Federico de Roberto e Arturo Graf


Federico de Roberto, "Donato del Piano"

Grigia, minuta, a larghe falde piove la cenere dal cielo ottenebrato e ricopre la terra, e seppellisce i viventi.

Nei campi agguagliati, piccole elevazioni indicano il posto di una tomba; ma ben presto quelle pieghe si livellano anch'esse, e per l'immenso cimitero del mondo niun segno distingue più la cenere della terra dalla cenere delle generazioni mietute.


Qualche verso di Arturo Graf...un Poeta del 1800.


"Al Novo Giorno"

Chi è che sa dirmi al vero
ov'abbian lor Cimitero i giorni che più non sono?


"Superstite"

Della chiesa superba
questo avanzo rimane,
quattro livide mura,
un arco immane,
la distesa scalea, vestita d'erba.
Dal cielo guata la luna l'ignudo altar
gl'inscritti sepolcri
e il muto pulpito e i diritti pilastri
cui la fosca edera abbruna,
e gli altri vaneggianti finestroni all'ingiro,
ove sui fondo oro e di zaffiro
un giorno sfavillar
Madonne e Santi.
Tra le deserte mura tutto è silenzio e morte
d'una vita che fu, d'un altra sorte
un solo e vivo testimonio or dura dietro
alla vota occhiaia dell'oriuolo incombe
alla ruina e le forbite trombe ancor lo smisurato
organo appaia.
Ancor grandeggia e brilla sotto la buia volta,
e par che intuoni a un popolo che ascolta
l'orror del Dies Irae Dies Illa.
Me ne' fianchi l'intendo fiato più non comprime,
più non rompe terribile e sublime
dalle cento sue bocche il canto immenso
e sol malora, quando nei cilindri sonori s'ingorga un venticel,
l'aria di fuori freme d'un canto doloroso e blando.
E sulla sponda estrema della grigia parete
alcun pallido fior morto di sete
sul flessuoso stel palpita e trema.


"Fantasmi"

Mezzanotte: fremendo l'orïuolo
i lenti squilli nel silenzio esala;
è mezzanotte; pensieroso e solo
io seggo in mezzo alla profonda sala.
Splende d'un lume abbacinato e fioco
delle finestre il gotico traforo;
come una nebbia di stemprato foco
raggian nel buio i lacunari d'oro.

Nel ciel cui spazza il gelido rovaio,
dietro i frastagli d'una guglia bruna,
come uno scudo di forbito acciaio
il disco sale della colma luna.
È mezzanotte; una mortal quïete
il freddo e sonnolento aere ingombra;
un organo s'addossa alla parete,
e con le terse canne allistan l'ombra.
Io guardo innanzi a me lo steso arazzo,
e a poco a poco, trasparenti e pure,
veggo apparir sul fondo pavonazzo,
colorirsi e passar care figure.
Larve di donne innamorare e morte,
coronate di gigli e d'amaranti,
belle, soavi, in cheta estasi assorte,
piene di carità nei lor sembianti.
Passan lente e leggiere, in compagnia,
e tornano a vanir nell'aer scuro;
io veggo la dipinta anima mia
istorïarsi a mano a man sul muro.
L'organo si ridesta; entro le cave
trombe gorgoglia un gemebondo nato;
trema un canto nell'aria arcano e grave,
il canto della morte e del passato.


"Pallida Mors"

Mentre intorno ai fioriti e scintillanti
deschi sediam entro dorata sala,
e dalle tazze traboccanti esala
il sonoro e gentil spirto dei canti;
mentre ferve la gioia, e accende il volto
alle fanciulle e scalda il sen di neve,
dietro i serici arazzi il passo greve
e il riso acuto io della morte ascolto.
E gli occhi, pieno di sgomento il core,
ficco nei viso a mi orïuol beffardo,
e il negro, maledetto indice guardo
per l'angusto volar cerchio dell'ore.
Mi guardo a fianco, e sull'amata fronte
veggo di tratto inaridir le rose,
e spegnersi il balen dell'amorose
luci che al mio piacere eran sì pronte;
illividir le tempie ed il soave
labbro farsi di gel, sciorsi le chiome,
e sulla sedia arrovesciarsi, come
morto, il bel corpo illanguidito e grave.
E mi s'agghiaccia il cor; falso né vero
più non discerno, non rido, non piango;
ma, con le braccia al sen, muto rimango,
immobile, a guatar l'empio mistero.


"Simulacro"

Dal marmoreo fonte
ritto si leva il bianco simulacro:
ancora par che dal selvoso monte
Diana scenda al gelido lavacro.
Le fredde ignude membra
un arcano e sottil spirito avviva;
ancora sui divini omeri sembra
che balzi e suoni la faretra argiva.
Sotto l'arco del ciglio
immobilmente la pupilli guata,
guata dell'onde il lucido scompiglio
e l'ozïosa danza interminata.
Sulla fronte superba
un'ombra di pensier tacito vaga,
misterïoso desiderio, acerba
reminiscenza, fantasia presaga.
Dimmi, ricordi i chiari
gioghi d'Olimpo, il ciel liquido immenso?
De' numi il lieto popolo, gli altari
su cui bruciava l'odorato incenso?
Ricordi tu le serve
dense, al fragor dell'irruente caccia
alto sonanti, e le inseguite belve,
e i can travolti sulla lunga traccia?
Ricordi i lieti e vaghi
recessi dove dal sanguigno ludo
posavi? i monti solitarii, i laghi
ove immergevi il divin corpo ignudo?
Ricordi i baci ardenti
d'Endimïone e il venturato scoglio?
del mal vinto pudore i turbamenti
soavi e il novo femminile orgoglio?
Ricordi ancorar? Or dove,
dov'è quel tempo e quel felice mondo?
ove il tuo culto e il nume tuo giocondo,
superba figlia dell'egioco Giove?
Buon per te che sei morta!
Il pellegrin dolente e affaticato
ti passa innanzi, e meditando il fato
de' numi erge la fronte e si conforta.


"Teschio"

In mezzo a una pianura erma e scoverta
sorge la gran piramide d'un monte,
che, solcata da' fulmini, la fronte
avventa al cielo minacciosa ed erta.
L'uom di lassù potria mirar le glorie
di cinquanta città: opere e fasti
d'antiene genti, alte ruine e vasti
regni, teatro di famose istorie.
Sopra una guglia dritta acuminata,
a cui l'aquila il voi drizzar non osa,
un teschio ignudo e solitario posa,
e muto spettator dall'alto guata.
E pensa? E par così meditabondo!
e così triste! O nudo teschio e vano,
o teschio pien d'un gran pensiero arcano,
dimmi, per dio, che pensi tu del mondo?


"Sangue"

Strano licor! nell'infingarda creta
qual'arte arcana, qual poter t'instilla?
Vive per te la sciagurata argilla;
vive: il ciel può saper quanto n'è lieta.
Nullo acume di mente o di pupilla
può penetrar la tua virtù secreta;
bagni l'inerte fibra e irrequieta
vampa l'imperscrutata anima brilla.
Tu fomenti il pensier; dal cor profondo
reggi estuoso della vita il gioco,
mesci gli effetti in turbolente gare.
Strano licore! ogni tua stilla è un mondo;
e non conosce i tuoi fervori il foco,
e non conosce le tue rabbie il mare.


"Lo specchio"

Nella mia cameretta ove l'amica
luna dal ciel traguarda e il sol morente,
sovra il camin pende uno specchio, antica
d'arte venezïana opra lucente.
L'immacolato vetro intorno intorno
di negro legno una cornice accoglie,
ove industre scalpel, con stile adorno,
fiori e frutta intagliò, viticci e foglie.

D'empia Medusa al negro cerchio in cima
la turpe faccia boccheggiar si vede;
scolta è nel legno e viva altri la stima,
e dall'aspetto orribile recede.
Lo specchio d'un baglior pallido brilla
da soli antichi nel cristal piovuto;
oh, la sua grande, immobile pupilla
sa dio le orribil cose che ha veduto,
nei marmorei palazzi, entro secrete
stanze, o di simulati usci pel vano,
lucida e tonda in mezzo alla parete,
che sorda, muta, custodia l'arcano!
Or più non serba e non respinge indietro
larva né segno del veduto mondo;
lucido, eguale, immacolato il vetro
si stende come un lago senza fondo.
Talor mi pongo a riguardar furtivo
entro il suo lume, quando il giorno muore,
e nel vedermi, e nel sentirmi vivo,
d'orror mi riempio, mi s'agghiaccia il core.
E l'empia Gorgo mi saetta addosso
l'atroce sguardo e mi trapassa dentro;
vorrei fuggire e il piè mover non posso,
immobil guardo ed impietrar mi sento.