Le Poesie di Vittoria Aganoor Pompilij
Nota di Lunaria: avevo già trattato questa brava poetessa, anni fa, avendola conosciuta nel 2004 . Ripubblico lo scritto, aggiornandolo con ulteriori approfondimenti e con una nuova grafica. E spero davvero che sia occasione per conoscere questa poetessa, così misconosciuta. Senza nulla togliere ai Grandi del '900 (i Pascoli, i d'Annunzio ecc.) sarebbe troppo chiedere alla scuola italiana di inserire una poesia anche di Vittoria Aganoor Pompilj, nelle ore scolastiche nelle quali si studia (e poco) la nostra poesia?
Tratto da
Di antica famiglia armena, nacque a Padova nel 1855. Nella città veneta conobbe Giacomo Zanella, che seguì i suoi primi passi di poetessa. Successivamente ebbe contatti con Enrico Nencioni a Napoli e un intenso rapporto amichevole, come attesta il suo epistolario, con Domenico Gnoli. Il suo primo libro, nonostante la precocità della sua vena poetica, apparve solo nel 1900, col titolo "Leggenda Eterna". L'anno seguente si sposò con un nobile perugino deputato, che ne aveva ammirato i versi. Nel 1908 uscì il suo secondo volume "Nuove liriche" e nel 1910 morì a Roma. Poco dopo il marito si tolse la vita. Le "Poesie complete" vennero pubblicate, postume, nel 1912. Poetessa assai colta, lettrice dell'opera di autori stranieri e italiani, si caratterizzò per un certo eclettismo e per una fisionomia costantemente in bilico tra classicismo e sensibilità decadente, nella quale prevalse, sulla confessione e sul diario sentimentale, un senso, a volte astratto, di incomunicabilità e ambiguità.
"Finalmente"
Dunque domani! Il bosco esulta al mite
sole. Ho da dirvi tante cose, tante
cose! Vi condurrò sotto le piante
alte, con me; solo con me! Venite!
Forse... - chi sa? - non vi potrò parlare
subito. Forse, finalmente sola
con voi, cercherò invano una parola.
Ebbene! Noi staremo ad ascoltare.
Staremo ad ascoltare i mormoranti
rami, nello spavento dell'ebbrezza;
senza uno sguardo, senza una carezza,
pallidi in volto come agonizzanti.
"Pioggia"
Piovea; per le finestre spalancate
a quella tregua d'ostinati ardori
salìano dal giardin fresche folate
d'erbe risorte e di risorti fiori.
S'acchetava il tumulto dei colori
sotto il vel delle gocciole implorate;
e intorno ai pioppi, ai frassini, agli allori
beveano ingorde le zolle assetate.
"Esser pianta, esser foglia, essere stelo
e nell'angoscia dell'ardor (pensavo)
così largo ristoro avere dal cielo!"
Sul davanzal protesa io gli arboscelli,
i fiori, l'erbe, guardavo, guardavo...
e mi battea la pioggia sui capelli.
"Pagina di diario"
Giorno limpido e triste! Ho dentro l'anima
un'insolita voce che si lagna
d'un male ignoto. Come una sonnambula
io guardo il cielo, guardo la campagna
e il decrepito sole e la decrepita
terra, e qui noto e fermo questa mia
ora di vita: aggiorna; i campi ridono,
ma d'un sorriso di melanconia.
La famiglia dell'erbe e delle piccole
piante, dal gelo mattutin ferita,
china, in atteggiamenti melanconici
par che alle zolle mormori: "è finita!"
e una foglia, sospesa a un'invisibile
fibra, tentenna senza vento, e dire
sembra al suo triste ramo, con monotono
ritmo: "io non voglio, io non voglio morire!"
Molto quest'autunnale ora somiglia
la stanca anima mia, dove se splende
qualche raggio di gioia, è il melanconico
addio d'un vecchio sole che s'arrende
vinto, all'inverno. Ma sospesa al tenue
filo d'un sogno, un'ultima, appassita
speranza, come quella foglia palpita
e protesta se anchio penso: "è finita."
"Magie Lunari" (*)
Fosche rupi, dal tempo incise e rotte
tragicamente, intorno ad una fanghiglia
d'acque morte, sogguardan nella notte
sorger la luminosa meraviglia
che ascenderà tra poco alta sui gioghi.
Guardan, sentendo attingerle il portento
che muterà le vette orride in roghi
sacri, e gli stagni in puri occhi d'argento.
"O Morti!..."
I passanti s'indugiano ai cancelli
spiando delle verdi ombre i segreti;
ma son l'ombre deserte, e i muschi e l'erbe
parassite che allignan sugli avelli (1)
veston la villa (2) immersa tra gli abeti.
Io, qui seduta sotto il porticato
dove sovente al vespero veniva
il padre mio, guardo, e mi credo un'ombra,
l'ombra di un lontanissimo passato
che solo ha forma di persona viva.
S'affaccia della luna il bianco viso
tra pianta e pianta, ma la vaga scorta
dei sogni più non è con lei; somiglia
un teschio adesso e con beffardo riso
sembra dirmi: "Non vedi? anchio son morta!"
Ecco l'Ave, la squilla ch'egli (3) udìa,
lo stesso suono... e tornano dell'ore
lontane le memorie: i giorni lieti,
le dolci sere; un'intima agonia
evocatrice che dilania il core.
O morti, dite una parola, dite
una parola!... Con l'orecchio io tendo
tutta l'anima mia... Passa una nube
e l'erba trema... oh certo voi m'udite,
mi parlate... e son io che non v'intendo.
(1) I sepolcri
(2) La villa paterna, dove l'autrice ritorno dopo la morte dei suoi cari
(3) Il padre, Edoardo Aganoor.
"Dialogo"
Noi parliamo, ma so io
quel che pensate
veramente? E voi sapete
quello ch'io penso?
Van le parole e un sottile
velo di riso
spesso ne maschera il senso.
Noi parliamo... Ma d'un'altra
voce voi di certo
udite il suono; d'un altro
accento io pure
credo ascoltare la strana
eco... Ad entrambi
parlano due sepolture.
Noi ridiamo anche, ridiamo
forte, e la gioia
brilla negli occhi al baleno
vivo d'un motto
fine. In che abisso del core
chi dunque intanto
scoppia in un pianto dirotto?
A lui ridiceva quell'ultimo
sguardo: "Perché non credi?
Perché mentirei? Tutta l'anima
in questi occhi non vedi?
Rimani! non far ch'io difendermi
debba alle stolte accuse!"
Così le pupille pregavano,
ma il labbro non si schiuse.
"Dopo la pioggia"
Le nubi ripiegano l'ale
al fresco alitar di Levante;
sottili tra l'erbe e le piante
oscillano ponti d'opale.
Laggiù non più livido e fosco
color di melmose maremme
ma fra le radure del bosco
il lago (1) sfavilla di gemme.
Risorgi, o mio spirito; imìta
il fior delle roride (2) aiuole
già prono dal nembo. La vita
è bella; v'è ancora del sole!
(1) Il Trasimeno
(2) Rugiadose
(*) Nota di Lunaria: in questa poesia è molto evidente il riferimento al Romanticismo Cimeteriale inglese alla Gray/Parnell, ma anche, al sonetto cinquecentesco di Luigi Tansillo.
Lo riporto qui
Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)
(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti