"Novembre" Poesia di Domenico Oprandi

Cipressi nebbiosi
stillanti umidità,
collane di requiem
sospese nell'aria,
crisantemi piovosi,
gocciolanti
sulla terra umida
e grassa,
sul marmo freddo
e impenetrabile.

La Tomba di Vittorio Alfieri



Antonio Canova è l'autore del monumento sepolcrale fatto erigere nel 1810 dalla contessa Luisa Stolberg d'Albany in memoria del conte Vittorio Alfieri (1749-1803). Il grande tragico italiano, nel secolo dell'Arcadia e della retorica neoclassica, aveva riscoperto, rimeditato, e fatto rivivere nelle sue opere, il mondo e gli eroi antichi, non come un paradiso per sempre perduto, ma come una sorgente di forze nuove per nuovi destini, contribuendo così a maturare il tema dei Sepolcri, e la filiale riconoscenza del Foscolo.



























Ugo Foscolo: commento alle Grazie, due "Lettere" e i sonetti


Info tratte da





In proseguimento e, almeno nelle intenzioni dell'autore, in approfondimento della linea dei "Sepocri" (http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2013/05/dei-sepolcri-i.html) avrebbe dovuto collocarsi l'altro carme "Le Grazie" cui il Foscolo pensava almeno fin dal 1802, che portò parecchio innanzi nel 1812-14 e che sperò sempre di terminare, rassegnandosi alfine a lasciarlo incompiuto, con notevoli incertezze circa l'ordinamento definitivo. è un'altra interpretazione poetica della storia dell'umanità vista attraverso il suo incivilimento, di cui le Grazie sono il simbolo: però la salda compattezza ideale dei "Sepolcri" qui manca, rispecchiando nella stessa frammentarietà dell'opera taluni dubbi dell'autore; anche l'espressione poetica si fa diversa, più levigata e sottile e scavata quasi a captare le vibrazioni più recondite dei suoni, e lontana dalla magnanimità (non magniloquenza) dei "Sepolcri". Il giudizio sul carme è reso più difficile dalla sua condizione di abbozzo, dalla presenza di un mare di varianti e di rifacimenti, dagli equivoci che possono nascere in noi leggendo i frammenti compiuti come poesie a sé stanti, quindi col fascino romantico della rovina, risultato a cui il Foscolo non mirava di sicuro (eppure proprio la frammentarietà delle "Grazie" fu uno dei motivi del loro revival tra i critici e i poeti del '900). D'altronde, anche nell'asserire che il Foscolo non mirava al frammento, occorre una certa cautela, perché senza dubbio il carme fu lavorato per frammenti destinati poi a essere collocati e raccordati, e a un certo punto Ugo si accorse che le forze non gli bastavano più a tanta fatica. Rimangono quindi l'estremo tentativo di dar vita e respiro agli antichi miti, inserendoli nella storia degli uomini, anche degli uomini d'0ggi (estremamente indicative sono le allusioni politiche di cui il carme è fitto), con una ricchezza alessandrina splendida ma talvolta rischiosa, nei confronti della potente semplicità dei "Sepolcri" (il che non toglie che parecchi passi siano assolutamente mirabili, e senza meno tra le massime cose del Foscolo)
S'ingannerebbe profondamente chi assumesse il Foscolo dell'"Ortis" o quello dei "Sepolcri" a paradigma immutabile della personalità foscoliana, assai più profonda e complessa di quanto comunemente si creda. C'è nel Foscolo infatti tutto un coté psicologico inatteso, in un atteggiamento apparentemente umile e dimesso, in realtà attentissimo al mutare della psicologia umana e alle umane debolezze, contemplate con indulgenza non servile ma consapevole. è il lato del carattere foscoliano che già figura in certi abbozzi del 1801-2 e che si è convenuto di chiamare didimeo in omaggio al personaggio di Didimo Chierico nel quale il Foscolo amò ritrarre se stesso in appendice alla sua traduzione del "Viaggio sentimentale" di Sterne pubblicata nel 1813.
La passione civile e amorosa, le incertezze, le polemiche, i dubbi, le malinconie profonde, la galanteria e le ore solari dell'animo umano figurano tutti in quelle pagine, con prevalenza dell'alternanza Foscolo-Ortis e Foscolo-Didimo, due personaggi egualmente veri pur nella loro diversa realtà.




"Il mio nome significa luce (fos) e bile (cholos)... di volto non bello ma stravagante, e d'una aria libera, di crini non biondi ma rossi, di naso aquilino e grosso ma non picciolo e non grande... nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio: infermo spesso per malinconia, e talvolta feroce, e insano per ira..." (dalle "Lettere")


Io odo la mia patria che grida: "Scrivi ciò che vedesti, manderò la mia voce dalle rovine, e ti detterò la mia storia. Piangeranno i secoli su la mia solitudine; e le genti s'ammaestreranno nelle mie disavventure. Il tempo abbatte il forte: e i delitti di sangue sono lavati nel sangue."

Di Weisse Allemano (1) - La Tempesta

Sparve il sereno, o Doride,
dal ciel, già mugge il vento
fra gli alberi, e succedono
silenzio, orror, spavento.

Tutti gli augei si turbano
entro i lor nidi ascosi,
ove i concerti obbliano
de' canti armoniosi.

Sol vedesi la rondine,
priva de' suoi compagni,
rader la superficie
de' paludosi stagni.

Vieni, Dori, vien: cerchiamoci
salvar dalla tempesta,
ve' quante rose chinano
la tenerella testa.

Sopra di loro il turbine
tetre minacce ha sciolte,
sembra che solo bramino
esser de tue man colte.

Come all'aspetto tremano
di lor vicina morte,
le cogli, o Dori tenera,
pria di sì 'nfausta sorte.

Spiri la gaia porpora
delle lor foglie lievi
del seno tuo purissimo
su le ridenti nevi.

Ecco dal nembo torbido
in parte siam sicura,
qual sotto questa pergola
si temerà sventura?

Felicitade amabile!
In questo asilo ombroso
ci attende di bei grappoli
il succo delizioso.

Fiero Aquilone, or l'impeto
del tuo furor qui puoi
spiegar, e al sen di Doride
torre anche il vel se vuoi.


(1) Il poeta tedesco Christian Felix Weisse nacque nel 1726 e morì nel 1804. Allemano sta per "alemanno", cioè tedesco.

Una mia fotomanipolazione per celebrare Foscolo...



Qui alcuni dei miei versi preferiti:

"Sermone Primo" (1805)

Muoiono i dardi tuoi sul gelo antico,
d'atlante, e dove inviolate guarda negli antri
le sue prime Ombre la Notte.

"Le Grazie" (1802)

E dopo breve dì sacri alla Morte,
vagavan tutti colle belve all'Ombra,
della gran selva della terra: e gli antri
eran tetto, e i Sepolcri eran Altari.


"Ai Novelli Repubblicani" (1797)

Quando all'Orror di Notte taciturna
del tuo spento fratel l'immane spetro
coi crin su gli occhi,
e sanguinoso e tetro
surse del tebro dall'incognit'urna
a lampeggiar di livido baleno
voce dall'imo seno
trasse e gridò.


"In Morte di Amaritte - Elegia - " (1796)

Qui sorge un'urna e qui in funereo manto,
erran le Grazie, e qui echeggiar s'ascolta
flebili versi, fioche voci, e pianto.

E di cipressi sotto oscura volta
cupa malinconia muta si aggira
coi crin sugli occhi, e nel suo duol raccolta.

Qui gemebondo a lagrimar si mira
vate canuto su la sorda pietra,
e ora ammuta, ora geme, ed ora sospira.

Trista è così de' Morti la campagna
allora che Young fra l'Ombre della Notte
sulfato di Narciso egro si lagna.

E al suon di sue querele alte interrotte
Silenzio, Oscurità, s'alzan turbati
dal ferro sonno di lor ampie grotte.


"Le Rimembranze - Elegia - " (1796)

E questa è l'ora: mormorar io sento
co' miei sospiri in suon pietoso e basso
tra fronda e fronda il solitario vento


"Tieste" (1797)

Atto Primo. Scena I

Erope: D'empi rimorsi oggetto, infausto,
       caro pegno d'amor, de' miei delitti
       O negra, O spaventosa imago!
       O Notte, Orrida Notte di profanato amor!

Atto Terzo. Scena IV

Erope: Fra poco, sì, morrommi (= morirò),
       e d'ogn'intorno starotti (= ti starò)
       Ombra d'Orrore:
       in mezzo a' cupi più deserti
       recessi io seguirotti (= ti seguirò)  
       Là tronca i giorni tuoi, là seppellisci
       una trista memoria, e là confina
       il vituperio delle genti.

Atto Quarto. Scena I

Tieste: L'avrai... fumante. Orrido arcano
        è ormai svelato: insidia di re vil
        qui mi trasse: ebben, se l'abbia
        quella, ch'ei vuol, Morte.

Tieste: Quest'è Notte di pianto,
        E a noi di Morte, O Pace.
        Odi, abbandona me al mio Furor.

Tieste: Vengo, vengo. Sangue chiedi?
        L'avrai. Quelle grand'orme
        che tu stampo di foco...
        Sieguo.
        Oh! Lampo! Oh! Tenebre!
        Oh singhiozzi moribondi!
        Erope... il vedi? Senti tu?
        Ma dove lo spettro è, che scortavami?
        Lo voglio, lascia, seguir.
        Tu, tu, vil, mi trattieni.


"Ricciarda" (1812)

Atto Quarto. Scena I

Ricciarda: Torgli il pugnal degg'io.
           Né ormai può salvo fuggir per or.
           Né oggi vorria lasciarmi.
           Troppa certezza ch'io scontar
           col sangue deggia il dì che gli serbo.
           I suoi pensieri ostinata possiede.
           Ed oggi io stessa quel terror (vano forse)
           io mal mio grado
           più mestamente il sento.


Scena II

Ricciarda: Orrore di Nuove Colpe, e pietà
           del suo stato a questo avel (= tomba, sepolcro)
           mi conducean tremando.


Atto Quinto. Scena III

Guelfo: O il Sangue oggi darammi (= mi darai)
        O un sempiterno pianto.
        Vinto non son se ho la vendetta un pugno.

Guelfo: In Dio, tu fidi?
        In Dio che solo a vendicarsi regna?
        Già della lunga sua Notte Infernale,
        mentre ancora alla Luce apro questi occhi,
        m'ha ravvolto e atterito.
        Orrendamente rugge intorno alla trista anima mia
        tenebroso tra i fulmini.
        Il suo nome non proferisco io mai,
        ch'ei non risponda: "Alla Vendetta Io Veglio"
        E la Vendetta nel mio petto mortale indi riarde
        poichè perdono ei nega...
        Se tu innocente sei, te Iddio,
        te muta, Insanguinata Ombra al Sepolcro mio
        manderà ad aspettarmi insino al giorno
        che sorgerò dalla polve e dall'ossa...


"Aiace" (1811)

Atto Secondo. Scena I 

Agamennone: Al dolor mio vittime voglio.
            ... ch'io possa me stesso
            almen non abborrir!
            Io tutti punirò meco (= con me).

Scena VII

Aiace: Orribile arcano io leggo
       già sul tuo volto smarrito.
       Onta resti a chi teme illustre Tomba.

Atto Quinto. Scena III

Aiace: Ben sento freddo un Orror
       nel perdere la luce del giorno:
       odo ulular i disperati miei genitor
       nel funereo deserto delle mie case...

Scena IV

Aiace: Gli ultimi passi miei verso la Morte,
       Giudice Vera di noi tutti,
       alfine libero e forte io volgerò
       la speme (= speranza) più non m'illude,
       e certa è la mia pace.
       ... O Salamina, patria mia,
       paterne are, da me non profanate mai
       campi difesi dal mio sangue
       Addio!


"Alla Sera"

Forse perché della fatal quïete    
tu sei l’imago a me sì cara vieni    
o Sera! E quando ti corteggian liete    
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete    
tenebre e lunghe all’universo meni    
sempre scendi invocata, e le secrete    
vie del mio cor soavemente tieni.     
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme    
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge    
questo reo tempo, e van con lui le torme     
delle cure onde meco egli si strugge;    
e mentre io guardo la tua pace, dorme    
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.   


"Non son chi fui; perì di noi gran parte"


Non son chi fui; perì di noi gran parte:    
questo che avvanza è sol languore e pianto.    
E secco è il mirto, e son le foglie sparte    
del lauro, speme al giovenil mio canto.    
Perché dal dì ch’empia licenza e Marte    
vestivan me del lor sanguineo manto,    
cieca è la mente e guasto il core, ed arte    
la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.    
Che se pur sorge di morir consiglio,    
a mia fiera ragion chiudon le porte    
furor di gloria, e carità di figlio.    
Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,    
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,    
e so invocare e non darmi la morte.   


"Te nudrice alle muse"


Te nudrice alle muse, ospite e Dea    
le barbariche genti che ti han doma    
nomavan tutte; e questo a noi pur fea    
lieve la varia, antiqua, infame soma.    
Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea    
ti han morto il senno ed il valor di Roma,    
in te viveva il gran dir che avvolgea    
regali allori alla servil tua chioma.    
Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste    
reliquie estreme di cotanto impero;    
anzi il Toscano tuo parlar celeste    
ognor più stempra nel sermon straniero,    
onde, più che di tua divisa veste,    
sia il vincitor di tua barbarie altero.   


"Perchè taccia"

Perché taccia il rumor di mia catena    
di lagrime, di speme, e di amor vivo,    
e di silenzio; ché pietà mi affrena    
se di lei parlo, o di lei penso e scrivo.    
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,    
ove ogni notte amor seco mi mena,    
qui affido il pianto e i miei danni descrivo,    
qui tutta verso del dolor la piena.    
E narro come i grandi occhi ridenti    
arsero d’immortal raggio il mio core,    
come la rosea bocca, e i rilucenti    
odorati capelli, ed il candore    
delle divine membra, e i cari accenti    
m’insegnarono alfin pianger d’amore.


"Così gl’interi giorni"
   
Così gl’interi giorni in lungo incerto    
sonno gemo! ma poi quando la bruna    
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,    
e il freddo aer di mute ombre è coverto;    
dove selvoso è il piano più deserto    
allor lento io vagabondo, ad una ad una    
palpo le piaghe onde la rea fotuna,    
e amore, e il mondo hanno il mio core aperto.    
Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,    
ed or prostrato ove strepitan l’onde,    
con le speranze mie parlo e deliro.    
Ma per te le mortali ire e il destino    
spesso obblïando, a te, donna, io sospiro:    
luce degli occhi miei chi mi t’asconde?   


"Meritamente"

Meritamente, però ch’io potei    
abbandonarti, or grido alle frementi    
onde che batton l’alpi, e i pianti miei    
sperdono sordi del Tirreno i venti.    
Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei    
in lungo esilio fra spergiure genti    
dal bel paese ove meni sì rei,    
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,    
sperai che il tempo, e i duri casi, e queste    
rupi ch’io varco anelando, e le eterne    
ov’io qual fiera dormo atre foreste,    
sarien ristoro al mio cor sanguinente;    
ahi vota speme! Amor fra l’ombre e inferne    
seguirammi immortale, onnipotente.   


"Solcata ho fronte"

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,    
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,    
labbro tumido acceso, e tersi denti,    
capo chino, bel collo, e largo petto;    
giuste membra; vestir semplice eletto;    
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;    
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;    
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:    
talor di lingua, e spesso di man prode;    
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,    
pronto, iracondo, inquïeto, tenace:    
di vizi ricco e di virtù, do lode    
alla ragion, ma corro ove al cor piace:    
morte sol mi darà fama e riposo.   

"E tu ne’ carmi avrai perenne vita"


E tu ne’ carmi avrai perenne vita    
sponda che Arno saluta in suo cammino    
partendo la città che dal latino    
nome accogliea finor l’ombra fuggita.    
Già dal tuo ponte all’onda impaurita    
il papale furore e il ghibellino    
mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino    
del fero vate la magion si addita.    
Per me cara, felice, inclita riva    
ove sovente i pie’ leggiadri mosse    
colei che vera al portamento Diva    
in me volgeva sue luci beate,    
mentr’io sentia dai crin d’oro commosse    
spirar ambrosia l’aure innamorate.   


"A Zacinto"

Né più mai toccherò le sacre sponde    
ove il mio corpo fanciulletto giacque,    
Zacinto mia, che te specchi nell’onde    
del greco mar da cui vergine nacque    
Venere, e fea quelle isole feconde    
col suo primo sorriso, onde non tacque    
le tue limpide nubi e le tue fronde    
l’inclito verso di colui che l’acque    
cantò fatali, ed il diverso esiglio    
per cui bello di fama e di sventura    
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.    
Tu non altro che il canto avrai del figlio,    
o materna mia terra; a noi prescrisse    
il fato illacrimata sepoltura.


"In Morte del Fratello Giovani"

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo    
di gente in gente, me vedrai seduto    
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo    
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.    
La Madre or sol suo dì tardo traendo    
parla di me col tuo cenere muto,    
ma io deluse a voi le palme tendo    
e sol da lunge i miei tetti saluto.    
Sento gli avversi numi, e le secrete    
cure che al viver tuo furon tempesta,    
e prego anch’io nel tuo porto quïete.    
Questo di tanta speme oggi mi resta!    
Straniere genti, almen le ossa rendete    
allora al petto della madre mesta.   
   

"Alla Musa"

Pur tu copia versavi alma di canto    
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,    
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva    
la stagion prima, e dietro erale intanto    
questa, che meco per la via del pianto    
scende di Lete ver la muta riva:    
non udito or t’invoco; ohimè! soltanto    
una favilla del tuo spirto è viva.    
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,    
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose    
membranze, e del futuro al timor cieco.    
Però mi accorgo, e mel ridice amore,    
che mal ponno sfogar rade, operose    
rime il dolor che deve albergar meco.   

"Che Stai?"

Che stai? già il secol l’orma ultima lascia;    
dove del tempo son le leggi rotte    
precipita, portando entro la notte    
quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.    
Che se vita è l’error, l’ira, e l’ambascia,    
troppo hai del viver tuo l’ore prodotte;    
or meglio vivi, e con fatiche dotte    
a chi diratti antico esempi lascia.    
Figlio infelice, e disperato amante,    
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,    
giovine d’anni e rugoso in sembiante,    
che stai? breve è la vita, e lunga è l’arte;    
a chi altamente oprar non è concesso    
fama tentino almen libere carte.   


















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