del punto di vista di chi parla.

Darvell aveva già viaggiato molto. A lui perciò mi rivolsi per ottenere consigli e informazioni sul viaggio che intendevo fare. In segreto nutrivo il desiderio di riuscire a convincerlo ad accompagnarmi, una speranza abbastanza fondata perché si basava sull'ombrosa irrequietezza che avevo già osservato in lui e che l'animazione con cui discuteva di quegli argomenti e l'indifferenza che sembrava provare per tutti coloro che lo circondavano non facevano che rafforzare.

Dapprima accennai solo indirettamente a questo mio desiderio, poi glielo espressi chiaramente: la sua risposta, anche se in parte scontata, mi riempì di gradevole sorpresa: acconsentiva.

Così fatti i preparativi necessari partimmo.

Dopo aver visitato diversi paesi nel sud dell'Europa volgemmo gli occhi verso l'Oriente, che era stato fin dall'inizio la nostra meta.

E fu proprio attraversando quelle regioni che ebbe luogo l'incidente intorno a cui ruota quanto sto per raccontare.

La fibra di Darvell, che, a giudicare dal suo aspetto, in gioventù doveva essere stata più robusta, da qualche tempo non era più la stessa, apparentemente senza che fosse intervenuta alcuna malattia specifica.

Non soffriva di tosse né di tisi, eppure si faceva ogni giorno più debole. Era di abitudini parche e non evitava la fatica né se ne lagnava. Ma era ovvio che andava consumandosi. Si faceva sempre più silenzioso e dormiva sempre meno, e alla fine apparve così prostrato che il mio allarme crebbe in proporzione al pericolo che sembrava lo minacciasse. Avevamo deciso che arrivati a Smirne avremmo fatto un'escursione per visitare le rovine di Efeso e di Sardi, escursione da cui cercai di dissuaderlo, visto il suo incerto stato di salute. Ma invano!

Eppure sembrava esserci in lui un senso di oppressione e una solennità di modi in contrasto con il suo vivo desiderio di partecipare a quella che consideravo semplicemente come una gita di piacere, poco adatta ad una persona sofferente. Alla fine però non opposi più resistenza, e pochi giorni dopo partimmo accompagnati da una sola carrozza e da un unico giannizzero.

Eravamo a più di metà strada per Efeso. Ci eravamo lasciati indietro le campagne fertili dei dintorni di Smirne e stavamo ora attraversando tra gole e paludi quel tratto di territorio brullo e disabitato che conduce alle poche capanne ancora in piedi intorno alle colonne in rovina del tempio di Diana, alle mura diroccate un tempo frequentate da una comunità cristiana o alla più recente ma totale desolazione di alcune moschee in abbandono, quando un improvviso e violento malessere del mio amico ci costrinse a fermarci in un cimitero turco, dove le lapidi sormontate da un turbante erano l'unico segno che qui un tempo erano vissuti degli esseri umani. Avevamo lasciato l'unico caravanserraglio che avessimo incontrato a qualche ora di cammino. Non si vedeva segno di città o casolare né si poteva sperare di incontrare più avanti. Questa "città dei morti" era apparentemente il solo rifugio dove il mio povero amico, che sembrava sul punto di trasformarsi anch'egli in uno dei suoi abitanti, poteva trovare asilo.

Stando così le cose mi guardai attorno per trovare un angolo dove potesse riposare il più comodamente possibile. Ma, contrariamente a quanto avviene di solito nei cimiteri maomettani, non c'erano molti cipressi e quei pochi sorgevano isolati qua e là mentre le lapidi erano quasi tutte cadute e giacevano a terra consunte dal tempo. Sostenendosi a fatica il mio amico si adagio su una delle più grandi, sotto l'albero più folto. Chiese dell'acqua. Dubitavo di riuscire a trovarne e mi preparai ad andare a cercarla tra mille incertezze e preoccupazioni. Ma lui chiese che gli restassi accanto e, volgendosi a Suleiman, il nostro giannizzero, che se ne stava in piedi lì vicino fumando tranquillamente, disse: "Suleiman, verbana su" ("vai a prendere dell'acqua") e si mise a descrivergli con dovizia di particolari il luogo dove trovarla, un piccolo pozzo per cammelli a poche centinaia di metri sulla nostra destra.

[continua...] 


Il Funerale di Giovanni Galeazzo Visconti

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Nel 1400, a Milano e dintorni, si sviluppò una nuova epidemia di peste che causò circa 20.000 morti.

Giovanni Galeazzo Visconti, signore della città, fece emanare una serie di disposizioni per combattere il flagello, tra cui quello di stendere un cordone sanitario attorno a Milano, ordinando che l'arrivo delle merci provenienti da sud si dovessero fermare a San Giuliano Milanese.


Il Duca, il 14 luglio 1400, scrisse da Pavia ai XII di provvisione e ai sindaci di Milano, dicendo che non trovava plausibile le loro ragioni di lasciare gli ammalati di peste nelle loro case, anziché trasportarli fuori Milano.

Giovanni Galeazzo dichiarò che era sua intenzione che gli ammalati venissero provvisti di tutto il necessario, sia di medici che di medicinali e che le persone sane, espulse dalla città, dovessero essere ospitate nei monasteri di Viboldone, Chiaravalle, Mirasole, Crescenzago e altri luoghi vicini.

Malgrado le precauzioni prese per debellarla, la peste uccise lo stesso duca di Milano, Giovanni Galeazzo, che morì nel castello di Melegnano il 3 settembre 1402.


La notizia della sua morte fu tenuta nascosta a causa della situazione politica del momento.

Il corpo del Duca fu portato nel monastero di Viboldone, dove gli furono estratti il cuore, in seguito donato alla basilica pavese di S.Michele, e i visceri portati in Francia e sepolti nel santuario di Sant'Antonio di Vienne.

Il corpo rimase a Viboldone.

In una cronaca contemporanea si può leggere che "corpus ex Melignano, ubi per secessum positus obierat Viboldonum per subitationem, jure majorem rerum, traslatum erat (Monasterium illud Humiliatorum est) ibique cum magnis diviis conditum, et sepultum"

I funerali di Stato furono celebrati il 20 ottobre, con una tale grandiosità da superare qualsiasi altra cerimonia dell'epoca: un grande corteo seguì in Duomo il feretro, privo però della salma del Duca, sepolta provvisoriamente nel cimitero del convento di Viboldone, dove rimase sino a quando fu terminato il monumento funebre costruito per lui nella Certosa di Pavia, che l'accolse definitivamente.










Breve Storia della Lebbra ☠️

 Magistralmente immortalata sull'album capolavoro dei Death


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Il viaggiatore che, lasciando dietro di sé il piccolo porto cretese di Haghios Nikolas prende la strada costiera lungo il golfo di Mirabello, risalendo verso il nord, giunge in una dozzina di chilometri ai piedi di un'antica città chiamata Olonte. Di là i suoi occhi scoprono un'insenatura dove piccoli villaggi di pescatori si rintanano al riparo della penisola di Spinalonga. A prima vista nulla di insolito viene a distruggere l'armonia di questo paesaggio di una bellezza eccezionale. Tuttavia, guardando più da vicino, un isolotto situato sulla punta dello sperone roccioso e di cui dalla riva si distinguono malamente le rovine corrose dalla baraggia, ferma più particolarmente l'attenzione, soprattutto quando si sa che servì da lebbrosario per poco più di un mezzo secolo. è facile noleggiare un barca per una modica somma, e recarvisi. Un vecchio prete ortodosso, l'antico cappellano dell'isola, fa visitare i luoghi dei quali resta l'ultimo occupante [Il libro è stato scritto nel 1967. Nota di Lunaria]

Dopo aver superato la porta della Marina, il villaggio morto appare con le sue facciate screpolate all'ombra della vecchia cittadella in cui si ammazzarono uno con l'altro, nel corso dei secoli, turchi, greci, veneti. L'attraversa una viuzza che serpeggia, s'innalza, incrocia la chiesa dalle icone sbiadite e arriva al cimitero dopo una breve passeggiata fra una rada vegetazione di fichi d'India e corbezzoli.

La minuscola necropoli si compone di una ventina di tombe: quando erano piene, si gettavano i cadaveri nella fossa comune. Quest'ultima offre, a tutta prima, l'aspetto di una cappella, ma aprendone la porta, lo sguardo fa un balzo di dieci metri nelle tenebre e viene a urtare contro una montagna di scheletri mostruosamente aggrovigliati. Appese a due pioli pendono nel vuoto alcune lenzuola. Sulla strada si scoprono degli oggetti familiari che ricordano ciò che fu la vita sull'isola per 52 anni.

La descrizione che ne fece un viaggiatore nel 1928 ritorna alla memoria.

Trascurati, abbandonati a se stessi, i lebbrosi di Spinalonga non tardavano ad immergersi negli eccessi peggiori: mondo infernale che la malattia rendeva più spaventoso per lo spettacolo delle infermità che vi si mettevano in mostra pubblicamente. Anche i suicidi e gli omicidi non erano rari. Carlo Nicolle, da cui abbiamo tratto queste parole, concludeva così: "è necessario, per l'onore della Grecia, che la vergogna di Spinalonga scompaia".

E così avvenne nel 1956, quando i malati vennero trasferiti all'ospedale di Haghia Barbara ad Atene. Così, grazie ad una presa di coscienza, la segregazione dei malati di lebbra è progressivamente scomparsa in numerosi paesi, ma esiste ancora in molti altri. Come pure sussistono le leggende riguardo la lebbra (Malattia di Hansen, è il termine corretto, per identificarla, dal nome dello studioso che la identificò nel 1873; la tubercolosi venne identificata da Koch nel 1882).

Perché questa mistica della lebbra, e il suo corollario, il martirio del lebbroso?

Per molto tempo si credette che la civiltà indiana fosse posteriore a quella dell'Egitto e della Mesopotamia ma dopo la scoperta delle vestigia dell'antichissima civiltà a Mohenjo Daro e poi ad Harappa, si può affermare che fosse la primogenita .

Il periodo vedico (2000-1000 a.C) vede la comparsa dei primi scritti, i Veda, insieme di opere letterarie diverse, dove si tratterebbe della Kushta, che qualcuno ha voluto vedere come lebbre; ma è col periodo eroico (1000-500 a.C) che si trova la prima descrizione della lebbra, fra le 1120 malattie enumerate dal medico Sushruta: in un trattato in sanscrito, descrive 18 tipi di piccole lebbre e 7 tipi di grandi. Il contagio di certe malattie era già ammesso in India e si attribuiva a degli agenti invisibili, affermando così il principio della microbiologia. 

I lebbrosi erano così maledetti: "Si nasconda e viva isolato, su un letto di letame con i cani rognosi e gli animali immondi, colui il cui corpo si copre di pustole simili alle bolle infette d'aria che si formano nelle paludi e bucano la superficie. Perché egli offende la luce! Si cacci dal villaggio a colpi di pietre e lo si copra di immondizie, lui, immondizia viva! Che i fiumi divini vomitino il suo cadavere!"

Così l'India appare se non come il primo, almeno come il più antico focolaio conosciuto dalla lebbra.


Prima dell'anno 1000, davanti al numero crescente di malati, la Chiesa prese l'iniziativa a favore di misure caritatevoli nei confronti dei lebbrosi; nel 549 il Concilio d'Orleans, infatti, aveva invitato i vescovi a preoccuparsi dei lebbrosi; è a quest'epoca che risalgono i primi lebbrosari;

Nel X secolo la lebbra era molto diffusa in Inghilterra, Scozia, Irlanda: è proprio dagli anglosassoni che i Vichinghi ne vennero contagiati, portando la lebbra in Norvegia e Danimarca.

Nel Medioevo europeo i massacri di lebbrosi furono a centinaia, visto che la lebbra veniva considerato un castigo di Dio; in Francia, i lebbrosi che avevano infranto le proibizioni che li riguardavano subivano la pena della Xippe: il malato era posto in una gabbia da uccelli, sospesa con una corda al di sopra di una fogna; la gabbia veniva calata nella fogna, poi risaliva e così via. Dopo parecchie immersioni, il disgraziato moriva.

Alla lebbra vista come castigo, si affiancava un carattere espiatorio: il lebbroso è "scelto" per soffrire, come Cristo, come vittima espiatoria; sugli stendardi di certi lebbrosari, alcune volte Cristo era rivestito con gli attributi del lebbroso: gualdrappa, cappuccio, zampa d'oca ricamata sul mantello, una nacchera in mano.

E così, vi furono anche dei santi protettori dei lebbrosi, che si esporranno deliberatamente al contagio: il mai esistito San Lazzaro, San Giorgio, san Francesco d'Assisi, San Giacomo il Maggiore, San Luigi re di Francia, San Martino, San Silvestro I, San Simeone lo Stilita, Santa Adelaide regina d'Italia, Santa Agnese, Santa Caterina da Siena, Santa Elisabetta d'Ungheria, Santa Enimie di Mende (che per sfuggire ad un matrimonio, domandò al Cielo la lebbra, la ottenne ed entrando in convento guarì subito), Santa Ildegarda di Bingen, Santa Radegonda, Sant'Idubergo, Sant'Itta, Sant'Oda, Santa Segolena, San Wandrillo.

Inoltre, confondendo Maria Maddalena e Marta come sorelle di Lazzaro, anche a Maria Maddalena vennero dedicati diversi lebbrosari: "la maddalena" identifica ancora oggi i luoghi in cui c'era un lebbrosario. 

Al giorno fissato per l'estromissione dalla società del lebbroso, il prete inviava al malato la sua divisa: era una tunica a mantello, grigia o nera o scarlatta (in Aquitania). La spalla sinistra e il petto erano ornati di una pezza di stoffa di drappo rosso, qualche volta a forma di zampa d'oca o di cuore; il lebbroso portava un cappello o un cappuccio nero, rosso, bianco, una nacchera in legno e il flabellum ligneum detto anche crotalo che doveva agitare ogni dieci passi di giorno e in continuità di notte; in Germania doveva suonare un corno per avvertire i passanti, e così i lebbrosi tedeschi vennero chiamati "Horngiebroder", "Fratello del corno". Una tazza, un tascapane, un cucchiaio, un barile, un coltello completavano il suo corredo.

I suoi parenti, amici, vicini venivano in processione; a volte la casa dove era vissuto veniva bruciata. Il lebbroso veniva accompagnato in processione, si recava in chiesa, al cimitero, infine al lebbrosario. In chiesa, doveva entrare in una specie di lettiga di corde. Si celebrava l'ufficio dei morti, e il lebbroso doveva avere il volto coperto, come un morto nella sua bara. Lo si conduceva poi al cimitero, e il malato doveva stare in ginocchio in una tomba, la "parva fovea", e poi il sacerdote gli gettava in testa tre palate di terra e gli diceva "Amico mio, tu sei morto al mondo." Poi veniva condotto al lebbrosario: ma non tutti i lebbrosari erano uguali, alcuni erano pensati per nobili e benestanti.

Per concludere questa breve storia della lebbra, citeremo alcune testimonianze dei lebbrosi che in tempi recenti, scrissero della malattia.

Tutti sentirono lo strazio non tanto per la natura del loro male, ma per la sanzione sociale che comportava. Uno di loro si diede la morte seppellendosi vivo, per paura di trasmettere la lebbra.


Gli Ossari Ottocenteschi

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con album appropriati....


OSSARIO DI MONTEBELLO

Dopo 23 anni dalla battaglia di Montebello si edificò il monumento ossario, opera di Egidio Pozzi, in stile "tempio greco" in mezzo a quattro colonne e fra le cancellate di ferro e cripta ellittica, alto 13,60 metri; la statua sulla sommità rappresenta l'Italia. Il monumento ossario è a nord del cimitero sul declivio dove si combatté l'ultima fase della battaglia; il 20 maggio 1882, sull'area dell'antico cimitero di Montebello, fu inaugurato l'ossario con i resti dei soldati piemontesi, austriaci e francesi, caduti in battaglia il 20 maggio 1859.

OSSARIO DI PALESTRO

Sorge sopra un'altura, elevandosi al di sopra delle risaie vercellesi. L'ossario si erge su base quadrata, nella quale si aprono la porta della cripta e dodici finestre a trafori; la cupola è sormontata da un obelisco. La costruzione fu progettata da Giuseppe Sommaruga di Milano. Venne inaugurato il 28 maggio 1893. Nel giardino ha due viali, lungo i quali sono collocati quattro cannoni. L'ossario è rivestito di maioliche policrome e nell'interno vi è un'apertura quadrata posta nel centro della cappella, che porta ad un pozzo profondo sette metri, dove sono raccolte le ossa dei soldati morti nella battaglia del 30 e 31 maggio 1859. Lungo le pareti del monumento sono stati messi proiettili, armi e cimeli.

OSSARIO DI VINZAGLIO

L'ossario raccoglie le spoglie dei soldati caduti il 30 maggio 1859 e venne costruito sui ruderi dell'antica cappella di San Rocco; la facciata ricorda lo stile bizantino; il frontone regge la cuspide sormontata da una croce dorata. La cripta si apre sul pavimento. Fu inaugurato l'8 settembre 1895.

Ossario di Montebello





OSSARIO DI MAGENTA

Eretto nel 1859, con una piramide progettata da Giovanni Broggi.
In un pozzo collocato nel mezzo dell'Ossario e profondo quattro metri sono raccolte le ossa dei combattenti degli eserciti caduti.
Sulle pareti laterali interne sono iscritti i nomi dei soldati francesi morti a Magenta.
L'Ossario venne inaugurato il 4 giugno 1872


OSSARI DI SOLFERINO E SAN MARTINO

Ricordano la battaglia combattuta il 24 giugno 1859 tra i Franco-Piemontesi e gli Imperiali, fra i colli di Castiglione, Cedole, Guidizzolo, Cavriana, Solferino, Pozzolengo, Madonna della Scoperta, Rivoltella, San Martino. Circa 11.000 soldati perdettero la vita sul campo.
Gli Ossari vennero inaugurati il 24 giugno 1870. Vicino alla famosa torre di Solferino sopra ad una piccola altura isolata, esisteva un tempio dedicato a S.Pietro, che venne trasformato in Ossario per i resti dei soldati francesi e austriaci: le ossa vennero collocate in un sotterraneo; i teschi che si recuperarono interi rivestono le pareti dell'abside fino alla volta.
Nelle due cappelle laterali sono deposte altre ossa dentro scaffali.
La chiesa di S.Martino sorge sulla vetta di un colle, con alti cipressi.
Questa chiesa, inizialmente, serviva come ospedale per i feriti in battaglia, successivamente venne convertita in Ossario.