Vincenzo Monti: Aristodemo e altre poesie


Riporto qualche poesie di Vincenzo Monti... pur essendo un autore Neoclassico, a mio parere, in alcuni versi anticipa le atmosfere cupe e sanguinose di certo Romanticismo Nero...
Per leggere una poesia inedita di Vincenzo Monti: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2022/06/vincenzo-monti-una-poesia-inedita.html

Dall'Aristodemo

ATTO PRIMO, Scena I

Sala regia, nel cui fondo si vede una tomba

LISANDRO: Sì, Palamede: alla regal Messene
di pace apportator Sparta m'invia.
Sparta di guerre è stanca, e i nostri allori,
di tanto sangue cittadin bagnati,
son di peso alla fronte e di vergogna.
Ira fu vinta da pietà; prevalse
ragione e persuase esser follia
per un'avara gelosia di stato
troncarsi a brani e desolar la terra.
Poiché dunque a bramar pace il primiero
fu l'inimico, la prudente Sparta
volentier la concede, ed io la reco.
Né questo sol, ma libertade ancora
a qualunque de' nostri è qui tenuto
in servitude: e a te, diletto amico,
principalmente, che bramato e pianto,
compie il terz'anno, senza onor languisci
illustre, prigioniero in queste mura.

PALAMEDE: Ben ti riveggo con piacer, Lisandro;
e giocondo mi fia per la tua mano
racquistar de'congiunti, e un'altra volta
goder la luce delle patrie rive.
Sebben serbarmi non potea fortuna
più dolce schiavitù. Sai che Cesira,
Ella, di Dirce
mal soffrendo la morte, e stimolata
da dolor, da furor squarciossi il petto
spietatamente, ed ingombrò la stanza
cadavere deforme e sanguinoso,
raggiungendo così nel morto regno,
forsennata e contenta ombra, la figlia.
Ed ecco dell'afflitto Aristodemo
la seconda sventura; a cui successi
poscia la terza, e fu d'Argia la trista 
dolorosa vicenda. Era del padre
questa l'ultima speme, una vezzosa
pargoletta gentil che, mal sicure
col piè tenero ancor l'orme segnando,
toccava a pena il mezzo lustro. Ei dunque,
stretta al seno tenendola sovente,
sentia chetarsi in petto a poco a poco
la rimembranza de' sofferti affanni,
e sonar dolce al core un'altra volta
di padre il nome, e rallegrargli il ciglio.

PALAMEDE: Narrerò sincero,
qual mi fu detta, la pietosa istoria
di questo sventurato. Era Messene
da crudo morbo desolata; e Delfo
della stirpe d'Epito una donzella
avea richiesta in sacrificio a Pluto.
Poste furo le sorti, e di Licisco
nomar la figlia. Scellerato il padre
e in un pietoso con segreta fuga
la sottrasse alla morte; e un'altra vittima
il popolo chiedea. Comparve allora
Aristodemo, e la sua propria figlia,
la bellissima Dirce, al sacerdote
volontario offerì. Dirce fu dunque
dell'altra invece su l'altar svenata;
e col virgineo sangue l'infelice
sbramò la sete dell'ingordo Averno,
per salvezza de' suoi dando la vita.

LISANDRO: Io già questo sapea; chè grande intorno
fama ne corse, e della madre insieme
dicea caso nefando.

PALAMEDE: Ella, di Dirce
mal soffrendo la morte, e stimolata
da dolor, da furor, squarciossi il petto
spietatamente, ed ingombrò la stanza
cadavere deforme e sanguinoso,
raggiungendo così nel morto regno,
forsennata e contenta ombra, la figlia,
ed ecco dell'afflitto Aristodemo
la seconda sventura: a cui successe
poscia la terza, e fu d'Argia la trista
dolorosa vicenda. Era del padre 
questa l'ultima speme, una vezzosa
pargoletta gentil che, mal sicure
col piè tenero ancor l'orme segnando,
toccava a pena il mezzo lustro. Ei dunque,
stretta al seno tenendola sovente,
sentia chetarsi in petto a poco a poco
la rimembranza de' sofferti affanni,
e sonar dolce al core un'altra volta
di padre il nome, e rallegrargli il ciglio.
Ma fu breve il contento; e questo pure
gli fu tolto di bene avanzao estremo:
chè, l'esercito nostro allor repente
d'Anféa, avendo di feroce assedio
la discoscesa Itome, Aristodemo,
che ne temea la presa e la ruina,
dalle braccia diveltasi la figlia.
Al fido Euméo la consegnò che seco
occultamente la recasse in Argo,
molto pria dubitando e mille volte
raccomandando una sì cara vita.
Vano pensier! Là dove nell'Alféo
si confonde il Ladon, stuolo de' nostri,
della fuga avvertito o da fortuna
spinti colà, tagliar le scorte a pezzi,
né risparmiar persona: o nella strage
spenta rimase la real bambina.

LISANDRO: E di questa avventura, o Palamede,
altro ne sai?

PALAMEDE: Null'altro.

LISANDRO: Or sappi adunque
che duce di quell'armi era Lisandro,
ch'io fui d'Eumeo l'assalitor.

PALAMEDE: Che ascolto?
Tu l'uccisor d'Argia? Ma, se qui giunge a penetrarsi...

LISANDRO: Il tuo racconto segui: parleremo del resto a miglior tempo.

[...]

ARISTODEMO: Sì, Gonippo,
un orrendo pensiero; e quanto è truce
tu non lo sai. Lo sguardo tuo non passa
dentro il mio cor, nè mira la tempesta
che lo sconvolge tutto.
[...] Un maledetto nel furor del cielo,
e l'orror di natura e di me stesso.

[...]

ARISTODEMO: Così pur fosse!
Ma mi conosci tu? Sai tu qual sangue 
dalle mani mi gronda? Hai tu veduto 
spalancarsi i sepolcri, e dal profondo
mandar gli spettri a rovesciarmi il trono?
A cacciarmi le mani entro le chiome
e strappar la corona? Hai tu sentito
tonar dintorno una tremenda voce
che grida: "Muori, scellerato, muori!"
Sì morirò; son pronto: eccoti il petto,
eccoti il sangue mio; versalo tutto,
vendica la natura, e alfin mi salva
dall'orror di vederti, ombra crudele.
[...] Ma che pretendi 
col tuo pregar? Tu fremerai d'orrore
se il vel rinnovo del fatal segreto.

GONIPPO: E che puoi dirmi che all'orror non ceda
di vederti spirar su gli occhi miei?
[...] Ohimè! che ferro è quello?

ARISTODEMO: Ferro di morte. Guardalo. Vi scorgi
questo sangue rappreso?

GONIPPO: Oh dio! qual sangue? 
Chi lo versò?

ARISTODEMO: Mia figlia. E sai qual mano
glielo trasse dal sen?

GONIPPO: Taci, non dirlo:
che già t'intesi.

ARISTODEMO: [...] Così de' sacerdoti alla bipenne
la mia Dirce proffersi. Al mio disegno
s'oppose Telamon di Dirce amante.
Supplicò, minacciò [...] e palesommi non potersi Dirce
sagrificar; dal nume esser richiesto
d'una vergine il sangue, e Dirce il grembo
portar già carco di crescente prole,
ed esso averne di marito i diritti.
[...] Da profondo furor, venni alla figlia.
Abbandonata la trovai sul letto,
che pallida, scomposta ed abbattuta,
in languido letargo avea sopiti
gli occhi dal lungo lagrimar già stanchi.
[...] La rabbia
m'avea posta la benda, e mi bolliva
nelle vene il dispetto; onde, impugnato
l'esecrando coltello e spento in tutto
di natura il ribrezzo; alzai la punta,
e dritta al core gliel'immersi in petto.
Gli occhi aprì l'infelice, e mi conobbe;
e coprendosi il volto: "Oh padre mio,
oh padre mio", mi disse, e più non disse.

GONIPPO: Gelo d'orrore.

ARISTODEMO: L'orror tuo sospendi;
ché non è tempo ancor che tutto il senta
sull'anima scoppiar. Più non movea
né man né labbra la trafitta: ed io,
tutto asperso di sangue e senza mente,
ché stupido m'avea reso il delitto,
della stanza n'uscia, quando al pensiero
mi ricorse l'idea del suo peccato.
E quindi l'ira risorgendo, e spinto
da insensatezza, da furor, tornai
sul cadavere caldo e palpitante;
ed il fianco n'apersi, empio!, e col ferro
stolidamente a ricercar mi diedi
nelle fumanti viscere la colpa.
[...] 
Corsemi per l'ossa
il raccapriccio, e m'impietrò sul ciglio
le lagrime scorrenti: e così stetti,
finché improvvisa entrò la madre, e, visto
lo spettacolo atroce, s'arrestò
pallida, fredda, muta. Indi qual lampo
disperata spiccossi, e, stretto il ferro
ch'era poc'anzi di mia man caduto,
se lo fisse nel petto, e su la figlia
lasciò cadersi, e le spirò sul viso.
Ecco d'ambo la fine, ecco l'arcano
che mi sta da tre lustri in cor sepolto;
E tuttor vi starìa, se tu non eri.

GONIPPO: Fiera istoria narrasti, e il tuo racconto
tutto di gelo strinsemi le membra;
E nel pensarlo ancor l'alma rifugge.
Ma, dimmi: e come ad ogni sguardo occulto
restar potéro si tremende cose?

ARISTODEMO: Non ti prenda stupor. Temuto e grande
era il mio nome, e mi chiamava al trono
il voto universal. Facil fu dunque
oprar l'inganno: e tu ben sai che l'ombra
d'un trono è grande per coprir delitti.
I sacerdoti, che del ciel la voce
son costretti a tacer quando i potenti
fan la forza parlar, taciti e soli
col favor delle tenebre nel tempio
la morta Dirce trasportaro; e quindi
creder fero che Dirce in quella notte
segretamente su l'altar svenata
placato avesse col suo sangue i numi,
e che di questo fieramente afflitta
sè medesma uccidesse anche la madre.
Ma vegliano sui rei gli occhi del cielo;
e un dio v'è certo che dal lungo sonno
va nelle tombe a risvegliar le colpe
e degli empi sul cor ne manda il grido.
Rivelarlo dovrò? - Da qualche tempo
un orribile spettro...

GONIPPO: Eh! Lascia al volgo
degli spettri la tema, e dai sepolcri
non suscitar gli estinti. Or ti conforta;
chè a' tuoi tanti rimorsi esser non puote
che non perdoni il cielo il tuo delitto.
Fu grande, è vero; ma più grande è pure
degli Dei la pietà. Chètati, e loco
diasi a pensier più necessario. E giunto
di Sparta l'orator, te 'l dissi, e reca
le proposte di pace. Odilo; e pensa
che la patria ten prega, e questa pace
ti raccomanda e le sue mura e i pochi
laceri avanzi del suo guasto impero.

ARISTODEMO: Dunque alla patria s'obbedisca. Andiamo.


ATTO TERZO

[...]

GONIPPO: Dunque hai risoluto?

ARISTODEMO: Di morir. 
[...] Tu con comprasti col lor sangue un regno;
tu non sai come pesa una corona
quando costa un delitto. I sonni tuoi
tu li dormi sicuri; e non ti senti
destar da orrende voci, e non ti vedi
sempre dinanzi un furibondo spettro
che t'incalza e ti tocca...

GONIPPO: E parlar sempre
d'uno spettro t'udrò? [...]

ARISTODEMO: Non creder nulla. Io delirai: fu sogno:
non creder nulla. Oh cenere temuto!
Oh nero spettro! Oh figlia! In quella tomba
si che ti sento mormorar; t'accheta,
ti placherò; t'accheta… e tu Gonippo…
l'ascolti tu? Ben io l'ascolto, e tremo.

[...]


ARISTODEMO: Ebbene: sia questo adunque
l'ultimo orror che dal mio labbro intendi.
Come or vedi tu me, così vegg'io
l'ombra sovente della figlia uccisa;
ed, ahi, quanto tremenda! Allor che tutte
dormon le cose, ed io sol veglio e siedo
al chiaror fioco di notturno lume;
ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro
starmi d'incontro, ed occupar la porta
minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
in manto sepolcral, quel manto stesso
onde Dirce coperta era quel giorno
che passò nella tomba. I suoi capelli,
aggruppati nel sangue e nella polve,
a rovescio gli cadono sul volto,
e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido
volgo altrove la fronte; e me'l riveggo
seduto al fianco. Mi riguarda fiso,
ed immobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome
e piovendone sangue, apre la veste,
e squarciato m'addita, ahi vista!, il seno
di nera tabe ancor stillante e brutto.
Io lo rispingo; ed ei più fiero incalza,
e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allora sentir sotto la mano
tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tòcco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro
traverso i fianchi e mi trascina a' piedi
di quella tomba, e - qui t'aspetto - grida,
e ciò detto, sparisce.

GONIPPO: Inorridisco.
[…] La lontanza dileguar potranno 
de' tuoi spirti, il tumulto e la tristezza.
Questi luoghi abbandona, ove nudrito
da tanti oggetti è il tuo dolor. [...]

GONIPPO: Il tuo parlar mi raccapriccia e troppo
dicesti tu perch'io t'intenda e vegga
che da rimorsi hai l'anima trafitta.
[...] E che puoi dirmi che all'orror non ceda
di vederti spirar su gli occhi miei?

[...]

Dopo il fatto d'Argia tutto lasciossi
a sua tristezza in preda Aristodemo;
né mai diletto gli brillò sul core,
o, se brillovvi, fu di lampo in guisa
che fa un solco nell'ombra e si dilegua.
Ed or lo vedi errar mesto e pensoso
per solitari luoghi, e verso il cielo
dal profondo del cor geme e sospira;
or vassene dintorno furibondo
e pietoso ululando; e sempre a nome
la sua Dirce chiamando, a' piè si getta
della tomba che il cenere ne chiude;
singhiozzando l'abbraccia, e resta immoto,
immoto sì, che lo diresti un sasso,
se non che vivo lo palesa il pianto
che tacito gli scorre per le gote
ed inonda il sepolcro. Ecco, o Lisandro,
dell'infelice il doloroso stato.

ATTO QUINTO

Aristodemo: Ecco la tomba, ecco l'altar che deve
del mio sangue bagnarsi. Finalmente
questo ferro trovai. […] Moriamo.
[…] Esci adesso ch'è tempo, orrido spettro;
vieni a veder la tua vendetta, e drizza
tu stesso il colpo… egli m'intese, ei corre:
io ne sento il rumor: trema la tomba.
Eccolo... vieni pur: sangue chiedesti;
E questo è sangue.

[…]

GONIPPO: L'agonia di morte
lo conduce al delirio. Aristodemo…
Mio signor… mi conosci? Io son Gonippo:
questa è tua figlia.
[...] Qual morte! Egli spirò.



Da "Galeotto Manfredi"

Ubaldo: "Il mio pensiero manifesto il feci,
quando al fatal tributo io qui m'opposi
in questo luogo, e periglioso il dissi,
funesto il presagii. Fumanti i campi
son di strage, io gridai; vote di sangue
abbiamo le vene, e ancor dolenti e rosse
le cicatrici."


Del Monti trascrivo anche qualche lirica:


"La bellezza dell'Universo" (1781)

Stavasi ancora la terrestre mole
del caos sepolta nell'abisso informe
e sepolti con lei la luna e il sole;

...

Teco scorrea per l'infinito; e, quando
dalle cupe del nulla ombre ritrose
l'Onnipossente Creator comando

uscir fe' tutte le mondane cose,
e al guerriggiar degli elementi infesti
silenzio e calma inaspettata impose,

...

Penetrò nelle cupe acque profonde
quel guardo; e con bollor grato natura
intiepidille, e diventar feconde:

...

Tu del nero Aquilon (= il vento del nord) su le funeste
ale per l'aria alteramente vieni,
e passeggi sul dorso alle tempeste:

ivi spesso d'orror gli occhi sereni
ti copri, e mille intorno al capo accenso
rugghiano i tuoni e strisciano i baleni.


"Di tante faci alla silente e bruna notte trapunse la tua mano il lembo e un don le vesti della bianca luna, e di rose all'aurora empesti il grembo, che poi sovra i sopiti egri mortali piovon di perle rugiadose un nembo."


"Al principe don Sigismondo Chigi"

Me misero! Non veggo
che lugubri deserti; Altro non odo
che urlar torrenti e mugolar tempeste.
Dovunque il passo e la pupilla movo,
escono d'ogni parte ombre e paure,
e muta stammi e scolorita innanzi
qual deforme cadavere la terra.

Tutto è spento per me. Sol vive eterno
il mio dolor, né mi riman conforto
che alzar le luci al cielo e sciormi in pianto.
Ah che mai vagheggiarti io non dovea,
Fatal beltade! Senza te venuto
questo non fòra orribil cangiamento.

...

Ma in que' vergini labbri, in que' begli occhi
aver quest'occhi inebriati, e dolce
sentirmi ancor nell'anima rapita
scorrere il suono delle tue parole;

...

Allor requie non trovo. Io m'alzo, e corro
forsennato pe' campi, e di lamenti
le caverne riempio, che dintorno
risponder sento con pietade. Allor
per dirupi m'è dolce inerpicarmi,
e a traverso di folte irte boscaglie
aprir la via col petto, e del mio sangue
lasciarmi dietro rosseggianti i dumi ( = i cespugli)

"Il ritratto" (1820)

Pianse fra i traci orrori
le funeste faville
dei mal concessi amori
l'abbandonata Fille.

(Fille è il nome di una pastorella, tipicamente cantata dalla poesia d'Arcadia o Neoclassica)

"Sermone sulla mitologia" (1820)

Ai lemuri e alle streghe. In tenebrose
nebbie soffiate dal gelato Arturo (= una stella del Carro di Boote, una costellanzione settentrionale)
si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro
dell'italico cielo; in procellosi
venti e bufere le sue molli aurette;
i lieti allori dell'aonie rive
in funebri cipressi; in pianto il riso;
e il tetro solo, il solo tetro è bello.

...

Chi voce mi darà lena e pensieri
al subbietto gentil convenienti?
Forse l'austero genio inspiratore
delle nordiche nenie? Ohimè! Chè, nato
sotto povero sole e fra i ruggiti
de' turbini nudrito, ei sol di fosche
idee si pasce e le ridenti abborre,
e abitar gode ne' sepolcri e tutte
in lugubre color pinger le cose.

...

Di fè quindi più degna
cosa vi torna il comparir d'orrendo
spettro sul dorso di corsier morello
venuto a via portar nel pianto eterno
disperata d'amor cieca donzella,
che, abbracciar si credendo il suo diletto,
stringe uno scheltro spaventoso, armato
d'un oriuolo a polve e d'una ronca;
mentre a raggio di luna oscene larve
danzano a tondo, e orribilmente urlando
gridano pazienza, pazienza!



"Quando scendeva nelle valli inferne tra suoi trionfi glorioso e forte Cristo, e già carca di catene eterne, dietro alle spalle si trae la Morte, calar verso le cupe atre caverne, Satan lo vide per vie fosche e torte e timoroso alle spelonche interne con cento ferri assicurò le porte... Del cieco limbo allor le tenebrose si rallegran taciturne sedi e in Luce che foriera e fiammeggiar è d'alte cose, arde dovunque e fiameggiar le vedi. Deste de' padri l'ombre son acchiose, del Ciel promesso non per anco eredi serenando le fronti atre e rugose, levar la testa e si rizzaro in piedi. Fa lieto più d'ogni altro il volto afflitto, Adam, che ancor del serpe iniquo e tristo, piangea la frode del dolor trafitto."
("Discesa di Cristo all'Inferno e al Limbo" 1770)



"Il pellegrino apostolico" (1782)

Squallide e con lugubre mormorio
affollate le turbe in Vaticano
traeansi a dirgli il doloroso addio;

...

Là dove nell'orror sacro dell'urna
dorme di Pietro in sotteranea sede
l'apostolica polve taciturna.

...

Ed altri mostri che diverse avieno
di prudente virtù forme mentite
e le labbra stillanti di veleno.

...

Fin dentro il lago dell'eterne pene
giunse il suon della tuba; e un cupo udissi
doppio stridor di denti e catene.



"Il fanatismo" (1797)

Oh crudeli di Spagna e di Lisbona
orrendi roghi! e voi di strage rosse
contrade di Beziers e Carcassona!

...

Ululate, ruggite in ogni lido,
agitate le tombe, sollevate
per l'universo di vendetta il grido!

Spingi l'onde di strage affaticate,
Loira, al mare, se il mar non si ritira
nel vederle sì gonfie e insanguinate.



"La superstizione" (1797)

Quale da tetti la notturna strige
dolorosa sull'alme il canto invia,
quando pallide ombre escon di Stige,

tal di questi è la trista psalmodia,
che fa de' claustri risonar gli orrori
e il sonno dei gravati occhi disvia.

...

E brune per le strade orrende croci
procedean fra il pallore e il fragor mesto
di meste faci e di tartaree voci.



"Il pericolo" (1797)

E scomposte le chiome in su la testa
d'irti vepri (= sterpi) parean selva selvaggia,
ch'aspro il vento rabbuffa e la tempesta.

Striscia di sangue il collo gli viaggia,
che della scure accenna la percossa: 
il capo ne vacilla, e par che caggia.