Introduzione al racconto fantastico italiano ottocentesco e alla Scapigliatura


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Si era scorto qualche timido e troppo isolato segnale, come nella novella "Il castello di Bignasco" di Diodata Saluzzo (chiamata dal giovane Foscolo "la Saffo italiana"), pubblicata nel 1819: "novella importante, perché contiene già tutti i tratti del romanzo storico italiano", a cominciare dal gusto tipicamente romantico per le rovine, per finire alle macabre scene di supplizio (la morte violenta di una donna sotto la mannaia). Più avanti, ecco Giovan Battista Bazzoni, con i suoi romanzi di ispirazione scottiana - lo Scott delle fantasie scozzesi - intrisi di elementi gotici e neri. Ed ecco il siciliano Vincenzo Linares, che riesce a fornire qualche prova di una certa grazia nei suoi "Racconti popolari", coniugando narrazione storica ed elemento immaginativo, gusto gotico ed interesse per il passato antiquario  dell'isola, temi folklorici e istanze innovatrici. Non è certo molto, ma è possibile scorgere le tracce di Walpole e della Radcliffe, nonché i primi segni dell'influenza di E.A.Poe (tradotto in Italia nel 1858), la cui diffusione sarà fondamentale per l'affermazione del genere fantastico negli anni della Scapigliatura.

Certo, le pagine convulse, magniloquenti e truci di Francesco Domenico Guerrazzi ("La Battaglia di Benevento", "L'assedio di Firenze", "Beatrice Cenci", "Veronica Cybo") non hanno mai suscitato le inquietudini del "Castello di Otranto" o "I Misteri di Udolfo", così come le pagine di Baccio Emanuele Maineri (definito il "Poe italiano") oggi ci appaiono goffe e maldestre, lontanissime dalle pagine di Poe.
Sarà compito della Scapigliatura, "non tanto una scuola, quanto un comune moto degli animi, una similarità di destini, un corso di affetti e di idee vive, che finiscono per coagularsi in un rinnovato senso della poesia e della verità", secondo Gadda, dicevamo, sarà compito della Scapigliatura inaugurare sotto la tutela di Hoffmann e Poe, un laboratorio di letteratura d'avanguardia nel quale sarà finalmente possibile tentare le inedite alchimie della narrativa fantastica.
Le critiche del Manzoni e del Leopardi al fantastico ("Guazzabuglio di streghe, di spettri") sembrano non sfiorare questi "giovani provinciali senza fortuna o con fortuna postuma", incompresi o ignorati dai critici del tempo. Non a caso Igino Ugo Tarchetti, sottolineando polemicamente l'intento realistico dell'autore dei "Promessi Sposi" loda senza mezzi termini Guerrazzi, "per la potenza smisurata del suo ingegno (che è certamente superiore al Manzoni) e più di tutto (ed è una fatale distinzione) per quello scetticismo terribile, per quella disperanza della virtù, per quello scoraggiamento sui nostri destini e per quelle riflessioni desolanti sul cuore umano, che sono il distintivo caratteristico delle sue opere". Ed è sempre Tarchetti a scrivere nel 1866: "Che cosa è l'immaginazione? Chi ne definisce le facoltà? Dove rintracceremo noi quella linea che separa l'immaginazione dal vero? E nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni, esiste qualche cosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale, o assolutamente fantastico?"
Vero e immaginario vengono dunque a sovrapporsi e a coincidere. ("Il paradosso diviene una legge di natura", Gaetano Mariani). Tarchetti, spirito "fanciullesco e demoniaco", la cui stessa vita è un intrico esemplare "di protesta e di eccezionalità, di miseria e di infatuazione letteraria", non pone limite alcuno tra vita e non-vita, tra presente e memoria ("Che cosa sono in fatto le memorie se non le reliquie della nostra vita morale, le sue salme, i suoi morti?") instaurando un doppio rapporto con la realtà. Si scoprirà che i suoi temi sono il rapporto fra sogno e quotidianità, fra corpo e anima, fra vita presente e vita anteriore. Ma il sogno è in realtà un incubo, la struttura della vita è patologica, e quindi fra anima e corpo c'è soltanto un rapporto di malattia: alla malattia del corpo corrisponde un morbo dell'anima e viceversa. Ultimo atto: la morte. (Nota di Lunaria: questo aspetto è ben visibile nel capolavoro di Tarchetti: "Fosca")


 
Per Tarchetti, tutto è Fantastico perché tutto, in un attimo, potrebbe anche non esserlo e viceversa: la realtà in tutte le sue variabili è un mistero complessivo da indagare ossessivamente. Il Fantastico è "tanto più efficace narrativamente quanto più inaspettato: insomma, un'intermittenza del quotidiano, uno spiraglio gradualmente o fulmineamente aperto su una quarta dimensione."
A Tarchetti, nella "riscoperta di un sovramondo e di infinite relazioni ultrasensibili", più o meno saltuariamente si affiancano con una sempre più netta propensione verso il "Nero" quasi tutti gli altri Scapigliati lombardi e piemontesi: Arrigo e Camillo Boito, Luigi Gualdo, Roberto Sacchetti, Giovanni Faldella, Carlo Dossi, Pompeo Bettini, Edoardo Calandra, Remigio Zena, Vittorio Imbriani, De Marchi, Ghislanzoni, Luigia Emanuel Saredo, Molineri e Bazzero. Ma tracce di "Nero" sono ravvisabili anche in Emilio Salgari, narratore di esotiche avventure, e persino in Carolina Invernizio, regina indiscussa  dell'appendice italiana fiorita "sul tronco del romanzo storico."
Dopo il 1880 la Scapigliatura è morta e sepolta ma questo non comporta né l'estinzione né una recessione quantitativa del genere, tanto che si può affermare non ci sia scrittore italiano immune dalla tentazione, sia pure episodica, dello sconfinamento nella letteratura fantastica: da Luigi Capuana a De Roberto, Verga, Lauria, Donati, Fucini, Chelli, Graf, la Serao, Salvatore di Giacomo.

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