La Natura e la Morte nella Poesia di Giovanni Pascoli

GIOVANNI PASCOLI, IL POETA DELLE PICCOLE COSE

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Gli anni del 1880, in Italia, videro scontri tra anarchici e socialisti, che scendevano in piazza per protestare contro le dure condizioni di vita dei lavoratori; e ne seguivano tafferugli anche gravi.
Durante una di queste manifestazioni fu arrestato a Bologna un giovane studente.
Portato in carcere, fu accusato di aver partecipato ad una "manifestazione sediziosa" e di aver resistito alla forza pubblica.
Ma al processo, il giovane venne assolto.
I giudici tennero conto di ciò che aveva dichiarato un testimone d'eccezione: Giosuè Carducci, di cui l'imputato era l'allievo prediletto.
Sì, Giovanni Pascoli aveva partecipato al corteo, ma non poteva essersi comportato da violento.

La tragedia che aveva sconvolto la sua esistenza era piombata su di lui una sera d'agosto del 1867 quando ancora bambino e viveva con i fratelli in una grande fattoria di S.Mauro, in Romagna. 
Quella sera, il padre venne ucciso da qualcuno che restò impunito, e che aveva colpito l'uomo con una fucilata.
Dopo un anno, era morta la madre, stroncata dal dolore. 
Poi una sorella, poi altri fratelli... La famiglia di Pascoli era distrutta.
Pascoli non si era mai più ripreso. Pur continuando gli studi, pur avendo una brillante intelligenza, si era chiuso nel suo dolore, avendo sempre davanti agli occhi le immagini della felicità della sua infanzia, poi brutalmente troncata.
Il ricordo della sua famiglia, di suo padre, di sua madre, si fondeva, nella mente di Giovanni, con la sua casa, la sua terra, le piccole cose che avevano costituito il mondo della sua infanzia.
Anche le cose più comuni, che avrebbe dimenticato se non fosse successo quel fatto, prendevano una dimensione inconsueta: quel giorno di sole, quel fiore colto nel campo, quel canto di uccelli, prima che la mamma chiamasse per cena...


Fu così che nacque "il poeta delle piccole cose" , che tributava le cose piccole e più umili, che a prima vista appaiono insignificanti ma che l'amore e il dolore fanno riscoprire.

è molto significativo il titolo che il Pascoli darà alla sua prima raccolta di poesie: "Myricae" (1891), parola latina che si usa per riferirsi ai piccoli arbusti comuni sulle spiagge, le tamerici;
la parola è ripresa da un verso di Virgilio (Egloga IV, 2: "Arbusta iuvant, humilesque myricae") posto come epigrafe all'inizio della Raccolta. 
Il Poeta utilizza il termine "Myricae" per evidenziare un lato umile della sua vena poetica, ispirata alle "piccole cose" e non ai grandi temi pomposi e vanesi.
("Le myricae sono basse, le più terra terra, povere pianticelle. 
Ma Virgilio le amava e ne faceva l'immagine dei suoi primi canti"). 

Gli ideali del socialismo, conosciuti dal Pascoli nella sua prima giovinezza, gli fecero balenare l'idea di una fratellanza universale di tutti gli oppressi e sperò di sciogliere il gelo della sua solitudine nel calore della lotta comune; ma il disgusto per le intemperanze dei facinorosi e l'avvilimento per l'esperienza del carcere, lo riportarono all'isolamento: si sentiva segnato dal dolore, vittima di una persecuzione del destino alla quale era convinto fosse inutile opporsi.
Ma lentamente, il ragazzo diventava uomo, anche se in lui sarebbe sempre rimasto "il fanciullino" ed era la Vita stessa che lo spingeva ad andare avanti.
Bisognava andare avanti, lavorare per gli altri familiari, fare qualcosa.
Si laureò in lettere nel 1882, iniziando la carriera d'insegnante senza ambizioni di carriera, mirando solo allo stipendio per mantenere i suoi cari.
Tuttavia, percorse i gradini della professione, e nel 1906 divenne professore ordinario di letteratura italiana all'Università, succedendo al suo maestro Carducci.

Giovanni Pascoli, quest'uomo timide e mite, grande poeta, era anche uno studioso di letterature classiche e la sua conoscenza del latino e del greco erano eccezionale e per questo vinse dei primi premi alle gare annuali di cultori di lingua latina, rivelandosi il più grande poeta latino dei tempi moderni.

Visse gli ulti anni tra Bologna e Castelvecchio di Barga, dove si era comprato una villetta e una vigna.
Non ebbe mai una sua famiglia; fedele compagna della sua vita fu la sorella Maria.
Morì il 6 aprile 1912.

Cronologia delle opere:

1891: Myricae, ispirato ai ricordi familiari e campestri
1897: Primi Poemetti, dedicato all'amore per la natura e i campi
1903: I Canti di Castelvecchio, nel quale Pascoli vede la sua tragedia non più come un fatto personale ma come parte della grande tragedia umana.
1906: Odi e Inni, dove celebra le glorie italiche
1909: I Nuovi Poemetti

Ricordiamo:

Le Canzoni di Re Enzo, ispirate alle leggende del Medioevo
Poemi del Risorgimento
Poemi Omerici
Poemi Conviviali, ispirati alla Grecia Antica.
Carmina, composizioni in latino
Scisse anche alcuni volumi di critica letteraria.




 
ALTRO APPROFONDIMENTO SU PASCOLI

Frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane, ricordi, rimpianti, sospiri, speranze... questo è il mondo poetico del Pascoli di "Myricae", termine latino per "Tamerici".

Giovanni Pascoli è un poeta facile da leggere e difficile da giudicare. Salvo eccezioni piuttosto rare, infatti, le sue poesie non hanno bisogno di commenti particolari, si capisce subito cosa vogliono dire, entrano dritte nel cuore, toccano tutte le corde del sentimento, commuovono.
Le difficoltà cominciano quando si tratta di raccogliere le somme delle nostre impressioni immediate per definire il valore assoluto di ciò che abbiamo letto.
La bravura del poeta è fuori discussione: Pascoli era un mago della parola e della sintassi: vocaboli arcaici, locuzioni moderne, espressioni popolaresche.

Leggiamo insieme le prime strofe de "La Tessitrice", che alcuni critici ritengono tra le più belle liriche scritte da Pascoli.

Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'é stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?

In questa poesia, che piacque perfino a Benedetto Croce, il critico più severo che abbia avuto Pascoli, tutto è perfetto: il ritmo dolce amaro della vecchia cantilena popolare, la semplicità degli aggettivi, il progressivo delinearsi della tessitrice, la tenerezza del poeta per lei, la disperata tristezza di un passato ormai irrecuperabile e rimpianto.

E piange, e piange. Mio dolce amore,
non t'hanno detto? Non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.

Pascoli è riuscito a creare un quadro altamente suggestivo in cui non c'è un solo particolare sbagliato, ma manca lo scatto lirico deciso, imperioso, indiscutibile. La tessitrice di Pascoli non raggiunge l'altezza sublime della Silvia di Leopardi (Nota di Lunaria: che a me non è mai piaciuto, come poeta)
Rimane una cara figura legata alla biografia dolente del poeta, non assurge a valore universale della giovinezza bruciata innanzi tempo, come accade alla Silvia leopardiana.

Giovanni Pascoli si accostò alla poesia facendosi "fanciullino", cantando le piccole cose della vita quotidiana, le umili gioie degli umili, la dolcezza del paesaggio campestre; le sue liriche erano quasi sempre brevi.
Egli scrisse: "è dentro di noi un fanciullino che... scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. [...]" 
Il fanciullino di Pascoli non era frutto di un'ingenua visione delle cose, ma il risultato ultimo di una sapiente e letteratissima costruzione poetica: le sue poesie erano l'Universale visto e rappresentato al microscopio, il mistero del mondo colto in una immagine qualunque della vita quotidiana.
Si consideri il componimento "Galline"

Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
ché d'arguti galletti ha piena l'aia;
e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.
Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.

Quanta poesia il "fanciullino" ha saputo trarre dalle piccole cose che sono cadute sotto lo sguardo dei suoi occhi incantati! 

L'idillio campestre che ci appare come il punto massimo della poesia pascoliana non ci deve trarre in inganno: tutta l'opera di Pascoli è percorsa da un brivido d'angoscia, da una sofferenza che nessuna gioia può lenire perché è la sofferenza stessa di essere al mondo.
L'assassinio impunito del padre, la morte della madre, la dispersione della famiglia, posero drammaticamente e precocemente il problema del male alla coscienza del poeta. Ma Pascoli non seppe o non volle risolvere tale problema nel senso di un assoluto pessimismo (Leopardi) o nel senso cattolico di un completo abbandono nel mistero di Dio (Manzoni)

Per tutta la vita Pascoli oppose al male null'altro che la propria sofferenza individuale, la propria infinita pena di essere al mondo.
Lanciò qualche generico messaggio di solidarietà tra gli uomini, ma non canta mai la morte in quanto tale, ma i suoi morti sono le ombre care dei suoi familiari a cui anela congiungersi.
Ecco, nei "Canti di Castelvecchio" la bellissima poesia che si intitola "La voce", che rievoca la figura protettrice della mamma morta.

C'è una voce nella mia vita,
che avverto nel pianto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:
voce d'una accorsa anelante,
che al povero petto s'afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:
tante tante cose che vuole
ch'io sappia, ricordi, sì... sì...
ma di tante tante parole
non sento che un soffio... Zvanì...


Zvanì, Giovannino, è Pascoli come lo chiamava la mamma.

Successivamente Pascoli compose delle poesie molto distanti da quelle "del Fanciullino": uscirono così i "Poemi conviviali", "Canzoni di re Enzio", "Odi e Inni", ma il vero Pascoli resta quello del Fanciullino, che misteriosamente riusciva ad interrogare le stelle chinandosi stupito sulla corolla di un fiore.






APPROFONDIMENTO: CARDUCCI E PASCOLI A CONFRONTO

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Giosue Carducci (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/12/giosue-carducci.html) e Giovanni Pascoli affrontano rispettivamente in "San Martino" e in "Novembre" lo stesso tema, ma in modi del tutto opposti. Entrambi i poeti descrivono quel periodo dell'anno collegato alla ricorrenza di San Martino che evoca immagini di letizia sia perché la spillatura del vino nuovo che solitamente si compie in tale data è un momento gioioso della vita del contadino, sia perché in quei giorni si verifica la cosiddetta "Estate di San Martino", un improvviso ritorno del bel tempo nel cuore della stagione autunnale.
Un confronto tra le liriche ci consente di misurare tutta la distanza che separa i due poeti, i quali, pur essendo contemporanei, adottano diversi modi di poetare. 

Carducci, che è ancorato alle forme ottocentesche, delinea un quadretto realistico legato al momento della spillatura del vino nuovo; Pascoli, che è già proiettato verso il Novecento, vede nell'Estate di San Martino il simbolo di qualcosa di più misterioso e profondo.

Il paesaggio carducciano viene collocato in uno spazio concreto, dai confini chiaramente delineati; gli elementi che ne fanno parte sono presentati secondo un ordine prospettico, come in un dipinto, che si proponga di riprodurre la realtà con la massima verosimiglianza: sullo sfondo il mare e i colli, in primo piano le vie del borgo e l'interno di una casa o di un'osteria, fino alla messa a fuoco di un singolo personaggio: il cacciatore che dalla porta guarda verso il cielo. Lo spazio pascoliano, al contrario, è astratto, indefinito; gli elementi che ne fanno parte sono collocati tutti sullo stesso piano senza che fra di essi si stabilisca alcuna gradazione prospettica.

La lirica carducciana è fondata sulla contrapposizione di due poli, uno positivo e uno negativo, che coincidono con due diversi aspetti della realtà. Il paesaggio naturale appare minaccioso e malinconico, gli interni, contrassegnati dalla presenza dell'uomo, comunicano sensazioni di vitalità e di sana allegria. La poesia pascoliana ci presenta invece una realtà assai più ambigua e inquietante: anch'essa è fondata su una contrapposizione o meglio su una serie di contrapposizioni (luce/buio, vita/morte, presenza/assenza, apparenza/realtà); i poli contrastanti però non corrispondono a due diversi aspetti della realtà, ma coesistono nella medesima immagine. Quella stessa natura che sembra così calda e luminosa, piena di vita, è in effetti percorsa da segnali di morte.

In "San Martino" ogni elemento del paesaggio ha valore in sé e per sé, non rinvia ad altri significati; in "Novembre", invece, ogni immagine è ambigua, allusiva, polivalente. 
Per esempio, l'aggettivo "nere" vale come nota di colore, ma al tempo stesso suscita sensazioni lugubri di morte, allo stesso modo di "vuoto", "cavo" ecc.
Carducci quando vuole potenziare il significato del suo messaggio ricorre ancora alla similitudine, come nei versi finali di "San Martino". 
Pascoli si serve di accostamenti più sottili e allusivi, come la sinestesia, il chiasmo, l'ossimoro, la contrapposizione a distanza di termini (gèmmea/fredda).

In conclusione, dai versi di Carducci emerge una visione univoca, ordinata e tutto sommato rassicurante della realtà che appare ancora fondata su valori saldi come il lavoro e l'autenticità della vita dei campi, grazie ai quali l'uomo può fronteggiare le tempeste della vita. Pascoli, al contrario, ci presenta un mondo privo di sicuri punti di riferimento, contraddittorio, inquietante e funereo.


APPROFONDIMENTO: LA NATURA E LA MORTE NELLA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI

Giovanni Pascoli (1855-1912) è il poeta che ha segnato il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Nasce nel 1855, a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli.



Giovanni Pascoli (1855-1912) è il poeta che ha segnato il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Nasce nel 1855, a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli. 

 

Quando il padre Ruggero viene ucciso, la disgrazia imprime un segno incancellabile nell'animo del poeta, che ne sarà condizionato per tutta la vita. Spesso nelle sue poesie torna il tema della morte del padre e del "nido" distrutto dalla violenza degli uomini. 
Anche altri lutti colpiscono la famiglia Pascoli: muore una sorella, la madre e due fratelli.
Giovanni, tra mille difficoltà, si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna. Segue con interesse le lezioni di Carducci e si avvicina agli interessi del Socialismo. 
Nel 1891 pubblica la sua prima raccolta di poesie, "Myricae", a cui seguono i "Poemetti", "Canti di Castelvecchio", "Poemi Conviviali".
"Myricae" è la prima e la più amata raccolta pascoliana. Il titolo deriva da un verso della quarta Ecloga di Virgilio: "iuvant arbusta humilesque myricae", "piacciono gli alberi e le umili tamerici". 
Con questo titolo Pascoli vuole alludere al tono volutamente basso della sua poesia che paragona alle tamerici, le umili pianticelle che si elevano poco da terra; ma la tematica della raccolta può intendersi anche come "un diario minuto e liberissimo di una giornata trascorsa in campagna a contatto con gli eventi agresti, le voci dei campi, il trascolare delle ore". 
Il poeta canta le piccole cose, il mondo semplice della natura, cui si intreccia il tema delle vicende familiari, che il poeta rievoca con tristezza e sgomento. Nei lutti che hanno colpito la famiglia vede il segno di una società feroce e disumana alla quale contrappone la Natura, madre dolcissima e confortatrice.

Nota di Lunaria: cito anche questa autrice, Edith Holden, il cui splendido diario è stato pubblicato qualche anno fa. L'autrice stessa teneva nota e disegnava tutto ciò che vedeva nei boschi. Le illustrazioni sono splendide.

Quello della Natura è sicuramente uno dei temi dominanti della produzione di Giovanni Pascoli, le cui liriche sono popolate di fiori, uccelli, alberi di tutti i tipi, cui spesso il poeta indica con precisione anche il nome specifico. Egli accusa di genericità la poesia italiana, nella quale la campagna è stata sempre descritta in modo convenzionale, per cui gli uccelli sono solo rondini e usignoli, i fiori rose e viole, gli alberi ulivi e cipressi.

Fra tutti gli elementi della natura, Pascoli cita con particolare frequenza uccelli e fiori del campo. Ai primi si collega l'immagine del "nido famigliare" e simboleggiano l'evasione dalla realtà dominata dal male verso una condizione di felicità che sarebbe duratura se l'uomo non intervenisse con violenza a distruggerla, spezzando il volo degli uccelli. Ma agli uccelli Pascoli attribuisce anche una funzione oracolare che riprende tanto dalle magiche credenze del mondo contadino quanto dalla cultura classica. 
Nelle tradizioni contadine è affidata agli uccelli gran parte delle previsioni sulla vita e sulla morte: il grido degli uccelli notturni viene considerato segno di malaugurio (*), si contano gli anni di vita sul canto del cuculo e così via. Nel mondo antico esistevano dei sacerdoti, detti àuguri, che avevano il compito di trarre profezie dal volo degli uccelli. Per Pascoli gli uccelli sono intermediari fra l'uomo e il mistero che lo circonda: il loro verso, che il poeta riproduce per mezzo delle onomatopee, è la voce di una realtà segreta e ignota che non può essere penetrata con gli strumenti della ragione.
Anche i fiori hanno una valenza simbolica: in Pascoli sono spesso legati al tema della morte, o, per la forma circolare della corolla, diventano simbolo di una vita chiusa, senza rapporti con il mondo esterno dal quale possono giungere solo violenza e morte.
La Natura, se per un verso appare come una presenza confortatrice di fronte al male della realtà e della storia, per l'altro rimanda immagini angoscianti di morte e di caos. Una tale visione del mondo può essere solo in parte ricondotta ai drammi familiari del poeta; in realtà possiamo cogliere in essa il riflesso del disagio dell'intellettuale decadente che si sente emarginato dalla società.

In "Novembre", per esempio, il poeta più che celebrare la breve rinascita della bella stagione pone l'accento sull'illusività delle apparenze, sulla natura ingannevole che cela dietro immagini illusorie di vita la realtà della morte.

Gèmmea l'aria, (1) il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...(2)

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno, (3)
e vuoto il cielo, (4) e cavo al piè sonante
sembra il terreno. (5)

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. è l'estate,
fredda, dei morti. (6)


(1) Limpida come una gemma
(2) Hai l'impressione di essere in primavera e allora ti guardi intorno a ricercare gli albicocchi in fiore e ti sembra di avvertire il profumo del biancospino
(3) Tracciano un disegno nero sullo sfondo del cielo limpido
(4) Senza voli di uccelli
(5) Il terreno risuona duro e asciutto sotto i piedi, come se fosse vuoto
(6) è l'estate di San Martino, che cade nei primi giorni di novembre poco dopo la ricorrenza dei morti.


In "Lavandare" Pascoli delinea un quadro autunnale: lo spunto del componimento è forse scaturito da una passeggiata in campagna durante la quale il poeta ha sentito un canto di lavandaie al lavoro: un canto triste, che allude alla solitudine. La malinconica condizione della donna abbandonata sembra trovare corrispondenza nello spoglio paesaggio autunnale e soprattutto nell'immagine dell'aratro dimenticato in mezzo al campo:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.


In "Il lampo" con pochi rapidi tocchi il poeta delinea un paesaggio improvvisamente illuminato dalla luce livida di un lampo.

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Il poeta ci offre così una visione stravolta e allucinata della natura, simbolo del caos del mondo che sfugge a ogni intervento ordinatore. Pare che con questi versi egli abbia voluto riferirsi alla morte del padre.
Il verso iniziale, isolato dallo spazio bianco, e introdotto dalla congiunzione "e" che sembra legarlo a qualcosa di non detto o ad una precedente meditazione del poeta, ha la solennità di una sentenza biblica che enuncia una tragica verità. 
La luce improvvisa del lampo ha una forza rivelatrice: mette a nudo la vera essenza dell'universo. Il mondo appare tragicamente lacerato e deforme. Se all'inizio cielo e terra sono ancora uniti, a partire dal secondo verso li vediamo scissi da una frattura insanabile. Entrambi sono tormentati da una sofferenza disperata. La terra è descritta con espressioni che fanno pensare all'agonia di un essere vivente: "ansante, livida, in sussulto"; il cielo è ridotto a puro caos. I tre aggettivi "ingombro, tragico, disfatto" comunicano l'idea di catastrofe che ha fatto ripiombare il mondo nel caos originario.

Allo sconvolgimento degli elementi naturali si contrappone la casa, simbolo dell'opera dell'uomo, del suo tentativo di imprimere nella natura un segno della sua presenza. Ma essa non è un rifugio sicuro e protettivo, appare fragile e precaria nel tacito tumulto, nel rimescolamento dell'universo che è tanto più terribile perché avviene in un silenzio allucinato, il silenzio del lampo non ancora seguito dal tuono. Il bianco della casa, che si contrappone al nero della notte, è un colore altrettanto lugubre, segno della morte, e allude alla fragilità dell'uomo. I due verbi "apparì sparì" che si succedono senza essere legati da una congiunzione, alludono alla precarietà dell'uomo, la cui permanenza sulla terra è brevissima e può essere stroncata in un attimo. 

Nella lirica successiva "Il tuono", composta a sei anni di distanza, il poeta riprende il tema della Natura sconvolta ma contrappone però la figura rassicurante della madre e della culla:

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.

(*) Nota di Lunaria: citazione che troviamo anche in Parini e in Foscolo. http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/08/la-notte-preromantica-in-giuseppe.html

Di Pascoli riporto anche queste altre poesie, che sono le mie preferite. Vedi anche questo post:
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2013/05/dietro-spighe-di-tasso-barbasso-tra-un.html

"X Agosto"

Il Poeta ricorda la morte del padre, avvenuta il 10 Agosto. In quella notte le stelle cadenti sfavillano nel cielo.

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle (1) per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto (2):
l'uccisero: cadde tra spini:
ella eveva nel becco un insetto:
la cena de'suoi rondinini. (3)

Ora è là come in croce, (4) che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, (5) che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo (6) tornava al suo nido (7):
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...

Ora là, nella casa romita, (8)
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano. (9)

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male! (10)

Note:

1) Tante stelle; a san Lorenzo, il 10 Agosto, è frequente il fenomeno delle stelle cadenti.
2) La rondine, il nido sono elementi tipici di Pascoli. Qui la rondine è in analogia col padre.
3) I rondinini diventano metafora dei figli del padre di Pascoli, Ruggero Pascoli.
4) La rondine è come crocifissa, con le ali ferite dalle spine.
5) Nell'ombra della sera o anche della morte. "Pigola sempre più piano" significa che i rondinini stanno diventando sempre più deboli.
6) è il padre, Ruggero Pascoli.
7) è casa Pascoli.
8) Solitaria.
9) Come la rondine mostrava il verme al "cielo lontano", cioè insensibile, anche Ruggero portava le due bambole in dono per le sue figlie.
10) La terra è un piccolo frammento dominato dal male.

"Il giorno dei morti"

Il 2 Novembre, nel giorno dedicato ai defunti, il Poeta ripensa ai suoi morti e li rivede nel cimitero, fra le intemperie, stretti fra loro a lamentare l'abbandono in cui sono lasciati.
Questo pensiero gli suscita il senso di un'antica felicità perduta e l'idea della casa domestica come "nido" caldo e consolante; il cimitero, anzi, diventa una nuova "casa" dove i morti si congiungono ai vivi per ricostruire l'unità famigliare.

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!) ,
vedo nel cuore, vedo un camposanto (1)
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido (2) si scaglia (3)
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta, (4)
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l'inonda e muove la tempesta; (5)

O camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo (6) tutto sempiterni (7)

e crisantemi. A ogni croce roggia (8)
pende come abbacciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa (9)
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto, di memorie, posa.

Non i miei morti. (10) Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano (11) con brontolìo roco),

piangono. La pupilla umida e pia (12)
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un'altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido (13) ch'esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!...
cupo rompe (14) un singulto lor dal petto.

Levino bianche mani a bianchi volti,
non altri, (15) udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de' figli, ancor non nato.
Nessuno! (16) I morti miei gemono: nulla!

- O miei fratelli! - dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita.

- O miei fratelli, che bevete ancora
la luce, (17) a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati dalla dolce aurora;

O miei fratelli! Nella notte oscura,
quando il silenzio v'opprimeva, e vana (18)
l'ombra formicolava di paura; (19)

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! Vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre (20)
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!...
Voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella (21) :
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch'io l'oda il suono della vostra voce
ora che più romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno! - Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l'acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre (22) il camposanto.

- O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell'acqua - O figli che non sento
più da tanti anni! Un altro cimitero

forse v'accolse e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall'asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! Vi vedessi io mai!
Io vorrei dirvi che in quel sol istante (23)
per un'intera eternità v'amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! Le parole mute ed infinite
che dissi! Con qual mai strappo si franse
la vita viva delle nostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, né il tetto,
né chi li aiuti, né chi li consigli.

Un padre, O Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m'ha tolta.

Perdona all'uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, (24) buon Dio...
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dàgli oro e nome (25) ; dàgli anche l'oblio; (26)
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine; (27)
vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva (28) a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano.

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

- No, babbo, vive, vivono - (29) Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, (30) eppur nota ad ascoltarla,

O mio Luigi, o anima compagna!
Come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all'acqua che ti bagna!

Come mutato! Sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via. (31)

- Vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

è la sorella (32) che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio (33) di Sogliano.

Chiama. Oh! Poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi: fuori del nero
chiostro, de' sotterranei profondi! (34)

Un'altra voce tu, fratello, (35) ascolta:
dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero; (36)
in cui, babbo, moristi un'altra volta. (37)

Parlano i morti. Non è spento il cuore
né chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore. (38)

E or per quanto stridula di vento (39)
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

O mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che ti rivedessi! (40)

Avessi tu provato di quell'ora
ultima il freddo, e or quest'abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora. -

- Ma se vivete, perchè, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori? -

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
- Quando sola restò la nidiata,
Iddio lo sa, come vi crebbi (41) insieme:

se con pia legge l'umili vivande
tra voi divisi, e destinai de' pani
il più piccolo a me ch'ero il più grande;

se ribevvi (42) le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest'acque, io suscitava
la buona fiamma d'eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso (43) ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo, io ti dicea... ma era
grossa la lingua (44) e forse non udivi.

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d'occhi lasciati dalla morte attenti, (45)
pianto di cuori cui la sepoltura
lasciò, ma solo di dolor, viventi.

L'odo (46) : ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: altro è mio figlio! Altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! Che notte di tempesta
piena d'un tremulo ululo ferino!
Non s'ode per le vie suono di pesta. (47)

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l'uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall'assidua romba. (48)
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invedicato. Siede in una tomba
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l'ombra. Culla
due bimbi morti (49) sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sé nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice: - Forse non verranno. Ebbene,
pietà! le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po' di bene. (50)

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme. (51)

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidiando, (52) ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse, (53) e per chi resta in via

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta, (54)
per chi cammina, cammina, cammina,
e non ha pietra ove posar la testa. (55)

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, O figli morti, ai vivi!
O Madre! Il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.


Note:

1) Il camposanto è quello tra San Mauro e Savignano, dove furono sepolti i congiunti del Pascoli: la sorella Ida, morta nel 1862, il padre ucciso nel 1867, la sorella Margherita e la madre (1868), i due fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Un'altra sorella di 5 anni, Carolina, era morta ne 1863 a Sogliano sul Rubicone e fu sepolta in quel cimitero.

2) Fumido = tra la nebbia.

3) Si scaglia = è scosso con violenza, opponendosi al vento.

4) Il cimitero è "casa unica di mia gente e mia" perché "tutta una famiglia è lì accolta, ineffabilmente triste e io vivo con loro".

5) Nel cimitero i morti sembrano abbandonati a tutte le intemperie.

6) è il Giorno dei Morti, e il cimitero è colmo di fiori.

7) I sempiterni sono dei fiori "semprevivi", che mantengono il loro colore anche quando sono secchi.

8) Roggia = rossa di ruggine.

9) Il cimitero fiorito sembra una festa, per la presenza dei fiori, ma quei fiori testimoniano un ricordo doloroso. Inoltre, stillano gocce di pioggia che sembrano lacrime.

10) Nel Giorno dei Morti, i morti del Pascoli sono abbandonati.

11) Il Tramontano = il vento di tramontana.

12) "Pupilla" sta per "Gli occhi di ciascuno dei famigliari morti". 

13) Un grido di disperazione, perché nessuno li ricorda.

14) Rompe = erompe.

15) "Se mai qualcuno dei viventi, ascoltando quel pianto, li ricordi".

16) Sono stati completamente dimenticati.

17) Che siete ancora in vita e potete vedere la luce del sole.
A cui = per vedere la quale.

18) Vana = vuota, ingannevole.

19) Il buio della notte suscitava una folla di immagini indeterminate e paurose.

20) Il sonno fa parte della vita e quindi è negato ai morti.

21) Dopo la morte del marito, la madre del Poeta era caduta in un grave stato di prostrazione e Margherita ne aveva fatto le veci presso i fratelli.
"Vergine sorella" è reminiscenza dantesca.

22) Corre = Percorre.

23) L'istante della morte.
24) L'assassino del padre di Pascoli ignora lo strazio di morire lasciando la famiglia nel dolore e nella miseria.

25) Nome = Fama.

26) Del rimorso.

27) L'istante prima che morisse in cui amò i figli "per un'intera eternità".

28) Spegnendosi la vita, tutto spariva ai suoi occhi.

29) Non tutti i figli sono morti, ma il "vive" può sottindere anche un'implicita accusa all'assassino, vivo e non perseguitato.

30) "Nuova" = "Mutata".

31) Implori l'elemosina all'angolo della via.
32) Carolina.

33) Il cimitero era situato sul pendio di una collina.

34) L'oscurità della tomba.

35) Luigi si rivolge a Giacomo.

36) Il nipote del Poeta, figlio del fratello Giacomo, morto a 12 anni, nel 1887.

37) Al bimbo era stato posto il nome del nonno e la sua morte fu sentita dal Poeta come una seconda morte del padre.

38) "Non hanno essi della morte le requie, non si spense d'essi con la vita il dolore" perchè cercano giustizia, in quanto, "Ti uccise tutti, nel mio padre, la malvagità degli uomini".

39) Anche se ci divide l'ombra della morte potrei udire la tua voce.

40) Quando la malattia di Luigi fu irrimediabile, "Giacomo dovette allontanare di casa Giovannino, altrimenti non era possibile staccarlo dal capezzale".
41) Dopo la morte del padre, la responsabilità della famiglia restò al fratello Giacomo.

42) Respinsi.

43) Arrossato dal vento sferzante.

44) Prima di entrare in agonia, Giacomo voleva parlare a Giovanni, ma non riusciva.

45) Consapevoli delle vicende umane.

46) Il pianto.

47) Suono di passi.

48) L'incessante tumulto della tempesta.
49) Carolina e Ida.

50) Pregano per i defunti.

51) Ida e Maria contribuirono al bilancio famigliare con lavori di ricamo e cucito.

52) Invidiano la pace della morte.

53) In camposanto.

54) I dolori della vita.

55) Non ha luogo dove riposare.



(da "Primi Poemetti")

Due giovani, la bionda e semplice Maria e l'ardente Rachele, rievocano i loro anni di collegio. E rammentano come nel giardino di quel collegio sorgesse una Digitale Purpurea: da qui la confessione di Rachele all'amica: aver ceduto alla tentazione, inebriandosi di quell'aroma.


I

Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,

l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. "E mai
non ci tornasti?" "Mai!" "Non le vedesti più?"
"Non più, cara" "Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai; (1)

quei piccoli anni così dolci al cuore..."
L'altra sorrise. "E dì: non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? (2) quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?"

"morte: sì, cara" "Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore (3) accanto.

Ché si diceva (4): il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor (5) che bagna
l'anima d'un oblio dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea! (6)" Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.(7)


II

Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...(8)

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate, (9)
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate (10)
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perchè mai?) piangete... (11)

Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perchè. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro! (12)

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono. (13)

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l'alito ignoto spande di sua vita. (14)


III

"Maria!" "Rachele!" Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciulezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa (15) dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio (16)
il lontanar d'un ultimo saluto!

"Maria!" "Rachele!" questa piange, (17) "Addio!"
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no (18): "Io"

mormora, "Sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. (19) Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento. (20)

Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenziosi. (21) M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea (22) la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia, Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido...) si muore!" (23) 


Note:

1) Che conosci anche tu.

2) Le piante di bosso, le cui foglie mandano un'amaro sentore.

3) La Digitale Purpurea è chiamato "triste fiore" perché è una pianta velenosa; le corolle dei suoi fiori sembrano delle dita mozzate, chiazzate di rosso.

4) Dicevamo noi collegiali, ripetendo la leggenda sul fiore.

5) Esalazione che irrora: come un liquido di un filtro magico.

6) Che sembra azzurra, in lontananza.

7) Prese dalla contemplazione del loro passato.

8) Delicatamente sfiorate.

9) Secondo un'usanza monacale, le grate del parlatorio, che dividono le collegiali dai visitatori.

10) Per il chiacchiericcio delle giovani fanciulle.

11) Il pianto rivela il turbamento delle fanciulle.

12) Nell'oscurità del tramonto, l'orto qua e là biancheggia per il candido grembiule delle collegiali.

13) Un libro edificante.

14) è la Digitale Purpurea.

15) Comprende.

16) Amaramente nostalgico.

17) Rachele, che gustò il funesto aroma della Digitale Purpurea. Piange, forse perché sa di aver perso l'innocenza, e di essere indegna di Maria.

18) Rivolge a Maria la parola, ma non gli occhi, mancandole il coraggio di guardarla.

19) Le cetonie sono degli insetti verdi, visibili nei rosai.

20) Rachele ha ceduto alla Digitale Purpurea dopo una notte di sogni languidi e frementi, che dileguandosi all'alba, le avevano lasciato per tutto il giorno, un vuoto torpore.

21) Lampi senza tuono.

22) Tratteneva quasi ammonendola di non procedere.

23) Forse allude alla morte dell'anima; forse all'estinguersi dell'innocenza, nel piacere del peccato.


Il tema della pianta maligna, della vegetazione mostruosa e velenosa, si trova per tutto l'800, ed è tipicamente decadente: la vegetazione corrotta, che magari poggia le sue radici su cadaveri umani, è emblema del compiacimento decadente per tutto ciò che è impuro e infetto. Il tema era già apparso in Shelley, "La sensitiva" (1820) : "Cominciarono a crescere le erbacce più immonde/le cui ruvide foglie erano maculate come il ventre/del serpe d'acqua o la schiena del rospo...", in Hawthorne (1804-1864), "La figlia di Rapaccini", novella nera che racconta la passione di una fanciulla per un orto di piante velenose; lo stesso Zola, in "Curée"(1872) descrive l'incesto tra una matrigna e il figliastro, consumato in una torrida serra, dove prolifera una vegetazione tropicale: "Ma ciò che, a tutte le svolte del viale, colpiva lo sguardo, era un grande Ibisco della Cina... i larghi fiori purpurei di tale specie di malva gigantesca, che rinascono senza posa, non vivono che qualche ora. Li si sarebbe detti delle bocche sensuali di donne che s'aprivano, le labbra rosse, molli e umide di qualche Messalina gigante, che dei baci straziavano, e che sempre rinascevano con il loro sorriso avido e sanguinante...". Zola riprende il tema della vegetazione mostruosa e venefica anche in  "La colpa dell'abate Mouret" (1875): "Dei cortei di papaveri se ne andavano in fila puzzando di morte, schiudendo i loro grevi fiore di uno splendore febbrile...dei tozzi datura [piante medicinali] allargavano i loro cartocci violacei, dove gli insetti, stanchi di vivere, venivano a bere il veleno del suicidio". Anche nell'Autore di "Controcorrente", Huysmans, compare il tema della vegetazione corrotta e repellente: "I giardinieri portarono ancora nuove varietà: esse ostentavano, stavolta, un'apparenza di pelle artificiale, solcata da false vene; e per lo più, come corrose dalla sifilide e dalla lebbra, tendevano delle carni livide, marmorizzate di roseola, damascate da erpeti; altre avevano il tono rosa vivo delle cicatrici che si chiudono o la tinta bruna delle croste che si formano; altre erano cosparse di bolle come determinate di cauteri, gonfiate da bruciature; altre ancora mostravano epidermidi pelose, scavate da ulcere e come lavorate a sbalzo da tumori."  
Anche Gustav Meyrink, uno degli scrittori più visionari!, ha scritto un racconto al riguardo, "Le piante orribili".  Pascoli in "Digitale Purpurea", come si è visto, descrive due fanciulle, una ancora incontaminata, e l'altra, già "posseduta" dal "Fior di Morte", dai fiori simili a "dita spruzzolate di sangue", che quasi induce l'altra ragazza a "coglierlo". A livello più subliminale, si può vedere "cogliere quel fiore purpureo" come la perdita dell'innocenza dopo un rapporto sessuale: sangue, lacerazione, dolore, contaminazione. D'Annunzio ritorna nuovamente su questo tema in "Favola sentimentale" un racconto del "Libro delle Vergini" (1884, ma il testo era già uscito nel 1882): "Dietro la villa, in un pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue sonnecchiava nell'ombra; erano grosse foglie carnose di un bruno tendente al violetto, cosparse di pelurie come una muffa; erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di bianco e macchiate come dorsi di rane... certi calici di un roseo di pelle umana si gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto cupo emettevano stami simili a piccole lingue giallicce. I petali avevano come il viscidume dei funghi... in torno, nell'autunno, le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume grigiastre." Comunque, l'esempio più famoso di vegetazione maligna resta il titolo di Baudelaire "I Fiori del Male": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/05/introduzione-ai-fiori-del-male-di.html

Il critico letterario Getto ha così commentato la Poesia di Pascoli: "La Digitale Purpurea è il fiore forse più corrotto fra quanti produsse, dal seme dei Fiori del Male, il nostro Decadentismo."

Personalmente, devo ammettere che la mia pianta preferita è Arum maculatum, noto anche come "Pan di Biscia". è una pianta che vidi da bambina; l'ho rivista per caso anche quest'anno, sul ciglio della strada, a confine con una zona incolta, e quasi non credevo di trovarmi davanti proprio questa pianta così strana e mortifera. https://erbemagiche.blogspot.com/2020/10/gigaroarum-maculatum-italicum.html

Per curiosità, riporto anche la poesia di Gabriele d'Annunzio, "L'inconsapevole" (1883)
 (da "Intermezzo di rime")

Come da la putredine le vite
nuove crescono in denso brulicame (1)
e strane piante balzano nutrite
da li umori corrotti d'un carname: (2)

sgorgano i grandi fior' quali ferite
fresche di sangue (3) con un giallo stame
e crisalidi (4) enormi seppellite
stanno tra le pelurie de'l fogliame (5):

così dentro il mio cuore una maligna
flora di versi gonfiasi (6); le foglie
vanno esalando un triste odore umano.(7)

Attratta da'l fulgor de la sanguigna
tinta la inconsapevole (8) ne coglie;
e il tossico (9) le morde acre la mano.


Note:

1) Come un fitto brulicame di vermi o insetti cresce da un corpo in putrefazione.

2) E piante mostruose crescono rapide, alimentate dai liquidi corrotti di un carname putrefatto. (nel testo del 1894: "truci piante" e "liquidi fermenti")

3) Spuntano grandi fiori rosso vivo, che sembrano ferite colanti ancora sangue fresco.

4) Lo stadio tra il bruco e la farfalla.

5) Le foglie di questa pianta descritta dal Poeta sono coperte di una fitta peluria. (nel testo del 1894: "ne le rughe del carneo fogliame")

6) I versi ispirati dalla corruzione della sua vita proliferano rigogliosi come quella vegetazione malata che si alimenta della putredine.

7) è l'odore della decomposizione.

8) "La inconsapevole" è la fanciulla innocente, che legge versi di poesia, attratta dalla loro bellezza, senza sapere che le saranno velenosi, o ancora, una fanciulla che si avvicina a una pianta velenosa, ma di grande bellezza.

9) Veleno.