Commenti e Analisi all'"Endymion" di John Keats


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John Keats (1795-1821), giovane maestro del Romanticismo inglese, mai compreso dai contemporanei e amato invece da grandi intellettuali del secondo Ottocento come Oscar Wilde, oggi viene considerato un classico della letteratura inglese, nonostante l'esiguo numero di opere che poté comporre nella sua brevissima vita, prima che la tubercolosi lo stroncasse mentre si trovava a Roma ospite di P.B.Shelley. Di lui restano, oltre al poema "Endimione" e "Iperione", alcune celebri odi, considerate pietre miliari della lirica romantica. Keats rappresenta una fulgida meteora irrimediabilmente segnata dal mito romantico del genio incompreso e prematuramente scomparso. Pervasa da un'intima musicalità e stilisticamente perfetta, la poesia di Keats canta i temi cari a gran parte del movimento romantico, basti pensare alla coincidenza tra bellezza e verità (sia il Romanticismo tedesco sia quello inglese crederanno fermamente nell'idea che la bellezza non possa ridursi a un mero accessorio, in quanto fondamento e principio della verità stessa). Il tema fondamentale della sua ricerca resterà sempre la poesia stessa (il fascino dolce-amaro del sogno, l'ambigua figura della donna fatale, l'ossessione della fine imminente). Nei quattro anni in cui fu poeta meditò, mettendole in versi, sulle continue lacerazioni dall'esistenza: dalla fede totale nell'immaginazione, alla consapevolezza delle sue mancanze, dal vagheggiamento della bellezza come fine ultimo della sua ricerca, al desiderio di una più solida conoscenza, dalla speranza in un'eterna verità, alla lucida accettazione della caducità e soggettività del tutto.  La vera poesia, dunque, che nasce dalla disinteressata e amorale contemplazione delle cose, nelle parole dello stesso Keats dovrebbe essere "grande ma discreta; qualcosa che ti penetra dentro senza farti trasalire, senza colpirti per se stessa ma per il suo messaggio. Come sono belli quei fiori celati!"
Keats comincia a lavorare ad "Endymion, punta di spillo", primo ambizioso passo di "quell'interminabile cammino in salita" verso il tempio della fama, nella tranquilla solitudine dell'Isola di Wight. Sebbene fosse già stata pubblicata la sua prima raccolta di liriche, Keats si sentiva ancora esitante circa il suo essere un vero poeta. Scriveva al fratello George nel 1817: "Per quanto riguarda il tuo definirmi un poeta, non posso rispondere se non dicendo che l'Alta Idea che ho della gloria poetica mi fa pensare che essa si manifesti torreggiando troppo in alto su di me. In ogni modo, non ho diritto di parlare finché non avrò concluso il mio Endymion, che sarà un saggio, una prova del mio Potere di Immaginazione e soprattutto della mia inventiva, così non comune, in quanto devo realizzare 4000 versi a partire da un mero spunto e riempirli di poesia [...]" e ancora "Tante volte mi sono chiesto perché mai io fra tanti Uomini debba essere un Poeta".
Il mito di Endimione, conosciuto probabilmente già al tempo delle sue letture scolastiche, e filtrato attraverso Ovidio, Shakespeare, Milton, Drayton, aveva esercitato un forte fascino sulla fantasia del giovane poeta. Pervaso dalla musicalità stessa del suo nome, Keats si era risolto a dedicare a Endymion un più lungo poema. (Nota di Lunaria: Endymion è citato anche nel sublime cd dei Cradle of Filth "Dusk and Her Embrace", nella canzone "Beauty slept in sodom": "For thee Endymion I forsake the cerements of this star-flung tomb"; l'intero testo è pervaso da riferimenti mitologici ed erotici-macabri)

Eppure, nonostante le sue consapevolezze, l'inaspettata violenza delle stroncature sorprese sia il poeta sia gli editori sia gli amici. Fra queste la più feroce tacciava l'Endymion di "imperturbabile, perfetta idiozia". Alle velenose recensioni si affiancarono scritti apologetici a firma di amici e conoscenti, ma, pur grato verso di loro, Keats comprese che questo potesse risultare nocivo quanto il sarcasmo dei suoi detrattori. Sebbene ricco di episodi di intensa liricità e di indubbio fascino, il poema, talvolta prolisso ed esitante nell'impianto narrativo è così prodigo di svenimenti e sospiri da apparire lezioso. Eppure l'opera affre alcune pagine di superba poesia e versi di innegabile bellezza. Un mirabile lirismo balugina pagina dopo pagina nelle magiche descrizioni del mondo naturale o ancora nelle parole rapite che raccontano la bellezza incommensurabile di Cinzia, la grazia ultraterrena di Venere o l'incubo erotico di Glauco. I 4000 versi del poema sono un arabesco sottile ed aereo di accostamenti imprevisti, immagini scintillanti e pennellate di vivido sentimento. Come affermava Shelley, Endymion è opera ricca di tesori, sebbene profusi con inesperta dovizia.

Il primo verso "a thing of beauty is a joy for ever" sintetizza immediatamente il senso dell'affannosa ricerca di Endymion: il raggiungimento dell'eterna bellezza. Simbolo supremo ne è la Luna, incarnata da Diana, cui si sommano "le altre cose belle" che contribuiscono a fugare "il manto funebre dei nostri spiriti tetri" e che sono le meraviglie della natura: il sole, gli alberi, i fiori ma anche "le belle storie che udimmo o leggemmo/sorgente infinita di fluido immortale/versata su di noi col ciglio del cielo". Dopo questa introduzione generale, in cui il poeta non manca di delineare un chiaro programma di lavoro (v. 34-62) comincia il vero e proprio poema a partire dalle celebrazioni in onore del dio Pan, sulle pendici del monte Latmo. L'inno cantato dal vecchio sacerdote (v. 232-306) accenna ad un desiderio di trascendenza, quel desiderio che per Endymion diventerà realtà alla fine del poema, dopo una lunga ricerca, cominciata in seguito ad un primo indimenticabile amplesso con la Dea sconosciuta.
I magnifici versi dedicati al primo incontro con Cinzia prendono forma nel racconto stesso fatto dall'eroe all'amata sorella Peona. "In un magico letto di sacro dittamo e rossi papaveri", mentre spira una dolce brezza che disegna dinnanzi ai suoi occhi le più mirabolanti visioni, Endymion cade addormentato, e mentre gli sembra di elevarsi al cielo, vede alzarsi una magnifica luna seguita da una donna di sovrannaturale bellezza, dai capelli biondi e fluenti, le labbra rosse e l'incarnato di perla. Ella si avvicina "arrossendo come una vergine", mentre Endymion ha l'impressione di precipitare nella magia di quell'abbraccio che pure "si dilegua nel nulla" quando il suo sogno d'amore si trasforma in "stupido sonno". Risvegliatosi, solo fra gli umidi papaveri, comincia un lungo viaggio alla ricerca della perduta amante, mentre ai suoi occhi la natura perde di bellezza, ammantandosi di paura, sgomento e sconforto.
"Tutte le più piacevoli sfumature del cielo e della terra scomparvero: le più profonde ombre erano le più profonde prigioni; brughiere e assolate radure erano colme di luce molesta; i nostri immacolati ruscelli sembravano fuligginosi, e cosparsi dalle branchie riverse di pesci morenti; la rosa vermiglia si era dischiusa in orrendo scarlatto, e le sue spine spuntate come aloe acuminanti. Se un innocente uccello dinnanzi ai miei intontiti passi saltava e saltava in brevi giri, scorgevo in lui un demone camuffato, con l'incarico di cucire l'anima mia alla profonda oscurità; di travolgere i miei traballamenti in qualche immane voragine. Pertanto, tenevo dietro con ansia e maledivo la delusione. Tempo, annosa balia, mi cullò fino alla calma. Ora, per grazia del nobile cielo! Queste cose, con tutti i loro conforti, sono concesse alle mie naufraghe ore, e con te, dolce sorella, aiutando ad arginare il rifluente mare della sposata vita"
Peona, cerca di alleviare le sofferenze del fratello, ricordandogli la vitalità e la sete di gloria dei suoi giorni passati, ma Endymion risponde presagendo una futura immateriale felicità. Già da quanto abbiamo detto, appare chiaro che Cinzia rappresenti sia il simbolo dell'amore, sia quello dell'assoluta bellezza e quindi, per estensione, della perfezione poetica. Endymion, di conseguenza, non è solo l'anima innamorata che tende ad un amore più vero e sublime, ma anche il poeta alla ricerca della sua Musa e quindi l'uomo alla ricerca della felicità. Endymion è un eletto, un prescelto degli Dei [...] eppure il suo sogno di immortalità si realizzerà solo dopo un lungo viaggio iniziatico attraverso i mondi senza luna delle terre infere e degli abissi marini, narrati rispettivamente nel II e III libro dell'opera.
"Dove risiede la felicità? In ciò che invita le nostre pronte menti ad una divina comunione, comunione con l'essenza; fino a splendere, del tutto alchemizzati, e liberi dallo spazio. Guarda la lucente religione del cielo!"
Molto verosimilmente, il poema potrebbe essere letto come una celebrazione dell'amore nella sua totalità: sublime sentimento che nobilita l'anima trovando nella sfera sensuale la sua più completa realizzazione. 

La riflessione sull'amore maturata nell'opera si completa e si amplifica nei due miti che Keats incastona sul corpo centrale del racconto: l'episodio di Adone e la favola di Glauco. Il primo dei due, un intreccio di Eros e Thanatos, narra del wintersleep del giovane e frivolo cacciatore amato da Venere che, in virtù dell'amore puro e sincero di quest'ultimo, riceve da Giove il beneficio di una morte parziale medicata in prolungato sopore colmo di visioni e adorno di quieta magnificenza. Nelle delizie molli e luminescenti di una pergola paradisiaca, nido accogliente al riparo dal mondo, Adone dorme il suo sonno stagionale in attesa del bacio salvifico della Dea innamorata. L'episodio non è solo la celebrazione dell'amore più autentico, grazia e balsamo per l'animo umano, ma anche esempio di sororale e genuina compassione nelle parole gentili e benigne rivolte dalla Dea ad Endymion sofferente. Nel segno della compassione, intesa come partecipazione profonda al dolore dell'altro si dipana anche l'episodio più lungo e articolato di Glauco e Circe che connota il III libro del poema. Giovane e insoddisfatto pescatore, Glauco implora il Re dell'oceano di concedergli il potere di vivere libero in tutto il suo regno per visitare le meraviglie senza fine del letto oceanico. Nella sua nuova vita di essere marino conosce la bellissima Scilla alla quale si lega di un amore tanto grande quanto disperato. Alla fine di ottenere i favori della ninfa, il giovane invoca le arti malefiche della maga Circe, iniqua regina de sensi che con lacrime e sorrisi e parole di miele lo stringe in una rete la cui prigionia gli appare più beata della distesa fiorita di Elisio. Rapito in un lungo sogno d'amore, confinato nell'ennesima pergola del poema, Glauco si abbandona ad un piacere lascivo e mendace che gli costerà il fiore stesso della sua giovinezza. Nelle parole vibranti e dolenti di Glauco, l'eroe si confronta con il lato vizioso e malsano dell'amore allorché privo della sua essenza celeste si manifesta come vuota lusinga e appagamento dei sensi. L'aspetto tragico e scellerato dell'eros affiora chiaramente in un'altra disgressione dell'Endymion, collocata a chiusura del II libro e dunque circa a metà del lungo poema. Si tratta della fuga penosa di Alfeo e Aretusa nella quale si perpetua il desiderio di un amore probito e infelice. Come Dafne che si schernisce da Apollo e come Siringa che fugge da Pan, Aretusa onora la sua devozione nei confronti di Diana sottraendosi all'ardore incontenibile di Alfeo che pure continua a seguirla. Di fronte a questo amore inaccessibile e insoddisfatto, Endymion sarà pervaso, ancora una volta, da un sentimento di pietosa compassione che lo induce a pregare per la felicità dei due spossati amanti.
Come scrive Colvin, l'anima innamorata del poeta non può raggiungere il suo supremo ideale di bellezza se non attraverso il confronto con altre anime innamorate e sofferenti e infatti sul suo cammino, Endymion incrocia anche una giovane, nostalgica straniera, allontanatasi dalla sua terra natale al seguito di Bacco. Secondo alcuni interpreti, la bella Indiana, dalle trecce nere e dalla pelle ambrata, figura antitetica rispetto alla candida Dea dai capelli biondi, rappresenta un simbolo della realtà terrena: dolorosa, finita, eppure affascinante. Anche l'amore più grande ha i suoi vacillamenti: Endymion pur non dimentico della sua amata divinità, ma stanco di inseguire quella fuggevole speranza oltre l'ombra del sogno, si sente attratto dalla giovane Indiana e crede di amarla. Quando si fa strada la consapevolezza che il loro amore non può realizzarsi ed egli si risolve di vivere una vita da eremita, la bella straniera si manifesta in realtà come Diana stessa. Il viaggio di Endymion termina nel momento in cui la dolcissima Indiana, allontanando i nebbiosi spettri del passato, promette all'eroe la grazia di una diversa felicità: l'accettazione del mondo sensibile appare come il primo necessario passo per realizzare quel sogno di immortalità, tanto remoto quanto ambito. Allo stesso tempo, la giovane straniera rappresenta anche l'ultima lusinga, l'estrema tentazione della carne prima dell'agnizione finale. Così al principio del IV libro il narratore si rivolge ad Endymion, mentre la giovane Indiana lamenta la sua dolorosa solitudine:
"Tu, signore di Caria, meglio sarebbe che fossi scagliato/in un ciclone. Dileguati nel vento,/ardente montanaro! Potresti mai resistere/ al sospiro di una donna angosciata e sola? /Non guardare le sue malie! Che sia l'algida Febe?/ Febe è molto più bella - non guardare oltre:/ma se contemplare vuoi una riserva di tutte le bellezze,/guardala palpitare sull'erba del bosco!"
La straniera, se non bella come Diana, è comunque "una riserva di tutte le bellezze" e di fatto Endymion le chiederà di cancellare quella metà della sua anima ancora legata alla Dea sconosciuta per fare di lei il suo unico amore:
"Mi sono avvinghiato/al nulla, amai nulla, nulla visto/o sentito se non un immenso sogno"
Alle parole dell'eroe fa eco la maledizione del fato che risuona lugubre nella vasta foresta.

Certo ormai della sua scelta, Endymion rivolge alla compagna una tenera dichiarazione d'amore:
"Mia dolcissima Indiana, qui,/mi inginocchio, poiché hai redento/la mia vita da troppo lieve respiro: andati e scomparsi/sono i nebbiosi spettri! Antri solitari, addio!/E aria di visioni, e spaventoso riflusso/del mare visionario! No, mai più eteree voci mi attrarranno a quella spiaggia/di confusi portenti, trafelato e atterrito./Addio, delizioso sogno! Anche se è così sconfinato il mio amore per te. Giungerà l'ora/che ci rincontreremo nel limpido elisio./Sulla terra non mi è dato di amarti; e allora/ti donerò colombe, e le più dolci provviste/di tutto l'anno fecondo: tu splenderai così/su di me, e sulla mia bella fanciulla/benedicendo le nostre semplici vite. Mia indiana felicità!/Bocciolo di ninfea! Bacio terreno!/Sospiro di alito certo - presa gentile/calda come nido di colomba fra gli alberi estivi/e calda di rugiada gocciante dal vivo sangue!"
"Quelle labbra saranno la mia Delfo, detteranno/legge ai miei passi/colore alle mie guance/tremito o tenacia a questa stessa voce/e la scelta fra i tre più dolci pensieri:/e quella luce amorevole, quegli oggetti adamantini/quegli occhi, quelle passioni, quelle supreme sorgenti perlate/saranno la mia pena o brilleranno al mio piacere./Dimmi non è la felicità alla perfetta portata delle nostre mani? Oh potessi non dubitarne!"

Un concreto e modesto appagamento sembra già aver cancellato gli entusiasmi di quel primo sogno d'amore. A sorpresa, la fanciulla rifiuta le profferte del principe-pastore e al riparo dallo sguardo dell'amante sorride soddisfatta. A questo punto appare chiaro che la bella Indiana, come già accennato, non sia altro che una maschera della divinità che, come spesso nell'epica classica, si avvicina ai mortali sotto le spoglie di una donna terrena. Scossa dal rifiuto della giovane, Endymion ritrova la fede nel suo vecchio sogno:
"Benché non ignaro,/che quegli inganni che piaceri paiono fra gli uomini/sono piaceri veri come il vero:/ ve ne sono comunque di più alti che io non potrei scorgere/se empiamente scegliessi un reame terreno."
Riflettendo fra sé su cose per le quali non vi sono parole, l'eroe invoca finalmente l'estremo desiderio di aver pieno comando sul suo triste fato ed è solo allora che avvien la metamorfosi della Dea:
"E mentre parlava, nel volto affiorava/ una luce, come riflessa da una fiamma d'argento:/i lunghi capelli neri si gonfiavano ampi, in piena/dorata ostentazione; nei suoi occhi un più fulgido giorno/albeggiò azzurro e carico d'amore. Sì, guardava/Febe, sua passione! Raggiante alzò/il suo lucido arco, e continuando disse: "Triste, triste/fu la nostra attesa; dapprima folle paura/mi frenava; e poi gli statuti del fato;/poi fu sancito che da questo stato mortale/tu fossi, amore, per inattesa metamorfosi,/fatto dio. Peona, erreremo in/queste foreste, e saranno sicure per te/come fossero la tua culla; qui verrai a trovarci/innumerevoli volte"
Finalmente il viaggio di Endymion è concluso: reso dio, ha ormai a portata di mano la somma bellezza e l'amore perfetto. Se l'accettazione della realtà sensibile appare il primo passo per la realizzazione del suo sogno, non bisogna dimenticare che la quest dell'eroe termina solo quando egli cessa di essere in balia degli eventi, affermando la sua estrema volontà. Solo allora Endymion è degno di contemplare Diana nella sua divina bellezza, superando gli statuti contrari del fato e diventando un essere celeste. In conclusione, il poema è la storia di un sogno che si tramuta in realtà: l'immaginazione che congiunge il mondo reale al mondo vagheggiato permette all'anima eletta di trascendere i limiti dell'umana esistenza infrangendo quella fragile barriera che ci separa dalle nostre eteree dimore.
Scriveva il poeta: "Non sono certo di nulla se non della santità dell'effetto de cuore e della verità dell'immaginazione - ciò che l'immaginazione coglie come bellezza deve essere verità - che esistesse prima o no - perché ho la stessa idea delle Passioni come dell'Amore: che sublimate siano tutte creatrici di Pura Bellezza". Il Poema è l'apoteosi di questa convinzione. Lo stesso Keats sembra condividere la speranza di Endymion quando in una lettera a Bailey, parafrasando Shelley, conclude dicendo che sono le nostre stesse menti a rendere sacre e perfette le cose che contemplano.


***

Le definizioni moderne di "Endymion" sono spesso metonimiche e pertinenti al mondo naturale. è un tessuto di fiori retorici, un traliccio istoriato per grappoli di cose belle, terrestri, marine, aeree, è tutto alberi. I suoi quattromila versi lo fanno somigliare a un fenomeno di natura: è un poema-albero, dalla chioma mossa e chiaroscura e le radici che affondano nella poesia elisabettiana, è un poema-sole che ostenta vastità di concezione e pathos sublimi, spazialità oniriche e tempi immemorabili. Per il suo protagonista, sempre in cammino, è un poema-paesaggio, dove errare è desiderio di infinito e la memoria è dilatazione subime del mito; il mondo arcadico e quello infero, l'abisso marino e tutto l'aere; l'orientalismo settecentesco gli suggerisce di moltiplicare palazzi, templi, pergole, fantasiose varianti di quella stanza del pensiero verginale, forma archetipale del sé, raccolta nell'unicità della sua apparizione (*). Il poeta ha piena autorità sulla natura immaginata secondo il suo piacere: fa coincidere i fiori di tutte le stagioni, ne accende i colori, ne esalta i profumi, ordina concerti di uccelli e boschetti ombrosi in gran quantità. L'acqua, poi, si finge vegetazione e architettura. Dirà Bachelard che il sognatore votato all'acqua (e Keats lo è) è creatura di vertigine che senza tregua metamorfizza la sostanza dell'essere.

(*) L'immagine della vita umana come una grande casa dalle molte stanze è presa dalla lettera di Keats; dalla "stanza spensierata" si passa a quella del "pensiero verginale" per arrestarsi alle soglie di "anditi oscuri", tutti da esplorare.

Nota di Lunaria: qui qualche riferimento alla flora, preso dal Libro Primo, da 13 a 262.

Così sole, luna,
alberi antichi, e nuovi, germoglianti felicità d'ombre
per l'umile gregge; e narcisi
col verde mondo in cui abitano; e chiari ruscelli
che cercano un fresco tetto
contro la torrida stagione; il cespuglio nel bosco,
con la spruzzata di boccioli della bella rosa muscata:
e così anche la magnificenza del destino
che immaginiamo per i morti illustri [...]
né queste essenze sentiamo solo
per brev'ora; no, come anche gli alberi
che sussurrano attorno al tempio presto diventano
cari quanto il tempio stesso, così fa la luna,
la poesia passione, le glorie immense,
ossessioni per noi finché non siano lietificante luce
all'anima nostra, e a noi si legano sì forte,
che, sia splendore o tenebra tetra,
sempre con noi dimorano, o moriamo.

Quindi, è con piena felicità ch'io
vergo la storia di Endimione.
La musica stessa del nome penetra
nel mio essere, e ogni leggiadra scena
sorge vivida avanti a me come il verde
della nostra valle: dunque inizio
ora che il clamore della città non odo;
ora che i primi germogli appena spuntano,
e cingono con dedali di colore tenerissimo
i vecchi boschi; mentre il salice strascica
la sua ambra delicata [...]
Tanti e tanti versi spero di scrivere,
prima che le margherite, orlate di vermiglio e bianco,
si nascondano nell'erba folta; e prima che le api
ronzino attorno ai globi del trifoglio e ai piselli
odorosi,
sarò quasi a metà della mia storia.
O che la stagione invernale, spoglia e bianca,
non la veda incompiuta; ma il vigoroso autunno,
coll'universale tinta d'oro vecchio,
mi sia tutto attorno quando sarò alla fine.
[...]
Sui pendii di Latmo era sparsa
una rigogliosa foresta; poiché l'umida terra nutriva
generosamente le occulte radici d'erba
e divenivano rami penduli, e frutti preziosi.
E v'erano ombre dense, profondità recluse,
dove nessuno entrava; [...]
sentieri ve n'erano molti,
serpeggianti tra felci di palma e palustri giunchi,
e sponde d'edera; tutti gradevolmente diretti
a un ampio prato, da dove si scorgevano solo
fusti aggruppati in cerchio tra gonfie
zolle e radenti rami: chi potrebbe dire
la freschezza dello spazio di cielo in alto,
orlato dalle cime scure degli alberi? traversandolo una
colomba
spesso batteva le ali, e spesso
anche una nuvoletta navigava per l'azzurro.

Proprio nel mezzo di questa amenità
stava un altare di marmo, con una treccia
di fiori appena in boccio; e la rugiada
s'era concessa fantasie da fata spargendo
margherite la sera prima sulla terra sacra,
e così la luce albeggiante con sfarzo accoglieva.

[...]

Così dicendo, [...] un corò cantò:

"O tu, il cui grandioso palazzo ha il tetto pendulo
da scheggiati tronchi, e ombreggia
sussurri eterni, tenebre, nascita, vita, morte
di fiori non visti in solenne quiete;
che ami vedere le amadriadi ricomporsi
i riccioli arruffati là dove i noccioli congiunti
ombreggiano;
e per lunghe, solenni ore, siedi e ascolti
la tetra melodia di giunchi prigionieri -
in desolati luoghi, dove per la palustre umidità cresce
la cicuta cilindrica fino a straordinario rigoglio;
pensando a te, quanto triste e restio
fosti a perdere la bella Siringa - ora tu -
per la lattea fronte del tuo amore! -
per i tremanti labirinti ch'ella corsa -
ascoltaci, grande Pan!"

"O tu, per la cui quiete anima-suadente, le tortore
appassionano la voce tubando tra i mirti,
quando vaghi al tramonto
per campi assolati, che orlano il fianco
dei tuoi muschiati reami: o tu, a cui
i fichi dalle larghe foglie fin d'ora promettono
frutta matura; le api giallo-cinte
favi dorati; i campi del villaggio
la bellissima fioritura di fagioli e grano e papaveri;
il gorgheggiante fanello i suoi cinque piccoli ancor non
nati
che canteranno per te; le fragole in terra serpeggianti
la frescura estiva; le sigillate farfalle
le ali screziate; sì, l'anno fresco in boccio
tutte le sue perfezioni - avvicinati presto,
con ogni vento che inclina il pino del monte,
o divino silvano!"


Qui il testo originale:

 Such the sun, the moon,
 Trees old, and young, sprouting a shady boon
 For simple sheep; and such are daffodils
 With the green world they live in; and clear rills
 That for themselves a cooling covert make
 'Gainst the hot season; the mid forest brake,
 Rich with a sprinkling of fair musk-rose blooms:
 And such too is the grandeur of the dooms                     
 We have imagined for the mighty dead;
[...]  Nor do we merely feel these essences
 For one short hour; no, even as the trees
 That whisper round a temple become soon
 Dear as the temple's self, so does the moon,
 The passion poesy, glories infinite,
 Haunt us till they become a cheering light                    
 Unto our souls, and bound to us so fast,
 That, whether there be shine, or gloom o'ercast,
 They alway must be with us, or we die.

Therefore, 'tis with full happiness that I
Will trace the story of Endymion.
The very music of the name has gone
Into my being, and each pleasant scene
Is growing fresh before me as the green
Of our own vallies: so I will begin
Now while I cannot hear the city's din;                         
Now while the early budders are just new,
And run in mazes of the youngest hue
About old forests; while the willow trails
Its delicate amber; [...]
Many and many a verse I hope to write,
Before the daisies, vermeil-rimmed and white,                
Hide in deep herbage; and ere yet the bees
Hum about globes of clover and sweet peas,
I must be near the middle of my story.
O may no wintry season, bare and hoary,
See it half finished; but let Autumn bold,
With universal tinge of sober gold,
Be all about me when I make an end.
[...]
Upon the sides of Latmos was outspread
A mighty forest; for the moist earth fed
So plenteously all weed-hidden roots
Into o'er-hanging boughs, and precious fruits.
And it had gloomy shades, sequestered deep,
Where no man went;

[...]

Paths there were many,
Winding through palmy fern, and rushes fenny,                 
And ivy banks; all leading pleasantly
To a wide lawn, whence one could only see
Stems thronging all around between the swell
Of turf and slanting branches: who could tell
The freshness of the space of heaven above,
Edged round with dark tree tops? through which a dove
Would often beat its wings, and often too
A little cloud would move across the blue.

Full in the middle of this pleasantness
There stood a marble altar, with a tress                     
Of flowers budded newly; and the dew
Had taken fairy phantasies to strew
Daisies upon the sacred sward last eve,
And so the dawned light in pomp receive.
[...]

Thus ending [...] thus a chorus sang:

"O Thou, whose mighty palace roof doth hang
From jagged trunks, and overshadoweth
Eternal whispers, glooms, the birth, life, death
Of unseen flowers in heavy peacefulness;
Who lov'st to see the hamadryads dress
Their ruffled locks where meeting hazels darken;
And through whole solemn hours dost sit, and hearken
The dreary melody of bedded reeds
In desolate places, where dank moisture breeds               
The pipy hemlock to strange overgrowth;
Bethinking thee, how melancholy loth
Thou wast to lose fair Syrinx - do thou now -,
By thy love's milky brow! -
By all the trembling mazes that she ran -
Hear us, great Pan!"

"O Thou, for whose soul-soothing quiet, turtles
Passion their voices cooingly 'mong myrtles,
What time thou wanderest at eventide
Through sunny meadows, that outskirt the side                
Of thine enmossèd realms: O thou, to whom
Broad-leavèd fig trees even now foredoom
Their ripened fruitage; yellow-girted bees
Their golden honeycombs; our village leas
Their fairest-blossomed beans and poppied corn;
The chuckling linnet its five young unborn,
To sing for thee; low creeping strawberries
Their summer coolness; pent up butterflies
Their freckled wings; yea, the fresh budding year
All its completions - be quickly near,                        
By every wind that nods the mountain pine,
O forester divine!

***

Altri versi dell'"Endymion" (con testo originale) e poesie varie

Sentieri ve n'erano molti, serpeggianti fra felci di palma e palustri giunchi e sponde d'edera.

Paths there were many, winding through palmy fern and rushes fenny and ivy banks.

O tu, il cui grandioso palazzo ha il tetto pendulo di scheggiati tronchi; e ombreggia sussurri eterni, tenebre, nascita, vita, morte di fiori non visti in solenne quiete. Che ami vedere le amadriadi là dove i noccioli congiunti ombreggiano e per lunghe soleni ore, siedi e ascolti, la tetra melodia di giunchi prigionieri in desolati luoghi dove per la palustre umidità cresce la cicuta cilindrica a straordinario rigoglio.

O Thou, whose mighty place roof doth hang from jagged trunks and over shadoweth eternal whispers, glooms, the birth, life, death of unseen flowers in heavy peace fulness. Who lov'st to see the hamadryads dress their ruffles locks where meeting hazels darken. And through whole solemn hours dost sit, and hearken the dreary melody of bedden reeds in desolate places, where dank moisture breeds the pipy hemlock to strange over growth.


Ah! Sospiri, lagrime, mani strette, ecco! I papaveri pendevano zuppi di rugiada sugli steli, il merlo cantava un lugubre canto e il giorno fosco aveva scacciato l'araldo Espero con grevi sguardi.

Ah! My sighs, my tears, my clenched hands for lo! The poppies hung dew-dabbled on their stalks, the ouzel sung a heavy ditty, and the sullen day had chidden herald Hesperous away with leaden looks.

Pergamene sgretolantisi scritte in lingua di paradiso. Da quelle anime che prima vissero sulla terra e ardue sculture di pesante pietra, svelanti l'umore della notte, l'umore della notte antica.

Mouldering scrolls writ in the tongue of heaven. By those souls who first were on the earth. And sculptures rude in ponderous stone, developing the mood of ancient nox.

V'è una caverna, oltre gli apparenti confini dello spazio, fatta perchè l'anima v'erri, e trovi l'esser suo, di profondissima tenebra. Buie regioni la circondano, dove le tombe di sepolti dolori lo spirito vede ma a stento. Un'ora indugia piangendo.

There lies a den. Beyond the seeming confines of the space made for the soul to wonder in and trace its own existence, of remotest glooms. Dark regions are around it, where the tombs of buried griefs the spirit sees, but scarce one hour doth linger weeping.


Te, Gentile Dama, egli liberò: per sempre tu vivrai e amerai, per tutte le tue lagrime fluenti.

Thee, Gentle Lady, did he disenthrall: ye shall for ever lve and love, for all thy tears are flowing.


"La Belle Dame sans merci"

Vidi le pallide labbra nel crepuscolo,
in orrido ammonimento spalancate,
e mi svegliai e mi trovai così
sul freddo fianco del colle.

I saw their starved lips in the gloam,
with horrid warning aped wide,
and I awoke and found me here,
on the cold hill's side.

Da "Iperione" (1818-1819)

Libro I

Profondo nell'ombra triste d'una valle
persa lontano dal salubre respiro del mattino,
lontano dall'infuocato mezzogiorno, e dalla prima stella,
grigio sedeva Saturno, quieto come pietra,
immoto come il silenzio attorno al suo rifugio;
foresta su foresta gli cingeva il capo
come nube su nube. Non v'era moto d'aria,
né tanta vita quanta in un giorno d'estate
non rubi alla piumata erba un seme leggero,
ma dove morta la foglia ricadeva, ferma restava.
Senza voce scorreva vicino a un rivo,
ancor più zitto per l'ombra che spargeva
la caduta divinità - fra le canne la naiade
più stretto al labbro premeva il freddo dito.
Lungo la sabbiosa sponda larghe impronte seguivano
non oltre il punto dove i piedi avevano vagato,
e là da allora riposavano. Sulla molle terra
la vecchia mano destra giaceva inerte, indifferente,
senza vita né scettro, e i decaduti occhi erano chiusi
mentre il capo sembrava chino in ascolto alla Terra,
l'antica madre, per un conforto ancora.

 
"Hyperion. A fragment"

Book I

Deep in the shady sadness of a vale
far sunken from the healthy breath of morn,
far from the fiery noon, and eve's one star,
sat grey-hair'd Saturn, quiet as a stone,
still as the silence round about hs head
like cloud on cloud. No stir of air was there,
not so much life as on a summer's day
robs not one light seed from the feather'd grass,
but where the dead leaf fell, there did it rest.
A stream went voiceless by, still deadened more
by reason of his fallen divinity
spreading a shade: the Naiad 'mid her reeds
pressed her cold finger closer to her lips.
Along the margin-sand large foot-marks went,
no further than to where his feet had stray'd,
and slept there since. Upon the sodden ground
his old right hand lay nerveless, listless, dead,
unsceptred; and his realmless eyes were closed;
while his bow'd head seem'd list'ning to the Earth,
his ancient mother, for some comfort yet.

Libro IV

Via! Via! che io volerò da te,
non sul cocchio di Bacco e i suoi compagni,
ma sulle ali invisibili di Poesia,
benchè la sorda mente sia s'impaccio e ritardo.
Già con te! Tenera è la notte,
e forse la Regina-Luna è sul suo trono,
attesa intorno da tutte le stellate ancelle;
ma qui luce alcuna non c'è,
tranne quella che dal cielo s'insinua con la brezza
fra le tenebre verdi e i sinuosi sentieri muschiati.


Book IV

Away! Away! for I will fly to thee,
not charioted by Bacchus and his pards,
but on the viewless wings of Poesy,
through the dull brain perplexes and retards.
Already with thee! Tender is the night,
and haply the Queen-Moon is on her throne,
cluster'd around by all her starry Fays;
but here there in no light,
save what from heaven is with the breezes blown
through verdurous glooms and winding mossy ways.

"Ode su un'urna greca"

Tu (1) della quiete ancora inviolata sposa,
alunna del silenzio e del tempo tardivo (2),
narratrice silvestre (3) che un racconto
fiorito puoi così più che la nostra
rima dolcemente dire,(4)
quale leggenda adorna d'aeree fronde (5) si posa
intorno alla tua forma?
Di deità, di mortali o pur d'entrambi,
in Tempe (6) o nelle valli
d'Arcadia? (7) Quali uomini
son questi (8) o quali dèi,
quali ritrose vergini,
qual folle inseguimento, qual paura,
quali zampogne e timpani,
quale selvaggia estasi? (9)

Note:

1) Il Poeta si rivolge all'urna greca.
2) L'urna antica è rimasta per lunghi secoli, nel lento scorrere del tempo, immersa nella quiete e nel silenzio dell'oblio.
3) Sul'urna "narratrice", ovvero scolpita, è incisa una scena pastorale, per questo il Poeta usa l'aggettivo "silvestre".
4) Per il Poeta, l'urna, con le immagini incise, racconta più dolcemente che non le rime della Poesia.
5) La scena pastorale è decorata da foglie.
6)Tempe è una località della Tessaglia.
7) Regioni della Grecia; metaforicamente però simboleggiano un luogo ideale di armonia e serenità.
8) Con "Questi" il Poeta si riferisce ai personaggi rappresentati sull'urna: uomini, dèi, fanciulle, scene pastorali.
9) "Selvaggia estasi" è un riferimento ai riti dionisiaci, in cui i danzatori cadevano in una sfrenata ebbrezza.

Ora, il testo in inglese!

Thou still unravished bride of quietness
Thou foster-child of silence and slow time
Silvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme!
What leaf-fringed legend haunts about thy shape
of deities or mortals, or of both,
in Temple or the dales or Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?
 
Un commento critico:

"Il motivo centrale delle prime quattro strofe è la bellezza ideale, che si manifesta in forme tangibili nel fregio marmoreo dell'urna.
La bellezza è fissata dall'arte in forme eterne, immodificabili, sottratte all'azione del tempo: il canto della zampogna non cesserà mai, l'amore durerà per sempre, la bellezza della fanciulla non appassirà mai, la primavera sarà eterna. La bellezza si unisce dunque ad un senso di vitalità giovanile piena e gioiosa. A queste forme eterne si contrappone la vita reale dell'uomo segnata dal dolore, dalla febbre del desiderio irrealizzabile, dalla delusione (conclusione della III strofa). Dinnanzi a queste forme di attica perfezione il pensiero dell'uomo è come spinto al di là dei suoi stessi limiti, si protende a vagheggiare con struggimento quell'eternità che per l'uomo è irrealizzabile. Nell'ultima strofa si approfondisce il motivo già accennato al termine della III: alla bellezza eterna e incorruttibile dell'arte, che si compendia nell'urna greca, si contrappone la realtà umana, sottoposta all'azione del tempo, soggetta alla decadenza e alla vecchiezza.
Ma nel succedersi delle generazioni umane, sempre dominate dall'affanno, l'urna continuerà a diffondere il suo messaggio: "La Bellezza è Verità, la Verità è Bellezza". Nella contemplazione del valore della bellezza si compendia il senso che gli uomini possono dare alla loro vita." A differenza della Poesia di Shelley, visionaria e torbida, quella di Keats si compiace di immagini armoniche e classiche. Ma il Classicismo di Keats, come quello di Foscolo, secondo me, sono colmi di Spirito Romantico: tutto è struggimento, tutto è malinconia, nostalgia di un mondo passato (quello Classico, idealizzato) che si percepisce come un paradiso perduto.