Introduzione ai Poeti Crepuscolari

Nota di Lunaria: nei prossimi mesi farò uscire un approfondimento su Sergio Corazzini, il mio preferito.


Qui riporto solo alcuni estratti di Corazzini, Palazzeschi e Govoni , e altri poeti del Novecento, che avevo fatto uscire diversi anni fa in singoli pdf

Info tratte da


La poesia del Novecento è influenzata sul piano espressivo dalle innovazioni introdotte dal Decadentismo, sul piano tematico dagli eventi che sconvolsero l'Europa nella prima metà del secolo, in particolare dalle Guerre Mondiali, i cui echi si avvertono nelle opere degli scrittori più significativi del Novecento, da Ungaretti a Montale a Quasimodo.

La produzione poetica di questi anni si articola in varie correnti letterarie che, pur nella loro diversità, presentano alcuni tratti comuni:

1) Il poeta non si atteggia più a vate, ma dichiara esplicitamente la propria inutilità e marginalità e si identifica con "un fanciullo che piange" (Corazzini), o con "un saltimbanco" (Palazzeschi) o un "uomo di pena" (Ungaretti). Egli non ha messaggi rassicuranti da inviare al lettore e può solo mettere a nudo, spesso con toni irridenti e provocatori o con espressioni amare e dolenti (Montale) la negatività dell'esistenza.

2) Le poesie sono solitamente brevi e scritte con linguaggio aspro ed essenziale, segno della profonda sofferenza esistenziale del poeta e della fatica con cui egli scava ogni parola nel profondo del suo animo.

3) è evidente in questi atteggiamenti il rifiuto di D'Annunzio e dell'immagine sontuosa e aristocratica del poeta e della poesia che egli aveva imposto con i suoi versi e stile di vita.

Le tendenze poetiche-artistiche e i personaggi più significativi del Novecento, in Italia, sono:

- Crepuscolarismo
- Futurismo
- Ungaretti e Montale
- l'esperienza isolata e controcorrente di Saba
- Ermetismo

***

Con il termine "poeti crepuscolari" si indica un gruppo di scrittori che operano in Italia nel primo decennio del Novecento, e sono accomunati dal gusto per una poesia dai toni grigi, dimessi, quotidiani, malinconici. La loro produzione letteraria faceva pensare alla luce incerta del crepuscolo, dove lo splendore della grande stagione poetica dannunziana e pascoliana, invece, poteva essere paragonata alla luce accecante del meriggio.

Il movimento ebbe precisi limiti cronologici, gli anni tra il 1903 e il 1911 e un ben definita collocazione spaziale: si sviluppò a Roma, Torino, Ferrara.
A Roma vissero Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, a Torino Guido Gozzano, Carlo Chiaves, Nino Oxilia.
Si accostarono al Crepuscolarismo anche Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni http://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/corrado-govoni.html
e Marino Moretti.
Vissuti in un'epoca in cui era ancora imperante il modello dannunziano sia negli atteggiamenti di vita sia nelle scelte culturali, i poeti crepuscolari si distaccano nettamente dai toni trionfali e vitalistici, prediligono semmai la poesia pascoliana delle piccole cose e si agganciano a modelli come Paul Verlaine, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Francis Jammes, Jules Laforgue, scrittori intimisti e malinconici.

Questi poeti non si sentivano integrati nella realtà; avvertivano il vuoto e la falsità degli ideali ottocenteschi (Patria, Dio, Umanità, parole che Gozzano definirà "nauseose"), non sanno adattarsi alle leggi della società borghese, gretta, meschina, nei confronti dei quali assumono un atteggiamento oscillante tra rifiuto e rassegnata ironica accettazione.

Muta anche la funzione attribuita alla poesia: i crepuscolari non credono più al "poeta vate", dai versi alla maniera carducciana e dannunziana. Sanno che questo ruolo si è esaurito e che nella moderna società di massa la poesia non ha più niente da dire, si vergognano quasi di essere poeti e assumono atteggiamenti dimessi e autoironici. Corazzini dichiara di non essere un poeta, ma "un piccolo fanciullo che piange"; Moretti intitola una sua poesia "Poesie scritte col lapis", Palazzeschi provocatoriamente intitola "E lasciatemi divertire!"; Gozzano ringrazia Gesù di non averlo fatto "gabrieldannunziano" e si definisce "un coso con due gambe\detto guidogozzano"

Le tematiche predilette da questi poeti sono i piccoli eventi della vita provinciale e monotona, quieti e noiosi pomeriggi domenicali, giardini abbandonati abitati da statue consumate dal tempo, corsie d'ospedale, organetti di Barberìa, suorine pallide e silenziose, interni di case borghesi. Sul versante stilistico il lessico è umile, la sintassi lineare, i versi lunghi e zoppicanti, le rime imperfette e spesso facili.
Le donne che compaiono in questi componimenti non hanno nulla di fatale o misterioso, hanno nomi rassicuranti ed una bellezza semplice e campagnola.
Una sensazione di malinconia, di stanchezza, una lieve ombra di morte attraversa questo mondo umile e dimesso, in sintonia con l'esistenza stessa degli autori, alcuni dei quali morirono giovani (Corazzini, Gozzano) consunti dalla malattia del secolo: la tisi.

Pur restando apparentemente ai margini del panorama letterario italiano, i poeti crepuscolari hanno esercitato una notevole influenza sulla poesia del Novecento che ne ha ereditato atteggiamenti, tematiche e tecniche espressive. Anche la definizione stessa di crepuscolari è duplice e ambigua: come il crepuscolo indica quel momento di passaggio tra la luce e il buio che si verifica sia al tramonto sia all'alba, così la poesia crepuscolare segna per un verso la conclusione della grande stagione poetica di fine Ottocento, per l'altro l'inizio della poesia moderna.

 I versi più belli


tratte da questa serie di antologie



GIOVANNI GIUDICI

"La Bovary c'est moi"

Vorrei poterti abolire
abolendo me stessa
come abolendo te stesso
tu mi potresti
abolire per fare a tutti
dire:
"di cosa mai parla questa pazza senza pudore,
senza il coraggio di morire per amore"


GIANPIETRO LUCINI (Crepuscolare)

"Cristalli di luce ed ombra"

Un mio pensiero Ophelia triste e stanca,
naviga alla deriva di un torrente,
la terra resupina, molle e bianca,
dorme sull'acque sussurranti e lente?
S'attarda il corso, s'attenua manca ed estua
in una gora putrescente.
A che pensiero morbido si stanca a languire
sul volto pigramente?
Muoija il pensiero!
Ophelia è morta e sta sopra il letto dell'acqua immemoriale.
Tonda la Luna, topazio ed opale solecchia sullo stagno.
Il teschio ride; (*)
ghigno convulso di luce s'include.
Brividi lunghi e fredde ambiguità. 


(*) è il teschio celebre dell'"Amleto"



RICCARDO BACCHELLI (Rondista)

"Epitaffio"

Che cosa c'è,
che cos'è Lei
la Morte lo sa
ma lo racconta solo ai morti.


ATTILIO BERTOLUCCI (Ermetismo)

"Inverno"

Inverno, gracili sogni sfioriscono sugli origlieri,
giardini lontani fra nebbie nella pianura,
che sfuma in mezzo alle luci dell'alba.
Voci come un ricordo d'infanzia,
prigioniere del gelo: s'allontanano verso la campagna.
Ninfee dagli occhi dolci e chiari
fra gli alberi spogli, sotto il cielo grigio,
cacciatori che attraversano un ruscello,
mentre uno stormo d'uccelli s'alza in volo.


GUIDO GOZZANO

da "L'analfabeta"

[...] Anche dice talvolta, se mi mostro
taciturno: "Tu hai l'anima ingombra.
Tutto è fittizio in noi: e Luce e Ombra:
giova molto foggiarci in modo nostro!

E se l'ombra s'indugia e tu rimuovine
la tristezza. Il dolore non esiste 
per chi s'innalza verso l'ora triste
con la forza di un cuore sempre giovine.

da "L'amica di nonna Speranza"

[...] Non vuole morire, non langue il giorno. S'accende
più ancora
di porpora: come un'aurora stigmatizzata di sangue.

si spenge, infine, ma lento. I monti s'abbrunano in coro: 
il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.

da "Invernale"

[...] Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti...

da "Della Testa di Morto - Acherontia Atropos - "

Nelle sere illuni
fredde stellate di settembre
quando il crepuscolo già cede alla notte...

da "La signorina Felicita ovvero la felicità"

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.


"Cocotte"

IV

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono 
state... 
(...) Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacerò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.


ALESSANDRO PARRONCHI (Ermetismo)

"Tacciono i corvi"

Il tempo s'è rinchiuso
non è da sperare che prima di sera l'orizzonte rischiari.
Ma è finito il comizio, più nessuno contesta all'erba
di crescere sui greti e dare all'anno il suo nuovo colore,
in silenzio le strade risalgono al borgo che vela il capo nella nebbia.
Tacciono i corvi mentre in cuore si sveglia
in un rimescolio dolce la voluttà.


GIOVANNI TESTORI

"Tutto puoi dire di me"

T'ho amato con pietà
con furia ti ho adorato,
t'ho violato, sconciato,
bestemmiato.
Tutto puoi dire di me
tranne che t'ho evitato.


ALDO PALAZZESCHI

"Riflessi"

Rasentano piano gli specchi invisibili
avvolti di nebbia, non lasciano traccia
nell'ombra, gli specchi non hanno riflessi,
non cade su loro dell'ombra una macchia
neppure la macchia dell'oro.
Un raggio vien fuori dal centro
di luce giallastra.
Sul raggio rimangono lievi, impalpabili,
impronte sfumate di luce, di nebbie: riflessi.


ANGELO BARILE: "Il peccato"

Non l'udivamo respirare calmo a noi,
dapresso bocche giunte, il sangue in avvio per meandri
al dolce abisso, non ne udivamo frangere la voce.
Ci toccò ch'eravamo melodia svenata
grido, che cade trafitto, e le complici bocche
erano estuanti all'amarezza,
tornavano labbra, tra poco dissonavano.
Allo foce stagnò l'istante,
il silenzio sciacquò in quello il mare,
inazzurrò la stanza,
battè alla sponda del nostro origliere:
a noi notturni, maculati
infanzia novità della terra che respira,
a noi nemico paradiso.
L'anima con i gigli grevi si destò
dei padri sulle rive fuggite, e le sentimmo ritremare.
Cadevamo, due pietre,
per quella prima purità a foreste e nascondigli d'alghe.
Sorelle, al nostro oscuro tremito,
sommerse chiome smarrite sul tuo volto d'Eva.


ELIO FILIPPO ACCROCCA

"A due voci"

Che altro vuoi da me Disperazione?
Hai colpito nel segno, Crudeltà.
Hai colmato il bicchiere, Solitudine.
Mi stai nutrendo, Ira.
Sono tuo pasto, Follia.
Mi avvolgi nel tuo manto, Bestemmia.
Integralmente mi percorri, Orrore.
Abiterò in te, Vuoto.
Mi hai piegato, Nulla...
Sei finalmente appagata, Negazione?
Sarò sempre tuo ospite, Tenebra?
Mai più risalirò da questo Abisso?

... Padre nostro non so dove tu sia:
ti chiedo solo un grammo di speranza.


ARTURO ONOFRI (Ermetismo)

"Vincere il drago"

Ma qui ti mando il grido del mio sangue
ch'agita la foresta della veglia.
Oh mio rosso cavallo...
O conscia anima angelica,
O racchiusa crisalide
il tuo guscio era un morire
della tua luce entro la notte oscura
d'un antico tuo male inconosciuto.
Or che tu stessa infrangi
la parete del tuo passato,
irromperà la morte in quel tuo chiuso
e sveglierà dal cupo del sonno antico
un angelo primevo che aprirà le sue grandi ali di fuoco,
rari all'amore che ti volle vita.


GIORGIO VIGOLO (Ermetismo)

"Circe"

E chissà che questa non sia la morte,
pallide strade perdonsi nell'erba stridula
al vento della sera fredda:
alberi non vedo, né casolari.
Ma solo il circo dei monti deserti
che orla ancora un tramonto solo.
A mano a mano che inoltro mi spoglio d'umanità
nel desolato vespero.
I prati, il cielo, mi vuotano l'anima
e mi sento lentamente
svenire dalla solitudine che m'assorbe.
Non resisti alla gran forza dei monti che ti si bevono
come una pioggia e i ricordi scendono sotto terra,
che nome avevi adesso non sai più.
Tremendi i colori della campagna
quando consumano i tuoi sensi umani
e a poco a poco ti mutano in terra.
Quando ti fanno diventare prato,
distesa d'acque,
orrore di pietraia.
E non ti puoi più alzare in piedi e chi amare.
Solitudine, hai vinto.


"I fantasmi di pietra: corale"

La musa della morte mi s'inghirlanda di rose di fuoco
e offre il ramo d'oro al re dell'ombre perchè mi lasci
passare di là. Sento che la mia musica
è alla fine, ma ogni lutto l'anima si sgombra
e il canto spiega tutto
stese l'ali a un sole che illumina dal fondo.


ADRIANO GRANDE

"Coro sul lete"

Ora sappiamo il nulla di ogni cosa:
ma per vivere ancora accetteremmo
d'esser la pietra su cui l'acqua scorre,
il fango ove l'insetto si riposa,
l'erba sulle rovine di una torre.

"Ghironda"

Nella notte la fratta e la giuncaia
han voci di ghironda, acute strida meccaniche,
confuse a lagni umani.
Escono come da un antro teatrale dalla valletta concava
che accoglie la tramontana
e ne imprigiona il gelo.
La superficie dello stagno è immota,
non ha più sguardo. è come la pupilla d'un cadavere,
e in tanto alberi ed erbe vibrano sino alle radici,
sino alle fibrille. Viene di lontano,
dalle alte nevi. I colli e le pianure,
le regole, le strade nere e grigie,
e i sentieri ancor verdi,
tutto fustiga, tutto l'inverno castiga.
Giudizio, immute e senza scampo,
punizione della natura spensierata.
è simile, ohimé, questo rovaio alla vecchiezza dell'uomo.
Allora che tepor cercando ai ricordi si volge: e in essi
incontra la giuncaia e gli sterpi dell'errore,
la voce di ghironda dei rimorsi.


ADOLFO DE BOSIS

"I Notturni"

Il tramonto disfiora sue magiche
ghirlande lento; e una dolce spande
malinconia per l'ora.
Nuotano i sogni ancora a elisie lande...?
Ma l'anima il pure grande tuo bacio
O Notte, implora.
Ben tu venga, O Possente Notte!
L'augusta calma piovi a le cose ed elle
bevan l'oblio fluente dal sen tuo vasto.
E l'alma vigil, con le stelle
Quali rive quiete la nostra anima corse placida?
O questa è forse la pigra acqua d'un lete?
Quali or dunque segrete virtù piovver da l'orse fatali?
O chi mai forse l'onda a l'oscura sete?
Notte, ahimé, che improvviso brivido,
fuor da l'urna gelida, effondi! E in lente spire
l'antico riso tenue, 
o taciturna, dai lacrimosamente.
   

GIROLAMO COMI

"La morte"

Notte velata d'aliti d'eterno:
il tempo è un sogno fermo sullo spazio che si dilata
e freme custode della crescita di un seme che sa di terra e di umanità...
Il tempo - intendo - pare intatto e fermo - zaffiro acceso nell'oscurità della notte che regna illimitatamente sulla zolla pregna di morti ansiosi d'immortalità.

"Nella memoria: oh bei paesaggi uniti"

Nella memoria: oh bei paesaggi uniti
dalle diverse età
dell'anima le aurore fra caligini argentee ed auree di fiore
hanno l'alito di giardini mitici.
....
Canti inespressi: ma di essi il tremore
(illimitato fra più pause e resse d'inviti forti d'arcane promesse) è segno e pegno di sfere d'amore.
Oh tempo che bruciando ti trasformi senza limite di stagioni e giorni di luce universale di costanti armonie accese,
di sorgivi incanti, di te nutriti e nel tuo giro immessi
ricuperiamo spiriti e sembianti della nativa effigie di noi stessi.


EUGENIO MONTALE

"Non recidere, forbice, quel volto"

Non recidere, forbice,
quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso
in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala...
Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé
scrolla il guscio di cicala
nella prima belletta
di Novembre.

"Forse un mattino andando in un'aria di vetro"

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di getto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


CAMILLO SBARBARO

Una mortale pesantezza
il cuore m'opprime
inerte vorrei esser fatto.
Come qualche antichissima
rovina e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutare i passi, i cieli,
all'alba colorirsi, scolorirsi
a sera....


Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata


Forse. Ma il gesto che ti incise dentro
io non ricordo, e stillano in me dolce
parole che non sai di aver detto


ARDENGO SOFFICI

"Rallumina il viso disfatto dalle antiche stagioni..."

Navigo nell'assoluto mia patria e vorrei dimenticare il corpo che sempre è con noi. La forma della libellula matematica che è il mio destino.


ANTONIA POZZI

"Lieve offerta"

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s'accendono al
sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia.
Vorrei condurti con le mie parole
per un deserto viale, segnato
d'esili ombre -
fino a una valle d'erboso silenzio,
al lago ove
tinnisce per un fiato d'aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l'acqua non profonda.
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un
ponte,
sottile e saldo,
bianco sulle
oscure voragini
della terra.


MARIO NOVARO

"Quante volte ancora"

Questi pini,
questi cipressi,
e le rose, come sangue
rosse, quante volte ancora
quando io più non sia,
stupita guarderà la Luna,
mute cennando
guarderan le stelle,
sul colle che solo restava
con me nel silenzio notturno a meditare!


MARINO MORETTI

"La Domenica di Bruggia"

è, sì, in questo crepuscolare giorno
che l'anima prova
il bisogno di una nuova
solitudine e d'andare...


Non ode. Volta. Pallide inquiete mani.
La testa fra le due candele.
Anima dammi un poco del tuo fiele
un poco del tuo male, anima: ho sete.


UMBERTO SABA

"Prima Fuga"

Nero come là dentro è nel mio cuore;
il cuore dell'uomo è un antro di castigo.


Su CORAZZINI vedi: http://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/sergio-corazzini.html


GIOVANNI PRATI: Nato a Campomaggiore, presso Dasindo, Trentino, nel 1814 e morto a Roma nel 1884. Perseguitato dall'Austria per le sue idee liberali, si rifugiò in Piemonte, sotto la protezione di Casa Savoia, della quale cantò, in versi piuttosto retorici, le glorie insieme a quelle della Patria. è il rappresentante più noto del Secondo Romanticismo.
Piacque molto ai contemporanei, per la facile musicalità delle sue rime; alla fine della sua vita, però, si vide oscurato dalla fama del Carducci.

"E continuo..."

In questo sonetto, della raccolta "Psiche", ritroviamo ancora un paesaggio notturno così caro ai poeti romantici. Il silenzio si diffonde nella selva e un lieve bisbiglio, simile a tenue lamento di anime del Purgatorio, viene dalle foglie. Al poeta sembra che sia la voce del tempo infinito che viene a lui insieme a quella dei suoi cari scomparsi e l'anima sua si placa, sebbene per poco, in quel mondo misterioso che lo distoglie dalla realtà triste del presente.

Quando la sera, senz'ala di vento,
per la tacita selva si diffonde
lieve un bisbiglio, e par sott'ogni fronde
esser ascosa un'anima in lamento (1) 
i' me ne vo solingo e a passo lento
per quel rumor che viene i' non so d'onde,
e ciò ch'ei mi palesa o mi nasconde
somiglia a ciò che di più arcano io sento. (2) 
L'ombra, il tempo infinito e i suoi misteri,
con l'amore e il dolor di ciò che sparve,(3) 
odo tutto nel suon di quelle foglie.
E continuo a formar passi e pensieri:
e questo mondo, (4) foss'ei pur di larve,
per poco all'altro, ch'è peggior, mi toglie. (5) 

1) Un'anima del Purgatorio che mandi tenui lamenti 
2) Ai sentimenti vaghi e misteriosi che si agitano nell'anima mia.
3) Dei morti a me cari
4) Infinito e pieno di mistero, anche se formato di fantasmi vani 
5) Mi fa dimenticare, sebbene per poco, la realtà dolorosa nella quale vivo.


"Silenzio"

è uno dei sonetti più sereni del Prati; è notte alta: un vasto silenzio si diffonde nel cielo illuminato dalla luna sorgente, sul mare sconfinato e calmo, sui monti immersi nel buio, sul camposanto dove i morti dormono il loro sonno lungo, in attesa del giorno del giudizio. Il poeta accoglie assorto le parole misteriose che esso mormora alla sua anima pensosa.

Il silenzio del ciel, quando v'ascende
il notturno e solingo astro d'argento;
il silenzio del mar, quando si stende
sconfinato, senz'onda e senza vento;
il silenzio del'alpi, ove né armento
bela, né foco di pastor s'accende;
e il silenzio del verde, (1) ove ogni spento (2) 
trae la gran notte, e il suo mattino attende:
un'infinita novità di cose (3) 
va mormorando nell'amara valle
questo silenzio all'anime pensose.
E in compagnia di questo, (4) andar sovente
piacemi per lo mio romito calle, (5) 
mentre aggrada far altro a l'altra gente.

1) Del camposanto, cioè coperto sempre di verde.
2) Dove tutti i morti [ogni spento] dormono il sonno della morte [la gran notte], aspettando la risurrezione [il suo mattino]
3) Il soggetto è "questo silenzio": questo silenzio suggerisce in questa nostra terra, amara valle di lacrime, tanti sentimenti nuovi alle anime pensose.
4) è sottointeso "silenzio"
5) Per il mio solitario cammino     

Shakespeare (10): il simbolismo esoterico del "Macbeth"

Il Simbolismo Esoterico del Macbeth, nelle figure delle Tre Streghe e di Lady Macbeth

Tratto da


Il Macbeth si suppone scritto tra il 1603 e 1606, e fu rappresentato alla corte di Giacomo I nel 1606. Il materiale leggendario su cui è fondata la trama si ritrova in diverse varianti nei cronisti scozzesi. Fonti del dramma sono due sezioni delle "Cronache" (1587) e forse anche passi della "Rerum Scoticarum Historia" di George Buchanan; i due songs accennati nell'In-Folio e poi stampati nell'In-Quarto del 1673 appaiono in un dramma di Thomas Middleton "La Strega" ("The Witch", scritto tra il 1609 e 1616)
Coleridge capì per primo l'importante funzione di questo rapido prologo, di cui disse che "fa risuonare la nota dominante di tutto il dramma"; le streghe, associate al Maligno e all'orripilante, ritengono che l'orrido sia bello e il bello (anche morale) lo respingono come schifoso.



La scena appare oggi essenziale alla tragedia (*), di cui annuncia il nucleo ossimorico, il tema oracolare, il doppio tempo umano e numinoso.
Occorre precisare che nel testo le tre streghe non sono delle proiezioni di Macbeth; sono esseri oggettivi, e difatti Banquo le vede così come Orazio vede il fantasma nell'Amleto. Shakespeare le rappresenta con la tipologia del folklore, proprio come quelle streghe nordiche che nella fonte incontrano a Forres i due condottieri dell'esercito di Duncan. E già Holinshed riportava "l'opinione comune che queste donne erano o le Sorelle Destinatrici (Weird Sisters) cioè si potrebbe dire le Dee del Destino", oppure delle ninfe o delle fate (**), dotate di saggezza profetica grazie alla loro scienza necromantica, perché ogni cosa si attuava così come esse avevano detto".
W. Farnham ricorda che "hag" e "witch" potevano indicare sia la persona che ha fatto un patto col Demonio sia anche un demone; piuttosto che semplici streghe, le Sorelle Fatali, legate ad Ecate [a sua volta Triplice. Nota di Lunaria], appaiono come emissarie del destino.
Esse si limitano a comunicare a Macbeth le proprie profezie, senza mai invitarlo a realizzarle e senza mai dare istruzioni.

Il loro numero rimanda alla Trinità delle Moire o Parche (e in effetti Gavin Douglas, traducendo nel 1553 il terzo libro dell'Eneide rende con "Weird Sisters" le Parcae virgiliane).
Kittredge nella sua edizione di Shakespeare commenta che esse sono delle Norne, cioè "grandi potenze del Destino, grandi minestre del Fato: hanno determinato il passato, governano il presente, non solo predicono ma stabiliscono il futuro."
Hegel nella "Fenomenologia dello Spirito" accosta all'oracolo greco le ambigue Sorelle del Destino, che spingono al delitto con le loro ermetiche previsioni: ciò che dicono le potenze oracolari non è il modo in cui appare la verità (cioè la pienezza della sostanza) ma un segno ammonitore dell'inganno, dell'irriflessione, della singolarità e accidentalità del sapere umano, della limitatezza della coscienza.

Il numero 3 evocato all'inizio


si dissemina magicamente nella storia: tre profezie, tre apparizioni, tre assassinii...

Infine, una nota sul termine "The Weird Sisters": il termine "weird" è quello dell'antico inglese "wyrd" e del medio inglese "werd" che significano "destino". Holinshed le chiama appunto "Le Tre Dee del Destino" ("The Goddess of Destiny")


Nota di Lunaria: la Trinità NON è un concetto cristiano e non è neppure esclusivamente maschile. Comunque, è sempre buona cosa ripetere ciò che i cattolici ignorano:







Ma comunque, se pure volessimo dare credito ai cattolici e alla loro arrampicata sugli specchi per giustificare un concetto che cozza totalmente con l'idea purista monoteista, resta il fatto che il concetto di Trinità è presente pure in altre religioni. Basta vedere l'Induismo, che ha ben due Trinità!, una tutta maschile e l'altra tutta femminile!


N.B: ovviamente Brahma è un dio vecchio con barba... ma guarda un po'! Anche il dio cristiano è vecchio, con barba! Solo che Brahma viene prima del dio cristiano...



 Anche l'idea di "Tre Donne tutte assieme" è stata scopiazzata dal cattolicesimo; vedi le "tre marie"


 le "tre donne al sepolcro"...



Peraltro, c'è pure questa curiosa trinità in odore di eresia: non si sa se sia maria o lo spirito santo...


Altra Trinità femminile molto amata nell'Induismo è Tripurasundari/Lalita


senza contare che hanno pure una Dea Bambina, una Dea adolescente e una Dea Anziana
(peraltro, la più temuta e potente del pantheon indù!)


Agli induisti, piace così tanto questo concetto di "Dei aggruppati" che un sacco di santini riportano Dualità, Trinità, Quadrità o Settità di Dee e Dei...
 

La Trinità era già presente nel periodo vedico:




Ma vabbè, i cristiani credono di averla inventata loro, la Trinità...
Certo, certo, come no :P


(*) Nota di Lunaria: Shakespeare associa le streghe alla tempesta perché nel 1400/1500 era opinione comune che le streghe facessero piovere o grandinare, dominando gli eventi atmosferici. Vedi per esempio:



Per altre fonti utili, vedi questo post: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/08/shakespeare-9-giacomo-i-la-stregoneria.html

(**) Leggenda ancora presente nel folklore zigano; vedi: le Ourmes e le Kechali
http://intervistemetal.blogspot.com/2018/08/irlanda-3-il-sidh-irlandese-e-il.html
 http://intervistemetal.blogspot.com/2017/11/rom-musica-esoterismo-credenze.html

UN ALTRO COMMENTO ALLE STREGHE

Innumerevoli sono, nell'opera di Shakespeare, i personaggi  soprannaturali o aventi rapporto con le potenze soprannaturali:  maghi come Prospero, fate come Mab o Titania, spiriti folletti come Ariele, fantasmi come il padre di Amleto appaiono dotati di non minore plausibilità e verità poetica di quanta ne abbiano i personaggi reali, usciti dalla vita quotidiana. Ma fra tutti questi esseri misteriosi, nessuno ha presa sulla fantasia dei lettori quanto le tre "favellatrici oscure", le streghe che incontrano Macbeth in una remota landa della Scozia, battuta da venti tempestosi, e gli predicono la sua futura grandezza, e più tardi la rovina. è stato detto con insistenza che la tragedia del "Macbeth" fu scritta in onore di Giacomo I di Stuart, e che i personaggi delle streghe furono introdotti in omaggio all'interesse di studioso che il sovrano manifestava nei confronti della magia nera: era autore di un trattato di demonologia. In realtà, non soltanto Giacomo I, ma tutto il pubblico credeva nell'esistenza delle streghe. Le cantilene che esse intonano e persino il loro aspetto fisico ("figure tutte grinzose, selvagge nel vestire... il dito rugoso sulle smunte labbra") sembra siano state prese da un libro che circolava in Inghilterra sul fenomeno della stregoneria. Quanto alla minaccia che la prima proferisce, di recarsi ad Aleppo  "navigando in uno staccio", per punire il marinaio la cui moglie l'ha trattata con disprezzo, sembra che lo staccio, permeabile all'acqua da tutti i buchi, fosse il mezzo favorito di navigazione per le streghe. Giacomo I credeva fermamente che non meno di 200 streghe imbarcate su altrettanti stacci, avessero tentato con ogni mezzo di ostacolare il viaggio di sua moglie, Anna di Danimarca,  verso le coste britanniche. Se Shakespeare condividesse queste idee non si sa; ma è certo che le sue streghe hanno una singolare forza di suggestione. Alle tre "fatali sorelle" è assegnata una parte di  capitale importanza: senza le loro profezie non si scatenerebbe la selvaggia ambizione di Macbeth; ed è ancora il loro vaticinio che gli svela l'avvicinarsi della fine. Nel corso dei secoli esse sono state interpretate nelle più varie maniere: un tempo secondo la tradizione veristica, come tre vecchie cenciose e sinistre; più  tardi come voci senza volto e senza corpo; oppure trasformate in  streghe nere, esperte di riti voodoo.Il "Macbird" di Barbara Garson, satira contro il presidente Johnson  e la famiglia Kennedy, ha mutato sesso alle streghe, facendone tre agitatori politici: ogni epoca ha sempre le sue streghe e i suoi stregoni.


E ORA.. LADY MACBETH!




La scena dell'incontro tra Macbeth e la sua donna catalizza il passaggio dall'incertezza dell'eroe alla sua ferma accettazione del proprio destino. Nell'ombra di Lady Macbeth sono state viste le bibliche Eva e Lilith (1) ma i modelli diretti della "donna di ferro" mascolina e spietata sono certamente nella tragedia greca, da Clitemnestra a Medea (2) e all'Elettra di Euripide.
C'è da notare che Lady Macbeth nel proclamare la propria giustizia (Dike) e nel farsi strumento di quel destino che lei chiama "aiuto metafisico" ci dà un'immagine di Macbeth che mal si concilia con quella già formatasi: qui il feroce capo-clan "rivela" una natura intima che sarebbe priva di malizia, legalista e timida pur nella sua ambizione: una natura che non sospettavamo di certo.
Infine, potremmo fare notare che prima e dopo che Macbeth e Lady Macbeth commettano gli omicidi, per la notte risuonano strida inquietanti di animali: il corvo, la civetta, i grilli.





 Il fatto che Lady Macbeth noti il corvo (e la civetta) e poi citi il sangue, lascerebbe intendere un'ipotesi suggestiva: Shakespeare potrebbe essersi ispirato a Morrigan, la Dea irlandese della battaglia e del sangue, legata ai corvi, per il personaggio di Lady Macbeth?


Avevamo già visto che per le Tre Streghe, Shakespeare si era ispirato alle Parche e alle Norne: forse anche Lady Macbeth allude a Morrigan. Si ricordi che era una Dea Triplice. La civetta, comunque, era associata non solo a Lilith, ma anche ad Atena (e quindi, la Sapienza); oggigiorno la troviamo ancora associata a Lakshmi, come simbolo di bellezza e fortuna:


Lilith, inoltre, è proprio una Dea civetta:



Gli induisti, comunque, hanno associato gli uccelli anche ad altre Dee; potrei riportarne una decina, mi limito solo a queste:


Dhumavati (la Dea più potente e più temuta del pantheon indù, associata ai corvi...)



 Ma c'è di più: se Morrigan è solo "suggerita", Ecate è nominata espressamente e compare Ella stessa nella tragedia, prima citata da Macbeth, poi in persona nell'atto terzo:



 
Avevamo già visto che le Tre Streghe "preannunciavano" proprio la Triplice Ecate







 Scontato dire che nell'Induismo esistono Dee triplici...

Insomma come si è visto, alcuni aspetti di Ecate si ritrovano ancora nelle tantissime Dee induiste...

Shakespeare fa apparire Ecate come ipostasi ctonia di Artemide, associandola alla "pallida luna"
e agli oracoli e alle profezie delle streghe. (vedi l'atto quarto o la scena quinta dell'atto terzo);
è significativo che l'Autore la citi anche nel "Re Lear", in bocca al protagonista, per diseredare Cordelia. Gli omicidi si compiono sotto lo sguardo di Ecate che assiste alla scena messa in atto da Macbeth, perché Ella è anche Mater Terribilis, come Coatlicue e Kali: da Lei la Morte, da Lei la Vita.


  (*) Nota di Lunaria: in realtà, Lilith è una Dea sumera demonizzata dagli ebrei. Vedi



probabilmente era una Dea della giustizia ultraterrena, simile a Maat, ancor prima che diventare un'entità ambigua del vento; peraltro, il vento, nel contesto semita, aveva un simbolismo complesso, che ora sarebbe lungo approfondire... infatti porta il mano l'emblema regale, già portato in mano da Dee e re




Una sorta di primordiale Ankh, chiamato "Anello Schen". "L'anello che la figura in ginocchio tocca con la mano non ha né inizio né fine e personifica per questo l'immensità. Come quasi tutte le rappresentazioni di rotondità viene ascritta al disco solare. Questo tipo di anello, le cui estremità erano unite come una corda con un nodo, si chiamavano anelli magici e dovevano difendere contro le malattie e altre negatività."

Brano tratto da:


 A sua volta, l'Ankh rappresenta il grembo femminile o anche l'unione dei genitali maschili e femminili.


Comunque, è un simbolo di vita ed eternità, non certamente di morte. Se Lilith fosse stata una Dea del male, perché associarle tale simbolo?

Nota Bene: la Dea Pattini stringe un paio di anelli, e la posa ricorda molto Lilith:


 (**) Curiosamente, anche nella bibbia. La figura di Giaele, che uccide Sisara, "trapanandogli la testa con un surrogato del pene": il grosso chiodo


Comunque, si tenga presente che la vicenda può essere intesa anche in senso erotico, come suggeriva Jonathan Kirsch:


prima Sisara possiede la donna - coito o stupro - penetrandola con un vero pene; poi lei si vendica penetrandolo alla testa con un surrogato di fallo: il chiodo.
Probabilmente la soglia della tenda e l' "intima soglia femminea" (vagina) nel quale l'uomo penetrava, in entrambi i casi, nel simbolismo semita, vennero a coincidere. Peraltro, anche nel contesto islamico, il "velo", inizialmente "cortina" nella casa, coincide poi con il pudore (e quindi il corpo, e soprattutto, la vagina) della donna.