La Natura e la Morte nella Poesia di Giovanni Pascoli

GIOVANNI PASCOLI, IL POETA DELLE PICCOLE COSE

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Gli anni del 1880, in Italia, videro scontri tra anarchici e socialisti, che scendevano in piazza per protestare contro le dure condizioni di vita dei lavoratori; e ne seguivano tafferugli anche gravi.
Durante una di queste manifestazioni fu arrestato a Bologna un giovane studente.
Portato in carcere, fu accusato di aver partecipato ad una "manifestazione sediziosa" e di aver resistito alla forza pubblica.
Ma al processo, il giovane venne assolto.
I giudici tennero conto di ciò che aveva dichiarato un testimone d'eccezione: Giosuè Carducci, di cui l'imputato era l'allievo prediletto.
Sì, Giovanni Pascoli aveva partecipato al corteo, ma non poteva essersi comportato da violento.

La tragedia che aveva sconvolto la sua esistenza era piombata su di lui una sera d'agosto del 1867 quando ancora bambino e viveva con i fratelli in una grande fattoria di S.Mauro, in Romagna. 
Quella sera, il padre venne ucciso da qualcuno che restò impunito, e che aveva colpito l'uomo con una fucilata.
Dopo un anno, era morta la madre, stroncata dal dolore. 
Poi una sorella, poi altri fratelli... La famiglia di Pascoli era distrutta.
Pascoli non si era mai più ripreso. Pur continuando gli studi, pur avendo una brillante intelligenza, si era chiuso nel suo dolore, avendo sempre davanti agli occhi le immagini della felicità della sua infanzia, poi brutalmente troncata.
Il ricordo della sua famiglia, di suo padre, di sua madre, si fondeva, nella mente di Giovanni, con la sua casa, la sua terra, le piccole cose che avevano costituito il mondo della sua infanzia.
Anche le cose più comuni, che avrebbe dimenticato se non fosse successo quel fatto, prendevano una dimensione inconsueta: quel giorno di sole, quel fiore colto nel campo, quel canto di uccelli, prima che la mamma chiamasse per cena...


Fu così che nacque "il poeta delle piccole cose" , che tributava le cose piccole e più umili, che a prima vista appaiono insignificanti ma che l'amore e il dolore fanno riscoprire.

è molto significativo il titolo che il Pascoli darà alla sua prima raccolta di poesie: "Myricae" (1891), parola latina che si usa per riferirsi ai piccoli arbusti comuni sulle spiagge, le tamerici;
la parola è ripresa da un verso di Virgilio (Egloga IV, 2: "Arbusta iuvant, humilesque myricae") posto come epigrafe all'inizio della Raccolta. 
Il Poeta utilizza il termine "Myricae" per evidenziare un lato umile della sua vena poetica, ispirata alle "piccole cose" e non ai grandi temi pomposi e vanesi.
("Le myricae sono basse, le più terra terra, povere pianticelle. 
Ma Virgilio le amava e ne faceva l'immagine dei suoi primi canti"). 

Gli ideali del socialismo, conosciuti dal Pascoli nella sua prima giovinezza, gli fecero balenare l'idea di una fratellanza universale di tutti gli oppressi e sperò di sciogliere il gelo della sua solitudine nel calore della lotta comune; ma il disgusto per le intemperanze dei facinorosi e l'avvilimento per l'esperienza del carcere, lo riportarono all'isolamento: si sentiva segnato dal dolore, vittima di una persecuzione del destino alla quale era convinto fosse inutile opporsi.
Ma lentamente, il ragazzo diventava uomo, anche se in lui sarebbe sempre rimasto "il fanciullino" ed era la Vita stessa che lo spingeva ad andare avanti.
Bisognava andare avanti, lavorare per gli altri familiari, fare qualcosa.
Si laureò in lettere nel 1882, iniziando la carriera d'insegnante senza ambizioni di carriera, mirando solo allo stipendio per mantenere i suoi cari.
Tuttavia, percorse i gradini della professione, e nel 1906 divenne professore ordinario di letteratura italiana all'Università, succedendo al suo maestro Carducci.

Giovanni Pascoli, quest'uomo timide e mite, grande poeta, era anche uno studioso di letterature classiche e la sua conoscenza del latino e del greco erano eccezionale e per questo vinse dei primi premi alle gare annuali di cultori di lingua latina, rivelandosi il più grande poeta latino dei tempi moderni.

Visse gli ulti anni tra Bologna e Castelvecchio di Barga, dove si era comprato una villetta e una vigna.
Non ebbe mai una sua famiglia; fedele compagna della sua vita fu la sorella Maria.
Morì il 6 aprile 1912.

Cronologia delle opere:

1891: Myricae, ispirato ai ricordi familiari e campestri
1897: Primi Poemetti, dedicato all'amore per la natura e i campi
1903: I Canti di Castelvecchio, nel quale Pascoli vede la sua tragedia non più come un fatto personale ma come parte della grande tragedia umana.
1906: Odi e Inni, dove celebra le glorie italiche
1909: I Nuovi Poemetti

Ricordiamo:

Le Canzoni di Re Enzo, ispirate alle leggende del Medioevo
Poemi del Risorgimento
Poemi Omerici
Poemi Conviviali, ispirati alla Grecia Antica.
Carmina, composizioni in latino
Scisse anche alcuni volumi di critica letteraria.




 
ALTRO APPROFONDIMENTO SU PASCOLI

Frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane, ricordi, rimpianti, sospiri, speranze... questo è il mondo poetico del Pascoli di "Myricae", termine latino per "Tamerici".

Giovanni Pascoli è un poeta facile da leggere e difficile da giudicare. Salvo eccezioni piuttosto rare, infatti, le sue poesie non hanno bisogno di commenti particolari, si capisce subito cosa vogliono dire, entrano dritte nel cuore, toccano tutte le corde del sentimento, commuovono.
Le difficoltà cominciano quando si tratta di raccogliere le somme delle nostre impressioni immediate per definire il valore assoluto di ciò che abbiamo letto.
La bravura del poeta è fuori discussione: Pascoli era un mago della parola e della sintassi: vocaboli arcaici, locuzioni moderne, espressioni popolaresche.

Leggiamo insieme le prime strofe de "La Tessitrice", che alcuni critici ritengono tra le più belle liriche scritte da Pascoli.

Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'é stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?

In questa poesia, che piacque perfino a Benedetto Croce, il critico più severo che abbia avuto Pascoli, tutto è perfetto: il ritmo dolce amaro della vecchia cantilena popolare, la semplicità degli aggettivi, il progressivo delinearsi della tessitrice, la tenerezza del poeta per lei, la disperata tristezza di un passato ormai irrecuperabile e rimpianto.

E piange, e piange. Mio dolce amore,
non t'hanno detto? Non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.

Pascoli è riuscito a creare un quadro altamente suggestivo in cui non c'è un solo particolare sbagliato, ma manca lo scatto lirico deciso, imperioso, indiscutibile. La tessitrice di Pascoli non raggiunge l'altezza sublime della Silvia di Leopardi (Nota di Lunaria: che a me non è mai piaciuto, come poeta)
Rimane una cara figura legata alla biografia dolente del poeta, non assurge a valore universale della giovinezza bruciata innanzi tempo, come accade alla Silvia leopardiana.

Giovanni Pascoli si accostò alla poesia facendosi "fanciullino", cantando le piccole cose della vita quotidiana, le umili gioie degli umili, la dolcezza del paesaggio campestre; le sue liriche erano quasi sempre brevi.
Egli scrisse: "è dentro di noi un fanciullino che... scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. [...]" 
Il fanciullino di Pascoli non era frutto di un'ingenua visione delle cose, ma il risultato ultimo di una sapiente e letteratissima costruzione poetica: le sue poesie erano l'Universale visto e rappresentato al microscopio, il mistero del mondo colto in una immagine qualunque della vita quotidiana.
Si consideri il componimento "Galline"

Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
ché d'arguti galletti ha piena l'aia;
e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.
Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.

Quanta poesia il "fanciullino" ha saputo trarre dalle piccole cose che sono cadute sotto lo sguardo dei suoi occhi incantati! 

L'idillio campestre che ci appare come il punto massimo della poesia pascoliana non ci deve trarre in inganno: tutta l'opera di Pascoli è percorsa da un brivido d'angoscia, da una sofferenza che nessuna gioia può lenire perché è la sofferenza stessa di essere al mondo.
L'assassinio impunito del padre, la morte della madre, la dispersione della famiglia, posero drammaticamente e precocemente il problema del male alla coscienza del poeta. Ma Pascoli non seppe o non volle risolvere tale problema nel senso di un assoluto pessimismo (Leopardi) o nel senso cattolico di un completo abbandono nel mistero di Dio (Manzoni)

Per tutta la vita Pascoli oppose al male null'altro che la propria sofferenza individuale, la propria infinita pena di essere al mondo.
Lanciò qualche generico messaggio di solidarietà tra gli uomini, ma non canta mai la morte in quanto tale, ma i suoi morti sono le ombre care dei suoi familiari a cui anela congiungersi.
Ecco, nei "Canti di Castelvecchio" la bellissima poesia che si intitola "La voce", che rievoca la figura protettrice della mamma morta.

C'è una voce nella mia vita,
che avverto nel pianto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:
voce d'una accorsa anelante,
che al povero petto s'afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:
tante tante cose che vuole
ch'io sappia, ricordi, sì... sì...
ma di tante tante parole
non sento che un soffio... Zvanì...


Zvanì, Giovannino, è Pascoli come lo chiamava la mamma.

Successivamente Pascoli compose delle poesie molto distanti da quelle "del Fanciullino": uscirono così i "Poemi conviviali", "Canzoni di re Enzio", "Odi e Inni", ma il vero Pascoli resta quello del Fanciullino, che misteriosamente riusciva ad interrogare le stelle chinandosi stupito sulla corolla di un fiore.






APPROFONDIMENTO: CARDUCCI E PASCOLI A CONFRONTO

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Giosue Carducci (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/12/giosue-carducci.html) e Giovanni Pascoli affrontano rispettivamente in "San Martino" e in "Novembre" lo stesso tema, ma in modi del tutto opposti. Entrambi i poeti descrivono quel periodo dell'anno collegato alla ricorrenza di San Martino che evoca immagini di letizia sia perché la spillatura del vino nuovo che solitamente si compie in tale data è un momento gioioso della vita del contadino, sia perché in quei giorni si verifica la cosiddetta "Estate di San Martino", un improvviso ritorno del bel tempo nel cuore della stagione autunnale.
Un confronto tra le liriche ci consente di misurare tutta la distanza che separa i due poeti, i quali, pur essendo contemporanei, adottano diversi modi di poetare. 

Carducci, che è ancorato alle forme ottocentesche, delinea un quadretto realistico legato al momento della spillatura del vino nuovo; Pascoli, che è già proiettato verso il Novecento, vede nell'Estate di San Martino il simbolo di qualcosa di più misterioso e profondo.

Il paesaggio carducciano viene collocato in uno spazio concreto, dai confini chiaramente delineati; gli elementi che ne fanno parte sono presentati secondo un ordine prospettico, come in un dipinto, che si proponga di riprodurre la realtà con la massima verosimiglianza: sullo sfondo il mare e i colli, in primo piano le vie del borgo e l'interno di una casa o di un'osteria, fino alla messa a fuoco di un singolo personaggio: il cacciatore che dalla porta guarda verso il cielo. Lo spazio pascoliano, al contrario, è astratto, indefinito; gli elementi che ne fanno parte sono collocati tutti sullo stesso piano senza che fra di essi si stabilisca alcuna gradazione prospettica.

La lirica carducciana è fondata sulla contrapposizione di due poli, uno positivo e uno negativo, che coincidono con due diversi aspetti della realtà. Il paesaggio naturale appare minaccioso e malinconico, gli interni, contrassegnati dalla presenza dell'uomo, comunicano sensazioni di vitalità e di sana allegria. La poesia pascoliana ci presenta invece una realtà assai più ambigua e inquietante: anch'essa è fondata su una contrapposizione o meglio su una serie di contrapposizioni (luce/buio, vita/morte, presenza/assenza, apparenza/realtà); i poli contrastanti però non corrispondono a due diversi aspetti della realtà, ma coesistono nella medesima immagine. Quella stessa natura che sembra così calda e luminosa, piena di vita, è in effetti percorsa da segnali di morte.

In "San Martino" ogni elemento del paesaggio ha valore in sé e per sé, non rinvia ad altri significati; in "Novembre", invece, ogni immagine è ambigua, allusiva, polivalente. 
Per esempio, l'aggettivo "nere" vale come nota di colore, ma al tempo stesso suscita sensazioni lugubri di morte, allo stesso modo di "vuoto", "cavo" ecc.
Carducci quando vuole potenziare il significato del suo messaggio ricorre ancora alla similitudine, come nei versi finali di "San Martino". 
Pascoli si serve di accostamenti più sottili e allusivi, come la sinestesia, il chiasmo, l'ossimoro, la contrapposizione a distanza di termini (gèmmea/fredda).

In conclusione, dai versi di Carducci emerge una visione univoca, ordinata e tutto sommato rassicurante della realtà che appare ancora fondata su valori saldi come il lavoro e l'autenticità della vita dei campi, grazie ai quali l'uomo può fronteggiare le tempeste della vita. Pascoli, al contrario, ci presenta un mondo privo di sicuri punti di riferimento, contraddittorio, inquietante e funereo.


APPROFONDIMENTO: LA NATURA E LA MORTE NELLA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI

Giovanni Pascoli (1855-1912) è il poeta che ha segnato il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Nasce nel 1855, a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli.



Giovanni Pascoli (1855-1912) è il poeta che ha segnato il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Nasce nel 1855, a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli. 

 

Quando il padre Ruggero viene ucciso, la disgrazia imprime un segno incancellabile nell'animo del poeta, che ne sarà condizionato per tutta la vita. Spesso nelle sue poesie torna il tema della morte del padre e del "nido" distrutto dalla violenza degli uomini. 
Anche altri lutti colpiscono la famiglia Pascoli: muore una sorella, la madre e due fratelli.
Giovanni, tra mille difficoltà, si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna. Segue con interesse le lezioni di Carducci e si avvicina agli interessi del Socialismo. 
Nel 1891 pubblica la sua prima raccolta di poesie, "Myricae", a cui seguono i "Poemetti", "Canti di Castelvecchio", "Poemi Conviviali".
"Myricae" è la prima e la più amata raccolta pascoliana. Il titolo deriva da un verso della quarta Ecloga di Virgilio: "iuvant arbusta humilesque myricae", "piacciono gli alberi e le umili tamerici". 
Con questo titolo Pascoli vuole alludere al tono volutamente basso della sua poesia che paragona alle tamerici, le umili pianticelle che si elevano poco da terra; ma la tematica della raccolta può intendersi anche come "un diario minuto e liberissimo di una giornata trascorsa in campagna a contatto con gli eventi agresti, le voci dei campi, il trascolare delle ore". 
Il poeta canta le piccole cose, il mondo semplice della natura, cui si intreccia il tema delle vicende familiari, che il poeta rievoca con tristezza e sgomento. Nei lutti che hanno colpito la famiglia vede il segno di una società feroce e disumana alla quale contrappone la Natura, madre dolcissima e confortatrice.

Nota di Lunaria: cito anche questa autrice, Edith Holden, il cui splendido diario è stato pubblicato qualche anno fa. L'autrice stessa teneva nota e disegnava tutto ciò che vedeva nei boschi. Le illustrazioni sono splendide.

Quello della Natura è sicuramente uno dei temi dominanti della produzione di Giovanni Pascoli, le cui liriche sono popolate di fiori, uccelli, alberi di tutti i tipi, cui spesso il poeta indica con precisione anche il nome specifico. Egli accusa di genericità la poesia italiana, nella quale la campagna è stata sempre descritta in modo convenzionale, per cui gli uccelli sono solo rondini e usignoli, i fiori rose e viole, gli alberi ulivi e cipressi.

Fra tutti gli elementi della natura, Pascoli cita con particolare frequenza uccelli e fiori del campo. Ai primi si collega l'immagine del "nido famigliare" e simboleggiano l'evasione dalla realtà dominata dal male verso una condizione di felicità che sarebbe duratura se l'uomo non intervenisse con violenza a distruggerla, spezzando il volo degli uccelli. Ma agli uccelli Pascoli attribuisce anche una funzione oracolare che riprende tanto dalle magiche credenze del mondo contadino quanto dalla cultura classica. 
Nelle tradizioni contadine è affidata agli uccelli gran parte delle previsioni sulla vita e sulla morte: il grido degli uccelli notturni viene considerato segno di malaugurio (*), si contano gli anni di vita sul canto del cuculo e così via. Nel mondo antico esistevano dei sacerdoti, detti àuguri, che avevano il compito di trarre profezie dal volo degli uccelli. Per Pascoli gli uccelli sono intermediari fra l'uomo e il mistero che lo circonda: il loro verso, che il poeta riproduce per mezzo delle onomatopee, è la voce di una realtà segreta e ignota che non può essere penetrata con gli strumenti della ragione.
Anche i fiori hanno una valenza simbolica: in Pascoli sono spesso legati al tema della morte, o, per la forma circolare della corolla, diventano simbolo di una vita chiusa, senza rapporti con il mondo esterno dal quale possono giungere solo violenza e morte.
La Natura, se per un verso appare come una presenza confortatrice di fronte al male della realtà e della storia, per l'altro rimanda immagini angoscianti di morte e di caos. Una tale visione del mondo può essere solo in parte ricondotta ai drammi familiari del poeta; in realtà possiamo cogliere in essa il riflesso del disagio dell'intellettuale decadente che si sente emarginato dalla società.

In "Novembre", per esempio, il poeta più che celebrare la breve rinascita della bella stagione pone l'accento sull'illusività delle apparenze, sulla natura ingannevole che cela dietro immagini illusorie di vita la realtà della morte.

Gèmmea l'aria, (1) il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...(2)

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno, (3)
e vuoto il cielo, (4) e cavo al piè sonante
sembra il terreno. (5)

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. è l'estate,
fredda, dei morti. (6)


(1) Limpida come una gemma
(2) Hai l'impressione di essere in primavera e allora ti guardi intorno a ricercare gli albicocchi in fiore e ti sembra di avvertire il profumo del biancospino
(3) Tracciano un disegno nero sullo sfondo del cielo limpido
(4) Senza voli di uccelli
(5) Il terreno risuona duro e asciutto sotto i piedi, come se fosse vuoto
(6) è l'estate di San Martino, che cade nei primi giorni di novembre poco dopo la ricorrenza dei morti.


In "Lavandare" Pascoli delinea un quadro autunnale: lo spunto del componimento è forse scaturito da una passeggiata in campagna durante la quale il poeta ha sentito un canto di lavandaie al lavoro: un canto triste, che allude alla solitudine. La malinconica condizione della donna abbandonata sembra trovare corrispondenza nello spoglio paesaggio autunnale e soprattutto nell'immagine dell'aratro dimenticato in mezzo al campo:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.


In "Il lampo" con pochi rapidi tocchi il poeta delinea un paesaggio improvvisamente illuminato dalla luce livida di un lampo.

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Il poeta ci offre così una visione stravolta e allucinata della natura, simbolo del caos del mondo che sfugge a ogni intervento ordinatore. Pare che con questi versi egli abbia voluto riferirsi alla morte del padre.
Il verso iniziale, isolato dallo spazio bianco, e introdotto dalla congiunzione "e" che sembra legarlo a qualcosa di non detto o ad una precedente meditazione del poeta, ha la solennità di una sentenza biblica che enuncia una tragica verità. 
La luce improvvisa del lampo ha una forza rivelatrice: mette a nudo la vera essenza dell'universo. Il mondo appare tragicamente lacerato e deforme. Se all'inizio cielo e terra sono ancora uniti, a partire dal secondo verso li vediamo scissi da una frattura insanabile. Entrambi sono tormentati da una sofferenza disperata. La terra è descritta con espressioni che fanno pensare all'agonia di un essere vivente: "ansante, livida, in sussulto"; il cielo è ridotto a puro caos. I tre aggettivi "ingombro, tragico, disfatto" comunicano l'idea di catastrofe che ha fatto ripiombare il mondo nel caos originario.

Allo sconvolgimento degli elementi naturali si contrappone la casa, simbolo dell'opera dell'uomo, del suo tentativo di imprimere nella natura un segno della sua presenza. Ma essa non è un rifugio sicuro e protettivo, appare fragile e precaria nel tacito tumulto, nel rimescolamento dell'universo che è tanto più terribile perché avviene in un silenzio allucinato, il silenzio del lampo non ancora seguito dal tuono. Il bianco della casa, che si contrappone al nero della notte, è un colore altrettanto lugubre, segno della morte, e allude alla fragilità dell'uomo. I due verbi "apparì sparì" che si succedono senza essere legati da una congiunzione, alludono alla precarietà dell'uomo, la cui permanenza sulla terra è brevissima e può essere stroncata in un attimo. 

Nella lirica successiva "Il tuono", composta a sei anni di distanza, il poeta riprende il tema della Natura sconvolta ma contrappone però la figura rassicurante della madre e della culla:

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.

(*) Nota di Lunaria: citazione che troviamo anche in Parini e in Foscolo. http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/08/la-notte-preromantica-in-giuseppe.html

Di Pascoli riporto anche queste altre poesie, che sono le mie preferite. Vedi anche questo post:
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2013/05/dietro-spighe-di-tasso-barbasso-tra-un.html

"X Agosto"

Il Poeta ricorda la morte del padre, avvenuta il 10 Agosto. In quella notte le stelle cadenti sfavillano nel cielo.

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle (1) per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto (2):
l'uccisero: cadde tra spini:
ella eveva nel becco un insetto:
la cena de'suoi rondinini. (3)

Ora è là come in croce, (4) che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, (5) che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo (6) tornava al suo nido (7):
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...

Ora là, nella casa romita, (8)
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano. (9)

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male! (10)

Note:

1) Tante stelle; a san Lorenzo, il 10 Agosto, è frequente il fenomeno delle stelle cadenti.
2) La rondine, il nido sono elementi tipici di Pascoli. Qui la rondine è in analogia col padre.
3) I rondinini diventano metafora dei figli del padre di Pascoli, Ruggero Pascoli.
4) La rondine è come crocifissa, con le ali ferite dalle spine.
5) Nell'ombra della sera o anche della morte. "Pigola sempre più piano" significa che i rondinini stanno diventando sempre più deboli.
6) è il padre, Ruggero Pascoli.
7) è casa Pascoli.
8) Solitaria.
9) Come la rondine mostrava il verme al "cielo lontano", cioè insensibile, anche Ruggero portava le due bambole in dono per le sue figlie.
10) La terra è un piccolo frammento dominato dal male.

"Il giorno dei morti"

Il 2 Novembre, nel giorno dedicato ai defunti, il Poeta ripensa ai suoi morti e li rivede nel cimitero, fra le intemperie, stretti fra loro a lamentare l'abbandono in cui sono lasciati.
Questo pensiero gli suscita il senso di un'antica felicità perduta e l'idea della casa domestica come "nido" caldo e consolante; il cimitero, anzi, diventa una nuova "casa" dove i morti si congiungono ai vivi per ricostruire l'unità famigliare.

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!) ,
vedo nel cuore, vedo un camposanto (1)
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido (2) si scaglia (3)
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta, (4)
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l'inonda e muove la tempesta; (5)

O camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo (6) tutto sempiterni (7)

e crisantemi. A ogni croce roggia (8)
pende come abbacciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa (9)
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto, di memorie, posa.

Non i miei morti. (10) Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano (11) con brontolìo roco),

piangono. La pupilla umida e pia (12)
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un'altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido (13) ch'esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!...
cupo rompe (14) un singulto lor dal petto.

Levino bianche mani a bianchi volti,
non altri, (15) udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de' figli, ancor non nato.
Nessuno! (16) I morti miei gemono: nulla!

- O miei fratelli! - dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita.

- O miei fratelli, che bevete ancora
la luce, (17) a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati dalla dolce aurora;

O miei fratelli! Nella notte oscura,
quando il silenzio v'opprimeva, e vana (18)
l'ombra formicolava di paura; (19)

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! Vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre (20)
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!...
Voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella (21) :
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch'io l'oda il suono della vostra voce
ora che più romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno! - Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l'acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre (22) il camposanto.

- O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell'acqua - O figli che non sento
più da tanti anni! Un altro cimitero

forse v'accolse e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall'asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! Vi vedessi io mai!
Io vorrei dirvi che in quel sol istante (23)
per un'intera eternità v'amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! Le parole mute ed infinite
che dissi! Con qual mai strappo si franse
la vita viva delle nostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, né il tetto,
né chi li aiuti, né chi li consigli.

Un padre, O Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m'ha tolta.

Perdona all'uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, (24) buon Dio...
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dàgli oro e nome (25) ; dàgli anche l'oblio; (26)
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine; (27)
vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva (28) a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano.

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

- No, babbo, vive, vivono - (29) Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, (30) eppur nota ad ascoltarla,

O mio Luigi, o anima compagna!
Come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all'acqua che ti bagna!

Come mutato! Sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via. (31)

- Vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

è la sorella (32) che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio (33) di Sogliano.

Chiama. Oh! Poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi: fuori del nero
chiostro, de' sotterranei profondi! (34)

Un'altra voce tu, fratello, (35) ascolta:
dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero; (36)
in cui, babbo, moristi un'altra volta. (37)

Parlano i morti. Non è spento il cuore
né chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore. (38)

E or per quanto stridula di vento (39)
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

O mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che ti rivedessi! (40)

Avessi tu provato di quell'ora
ultima il freddo, e or quest'abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora. -

- Ma se vivete, perchè, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori? -

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
- Quando sola restò la nidiata,
Iddio lo sa, come vi crebbi (41) insieme:

se con pia legge l'umili vivande
tra voi divisi, e destinai de' pani
il più piccolo a me ch'ero il più grande;

se ribevvi (42) le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest'acque, io suscitava
la buona fiamma d'eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso (43) ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo, io ti dicea... ma era
grossa la lingua (44) e forse non udivi.

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d'occhi lasciati dalla morte attenti, (45)
pianto di cuori cui la sepoltura
lasciò, ma solo di dolor, viventi.

L'odo (46) : ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: altro è mio figlio! Altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! Che notte di tempesta
piena d'un tremulo ululo ferino!
Non s'ode per le vie suono di pesta. (47)

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l'uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall'assidua romba. (48)
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invedicato. Siede in una tomba
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l'ombra. Culla
due bimbi morti (49) sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sé nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice: - Forse non verranno. Ebbene,
pietà! le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po' di bene. (50)

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme. (51)

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidiando, (52) ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse, (53) e per chi resta in via

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta, (54)
per chi cammina, cammina, cammina,
e non ha pietra ove posar la testa. (55)

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, O figli morti, ai vivi!
O Madre! Il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.


Note:

1) Il camposanto è quello tra San Mauro e Savignano, dove furono sepolti i congiunti del Pascoli: la sorella Ida, morta nel 1862, il padre ucciso nel 1867, la sorella Margherita e la madre (1868), i due fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Un'altra sorella di 5 anni, Carolina, era morta ne 1863 a Sogliano sul Rubicone e fu sepolta in quel cimitero.

2) Fumido = tra la nebbia.

3) Si scaglia = è scosso con violenza, opponendosi al vento.

4) Il cimitero è "casa unica di mia gente e mia" perché "tutta una famiglia è lì accolta, ineffabilmente triste e io vivo con loro".

5) Nel cimitero i morti sembrano abbandonati a tutte le intemperie.

6) è il Giorno dei Morti, e il cimitero è colmo di fiori.

7) I sempiterni sono dei fiori "semprevivi", che mantengono il loro colore anche quando sono secchi.

8) Roggia = rossa di ruggine.

9) Il cimitero fiorito sembra una festa, per la presenza dei fiori, ma quei fiori testimoniano un ricordo doloroso. Inoltre, stillano gocce di pioggia che sembrano lacrime.

10) Nel Giorno dei Morti, i morti del Pascoli sono abbandonati.

11) Il Tramontano = il vento di tramontana.

12) "Pupilla" sta per "Gli occhi di ciascuno dei famigliari morti". 

13) Un grido di disperazione, perché nessuno li ricorda.

14) Rompe = erompe.

15) "Se mai qualcuno dei viventi, ascoltando quel pianto, li ricordi".

16) Sono stati completamente dimenticati.

17) Che siete ancora in vita e potete vedere la luce del sole.
A cui = per vedere la quale.

18) Vana = vuota, ingannevole.

19) Il buio della notte suscitava una folla di immagini indeterminate e paurose.

20) Il sonno fa parte della vita e quindi è negato ai morti.

21) Dopo la morte del marito, la madre del Poeta era caduta in un grave stato di prostrazione e Margherita ne aveva fatto le veci presso i fratelli.
"Vergine sorella" è reminiscenza dantesca.

22) Corre = Percorre.

23) L'istante della morte.
24) L'assassino del padre di Pascoli ignora lo strazio di morire lasciando la famiglia nel dolore e nella miseria.

25) Nome = Fama.

26) Del rimorso.

27) L'istante prima che morisse in cui amò i figli "per un'intera eternità".

28) Spegnendosi la vita, tutto spariva ai suoi occhi.

29) Non tutti i figli sono morti, ma il "vive" può sottindere anche un'implicita accusa all'assassino, vivo e non perseguitato.

30) "Nuova" = "Mutata".

31) Implori l'elemosina all'angolo della via.
32) Carolina.

33) Il cimitero era situato sul pendio di una collina.

34) L'oscurità della tomba.

35) Luigi si rivolge a Giacomo.

36) Il nipote del Poeta, figlio del fratello Giacomo, morto a 12 anni, nel 1887.

37) Al bimbo era stato posto il nome del nonno e la sua morte fu sentita dal Poeta come una seconda morte del padre.

38) "Non hanno essi della morte le requie, non si spense d'essi con la vita il dolore" perchè cercano giustizia, in quanto, "Ti uccise tutti, nel mio padre, la malvagità degli uomini".

39) Anche se ci divide l'ombra della morte potrei udire la tua voce.

40) Quando la malattia di Luigi fu irrimediabile, "Giacomo dovette allontanare di casa Giovannino, altrimenti non era possibile staccarlo dal capezzale".
41) Dopo la morte del padre, la responsabilità della famiglia restò al fratello Giacomo.

42) Respinsi.

43) Arrossato dal vento sferzante.

44) Prima di entrare in agonia, Giacomo voleva parlare a Giovanni, ma non riusciva.

45) Consapevoli delle vicende umane.

46) Il pianto.

47) Suono di passi.

48) L'incessante tumulto della tempesta.
49) Carolina e Ida.

50) Pregano per i defunti.

51) Ida e Maria contribuirono al bilancio famigliare con lavori di ricamo e cucito.

52) Invidiano la pace della morte.

53) In camposanto.

54) I dolori della vita.

55) Non ha luogo dove riposare.



(da "Primi Poemetti")

Due giovani, la bionda e semplice Maria e l'ardente Rachele, rievocano i loro anni di collegio. E rammentano come nel giardino di quel collegio sorgesse una Digitale Purpurea: da qui la confessione di Rachele all'amica: aver ceduto alla tentazione, inebriandosi di quell'aroma.


I

Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,

l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. "E mai
non ci tornasti?" "Mai!" "Non le vedesti più?"
"Non più, cara" "Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai; (1)

quei piccoli anni così dolci al cuore..."
L'altra sorrise. "E dì: non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? (2) quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?"

"morte: sì, cara" "Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore (3) accanto.

Ché si diceva (4): il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor (5) che bagna
l'anima d'un oblio dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea! (6)" Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.(7)


II

Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...(8)

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate, (9)
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate (10)
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perchè mai?) piangete... (11)

Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perchè. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro! (12)

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono. (13)

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l'alito ignoto spande di sua vita. (14)


III

"Maria!" "Rachele!" Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciulezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa (15) dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio (16)
il lontanar d'un ultimo saluto!

"Maria!" "Rachele!" questa piange, (17) "Addio!"
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no (18): "Io"

mormora, "Sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. (19) Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento. (20)

Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenziosi. (21) M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea (22) la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia, Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido...) si muore!" (23) 


Note:

1) Che conosci anche tu.

2) Le piante di bosso, le cui foglie mandano un'amaro sentore.

3) La Digitale Purpurea è chiamato "triste fiore" perché è una pianta velenosa; le corolle dei suoi fiori sembrano delle dita mozzate, chiazzate di rosso.

4) Dicevamo noi collegiali, ripetendo la leggenda sul fiore.

5) Esalazione che irrora: come un liquido di un filtro magico.

6) Che sembra azzurra, in lontananza.

7) Prese dalla contemplazione del loro passato.

8) Delicatamente sfiorate.

9) Secondo un'usanza monacale, le grate del parlatorio, che dividono le collegiali dai visitatori.

10) Per il chiacchiericcio delle giovani fanciulle.

11) Il pianto rivela il turbamento delle fanciulle.

12) Nell'oscurità del tramonto, l'orto qua e là biancheggia per il candido grembiule delle collegiali.

13) Un libro edificante.

14) è la Digitale Purpurea.

15) Comprende.

16) Amaramente nostalgico.

17) Rachele, che gustò il funesto aroma della Digitale Purpurea. Piange, forse perché sa di aver perso l'innocenza, e di essere indegna di Maria.

18) Rivolge a Maria la parola, ma non gli occhi, mancandole il coraggio di guardarla.

19) Le cetonie sono degli insetti verdi, visibili nei rosai.

20) Rachele ha ceduto alla Digitale Purpurea dopo una notte di sogni languidi e frementi, che dileguandosi all'alba, le avevano lasciato per tutto il giorno, un vuoto torpore.

21) Lampi senza tuono.

22) Tratteneva quasi ammonendola di non procedere.

23) Forse allude alla morte dell'anima; forse all'estinguersi dell'innocenza, nel piacere del peccato.


Il tema della pianta maligna, della vegetazione mostruosa e velenosa, si trova per tutto l'800, ed è tipicamente decadente: la vegetazione corrotta, che magari poggia le sue radici su cadaveri umani, è emblema del compiacimento decadente per tutto ciò che è impuro e infetto. Il tema era già apparso in Shelley, "La sensitiva" (1820) : "Cominciarono a crescere le erbacce più immonde/le cui ruvide foglie erano maculate come il ventre/del serpe d'acqua o la schiena del rospo...", in Hawthorne (1804-1864), "La figlia di Rapaccini", novella nera che racconta la passione di una fanciulla per un orto di piante velenose; lo stesso Zola, in "Curée"(1872) descrive l'incesto tra una matrigna e il figliastro, consumato in una torrida serra, dove prolifera una vegetazione tropicale: "Ma ciò che, a tutte le svolte del viale, colpiva lo sguardo, era un grande Ibisco della Cina... i larghi fiori purpurei di tale specie di malva gigantesca, che rinascono senza posa, non vivono che qualche ora. Li si sarebbe detti delle bocche sensuali di donne che s'aprivano, le labbra rosse, molli e umide di qualche Messalina gigante, che dei baci straziavano, e che sempre rinascevano con il loro sorriso avido e sanguinante...". Zola riprende il tema della vegetazione mostruosa e venefica anche in  "La colpa dell'abate Mouret" (1875): "Dei cortei di papaveri se ne andavano in fila puzzando di morte, schiudendo i loro grevi fiore di uno splendore febbrile...dei tozzi datura [piante medicinali] allargavano i loro cartocci violacei, dove gli insetti, stanchi di vivere, venivano a bere il veleno del suicidio". Anche nell'Autore di "Controcorrente", Huysmans, compare il tema della vegetazione corrotta e repellente: "I giardinieri portarono ancora nuove varietà: esse ostentavano, stavolta, un'apparenza di pelle artificiale, solcata da false vene; e per lo più, come corrose dalla sifilide e dalla lebbra, tendevano delle carni livide, marmorizzate di roseola, damascate da erpeti; altre avevano il tono rosa vivo delle cicatrici che si chiudono o la tinta bruna delle croste che si formano; altre erano cosparse di bolle come determinate di cauteri, gonfiate da bruciature; altre ancora mostravano epidermidi pelose, scavate da ulcere e come lavorate a sbalzo da tumori."  
Anche Gustav Meyrink, uno degli scrittori più visionari!, ha scritto un racconto al riguardo, "Le piante orribili".  Pascoli in "Digitale Purpurea", come si è visto, descrive due fanciulle, una ancora incontaminata, e l'altra, già "posseduta" dal "Fior di Morte", dai fiori simili a "dita spruzzolate di sangue", che quasi induce l'altra ragazza a "coglierlo". A livello più subliminale, si può vedere "cogliere quel fiore purpureo" come la perdita dell'innocenza dopo un rapporto sessuale: sangue, lacerazione, dolore, contaminazione. D'Annunzio ritorna nuovamente su questo tema in "Favola sentimentale" un racconto del "Libro delle Vergini" (1884, ma il testo era già uscito nel 1882): "Dietro la villa, in un pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue sonnecchiava nell'ombra; erano grosse foglie carnose di un bruno tendente al violetto, cosparse di pelurie come una muffa; erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di bianco e macchiate come dorsi di rane... certi calici di un roseo di pelle umana si gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto cupo emettevano stami simili a piccole lingue giallicce. I petali avevano come il viscidume dei funghi... in torno, nell'autunno, le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume grigiastre." Comunque, l'esempio più famoso di vegetazione maligna resta il titolo di Baudelaire "I Fiori del Male": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/05/introduzione-ai-fiori-del-male-di.html

Il critico letterario Getto ha così commentato la Poesia di Pascoli: "La Digitale Purpurea è il fiore forse più corrotto fra quanti produsse, dal seme dei Fiori del Male, il nostro Decadentismo."

Personalmente, devo ammettere che la mia pianta preferita è Arum maculatum, noto anche come "Pan di Biscia". è una pianta che vidi da bambina; l'ho rivista per caso anche quest'anno, sul ciglio della strada, a confine con una zona incolta, e quasi non credevo di trovarmi davanti proprio questa pianta così strana e mortifera. https://erbemagiche.blogspot.com/2020/10/gigaroarum-maculatum-italicum.html

Per curiosità, riporto anche la poesia di Gabriele d'Annunzio, "L'inconsapevole" (1883)
 (da "Intermezzo di rime")

Come da la putredine le vite
nuove crescono in denso brulicame (1)
e strane piante balzano nutrite
da li umori corrotti d'un carname: (2)

sgorgano i grandi fior' quali ferite
fresche di sangue (3) con un giallo stame
e crisalidi (4) enormi seppellite
stanno tra le pelurie de'l fogliame (5):

così dentro il mio cuore una maligna
flora di versi gonfiasi (6); le foglie
vanno esalando un triste odore umano.(7)

Attratta da'l fulgor de la sanguigna
tinta la inconsapevole (8) ne coglie;
e il tossico (9) le morde acre la mano.


Note:

1) Come un fitto brulicame di vermi o insetti cresce da un corpo in putrefazione.

2) E piante mostruose crescono rapide, alimentate dai liquidi corrotti di un carname putrefatto. (nel testo del 1894: "truci piante" e "liquidi fermenti")

3) Spuntano grandi fiori rosso vivo, che sembrano ferite colanti ancora sangue fresco.

4) Lo stadio tra il bruco e la farfalla.

5) Le foglie di questa pianta descritta dal Poeta sono coperte di una fitta peluria. (nel testo del 1894: "ne le rughe del carneo fogliame")

6) I versi ispirati dalla corruzione della sua vita proliferano rigogliosi come quella vegetazione malata che si alimenta della putredine.

7) è l'odore della decomposizione.

8) "La inconsapevole" è la fanciulla innocente, che legge versi di poesia, attratta dalla loro bellezza, senza sapere che le saranno velenosi, o ancora, una fanciulla che si avvicina a una pianta velenosa, ma di grande bellezza.

9) Veleno.



Introduzione ai Racconti Fantastici di Kipling

Tratto da



Joseph Rudyard Kipling nacque a Bombay in India il 30 dicembre 1865.



La sua infanzia fu sommamente infelice. Cresciuto in India nel periodo del massimo splendore della dominazione britannica, a sei anni venne ricondotto in Patria perché potesse avere una corretta educazione inglese, e fu affidato a una coppia di bigotti. Vessato e represso, trascorse anni di torture mentali e fisiche, lontano da ogni affetto familiare, in totale avvilimento e completo abbandono morale. Ne uscì minato nella salute e con la vista indebolita. Unico suo sollievo, in quegli anni era stata la lettura, cui aveva dedicato ogni attimo del proprio tempo. In seguito lasciò una descrizione straziante dei suoi tormenti in una delle sue storie più famose  "Baa, Baa, Black Sheep" (1888): "Quando labbra infantili hanno bevuto a fondo le acque amare dell'odio, del sospetto e della disperazione non basterà tutto l'amore del mondo a cancellare interamente quella conoscenza". Dopo un breve interludio con i genitori, venne iscritto a un collegio del Devon: vi conobbe tutti i rigori dell'educazione ottocentesca inglese, nella quale l'insegnamento andava di pari passo con un turbine di violenze inflitte dagli insegnanti, ma anche dagli alunni più anziani e dai coetanei prepotenti. Anche questa esperienza ebbe riscontro in un'opera narrativa, "Stalky and Co." Una delle critiche principali che il benpensantismo vittoriano rivolse in seguito agli scritti di Kipling fu la costante tessitura della brutalità, al limite della violenza più crudele, sottesa alla maggior parte di essi: fu la critica moderna a ricondurre tale atteggiamente narrativo al ricordo indelebile del ragazzo taciturno e malaticcio, dagli occhiali spessi e il corpo piegato, costretto precocemente a ingaggiare una vera e propria aspra lotta per la sopravvivenza.
Kipling ritornò in India nel 1882. Ottimo conoscitore dei dialetti locali, divenne un osservatore attento del mondo pulsante e multiforme dell'India nativa, alla quale si sentiva legato da un sentimento misto d'effetto e di paternalistica superiorità. In breve cominciò a riempire i giornali locali di liriche e racconti nei quali tracciava la sua tematica fondamentale: la saga dell'uomo bianco il cui "fardello" consiste nel recare la civiltà, attraverso una forma illuminata di colonialismo, presso le popolazioni altrimenti condannate alla barbarie. Il sentimento imperialista dell'Inghilterra di fine Ottocento si trovò ben rappresentato e giustificato in questi racconti. Quando tornò in patria nel 1889, Kipling trovò che la sua fama di narratore lo aveva preceduto: in meno di un anno si vede acclamato come uno dei più brillanti prosatori del suo tempo. Dopo aver sposato un'americana, si stabilì nel Vermont, pubblicando qui i romanzi più famosi: "Capitani coraggiosi" (1897), "Kim" (1901), i due "Libri della giungla" (1894-1895). La sua celebrità era ormai sconfinata, al punto che molti assegni da lui firmati non vennero mai presentati all'incassi: il suo autografo era oggetto di culto. Nel 1907 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura ma il successo non incrinò la sua tendenza alla solitudine, retaggio della giovinezza infelice. Morì nel 1936, amareggiato per la morte dell'unico figlio nella Prima Guerra Mondiale. Fu sepolto nell'Abbazia di Westminster.
Scomparso il suo mondo, spenta la gloria di qualsivoglia impero, dimenticato "il fardello dell'uomo bianco", che cosa rimane di Kipling, di un autore che ai suoi tempi fu pagato, letto, ascoltato come nessun altro?
Resta il segno di una potenza evocatrice capace di far saltare su, come da un cerchio magico, le figure di una commedia umana che nessuno prima di lui si era sognato di descrivere: indù, malesi, neri, cinesi, gurka, sikh, giapponesi, afghani. Figure richiamate da ogni più remoto angolo del globo, nello scenario più vasto che mai scrittore abbia tentato: dall'Egitto all'Arabia, dall'India e dal Tibet, all'America del Nord, alla Groenlandia, all'Africa e all'Europa. Sfaccettature di una umanità incredibilmente diversa: ufficiali dei famosi reggimenti britannici di cavalleria, funzionari, ingegneri, rajah, costruttori di ponti, macchinisti delle ferrovie indiane, mendicanti, mercati, bazar, santoni, principi e selvaggi.
Resta il sogno di una fantasia romantica temperata da uno stile vigorosamente realistico, capace di far registrare gli animali della giungla, far assumere il ruolo di protagoniste a cobra e manguste, far parlare navi e locomotive. Una fantasia grazie alla quale si intrecciano e convivono coerentemente mondi diversi e opposti: determinismo occidentale e fatalismo orientale, cultura scientifica e magia, passato e futuro, sogno e realtà. Resta, infine, la perfezione di una prosa narrativa che ne fa ancora una specie di "pietra di paragone" fra gli scrittori di lingua inglese. Tutto ciò che Kipling descrisse è scomparso, e se vive ancora, lo fa con nomi diversi, entro confini diversi. Mowgli, Rikki-Tikki-Tavi, Kim, sono ormai patrimonio del nostro originario collettivo, e hanno una consistenza più tenace di tanti altri simboli rovesciati quotidianamente su di noi dalla civiltà dell'immagine. I mondi cambiano, ma la fantasia rimane.
Tra i numerosi generi letterari frequentati dallo scrittore, non mancano quelli legati alle tematiche non realistiche. Fu un precursore della moderna Fantascienza. Nei racconti fantastici di Kipling fanno la loro comparsa fantasmi d'oriente e d'occidente, mostri emersi dagli abissi, voci arcane provenienti da un misterioso altrove. Nel multiforme universo di Kipling hanno anche loro un posto. La loro apparenza è forse più diafana di quella dei pirati malesi e brahmini, ma l'impronta nel fondo della nostra mente è certo più duratura e profonda.    

Introduzione al Decadentismo

Info tratte da


Nella seconda metà dell'Ottocento si sviluppa in Francia una corrente culturale destinata ad influire su tutta la letteratura del Novecento: il Decadentismo, che a sua volta darà vita al Simbolismo.
La borghesia, che nei primi anni dell'Ottocento si era battuta per gli ideali di libertà ed uguaglianza, adesso si fa portavoce di ideologie del tutto opposte: alla solidarietà si sostituisce la legge dell'utile a ogni costo, all'uguaglianza la disuguaglianza sia tra paesi poveri e paesi ricchi, sia all'interno della stessa nazione, fra chi detiene il potere economico e politico e chi è destinato allo sfruttamento e all'emarginazione; alla libertà si sostituisce l'esaltazione della legge del più forte che giustifica la violenza e la guerra; al principio di fratellanza lo sfruttamento coloniale di milioni di uomini.
In questa nuova realtà l'intellettuale si trova a disagio, rifiuta polemicamente sia la morale sia la visione della vita della borghesia e, avvertendo un vuoto di ideali, una mancanza di valori che diano significato all'esistenza, si sente sradicato, condannato alla solitudine e all'incomunicabilità. Si rende conto dell'inutilità dell'arte e del suo ruolo di poeta in un mondo volto esclusivamente al profitto, al cattivo gusto e alla volgarità. Si chiude pertanto in un esilio volontario, rispondendo con una sorta di autoemarginazione all'emarginazione oggettiva a cui la società condanna l'arte e chi la pratica; muta il rapporto tra letteratura e società e mutano anche il ruolo del poeta e il modo di far poesia.
Mentre il poeta romantico pur attento alla propria soggettività, sentiva di condividere i valori e gli ideali della comunità a cui apparteneva e se ne faceva coscienza e guida, il decadente sa di non poter più comunicare nessuna verità ad una società che sente estranea ed ostile e si compiace di provocare il lettore celebrando tutto ciò che la società borghese aborre e condanna: perversione, malattia, disfacimento fisico e morale, morte [Nota di Lunaria: in parte già celebrati da certa poesia barocca del Seicento; vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/09/poesia-barocca-del-seicento.html
 http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/la-bellezza-la-malattia-e-la-morte-in.html
 http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/01/la-fanciulla-perseguitata-nei-romanzi.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/la-bellezza-dellorrido-nel-romanticismo.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/amore-e-morte-nella-tragedia-italiana.html], i temi privilegiati della narrativa e lirica decadente. L'intellettuale decadente si sente diverso, malato, in una società di sani - o meglio, malati che non sanno di esserlo - ma al tempo stesso si compiace di questa sua diversità che gli consente di cogliere il marcio sotto le apparenza della salute, e affina la sua sensibilità e le sue capacità percettive.
All'attivismo borghese viene contrapposta la contemplazione: secondo Proust la vita vera è quella che si assapora attraverso il ricordo piuttosto che nel momento in cui viene veramente vissuta e Axel, protagonista del romanzo di Villiers de l'Isle Adam, afferma: "Vivere? Ci pensano i nostri servi per noi."
Tutto questo comporta naturalmente anche un nuovo stile: al linguaggio della poesia tradizionale si sostituisce un linguaggio allusivo, oscuro, soggettivo che privilegia la sinestesia e l'analogia e si affida alla suggestione evocativa dei suoni.
Il Decadentismo nacque in Francia intorno agli anni Ottanta fra intellettuali e artisti estranei ai circuiti della cultura tradizionale, che si riunivano in circoli dai nomi bizzarri come "Nous Autre", Noi Altri e "Chat Noir", "Gatto nero". Il termine fu coniato dalla critica ufficiale in senso dispregiativo nei confronti dei giovani poeti che vedevano in Baudelaire un maestro. I detrattori presero spunto dal verso iniziale di Verlaine che diceva "Je suis l'empire à la fin de la decadence", "Io sono l'impero alla fine della decadenza". I nuovi poeti assunsero questo appellativo come etichetta d'avanguardia letteraria. Nacque anche una rivista, diretta da Anatole Baju, il cui titolo era "Le Decadent". Testi esemplari del Decadentismo furono "I poeti maledetti" di Paul Verlaine e "A ritroso" di Joris Karl Huysmans. I maggiori esponenti furono Charles Baudelaire [*] http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/05/introduzione-ai-fiori-del-male-di.html
Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stephane Mallarmé, Oscar Wilde, Giovanni Pascoli https://myricaepoesie.blogspot.com/
e Gabriele d'Annunzio http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/02/gabriele-dannunzio-le-poesie-e-le.html

Ma l'influenza del Decadentismo non si limita solo a questi scrittori, in realtà tutta la cultura del Novecento si è sviluppata sotto l'influsso del Decadentismo. Senza di essi non si potrebbe comprendere l'opera dei maggiori poeti e narratori moderni, da Proust a Kafka, da Ungaretti a Montale, da Joyce a Svevo, a Pirandello [e a tutta la scena Black Metal che ha nella blasfemia e nel morboso il suo concept. Nota di Lunaria]

[*] Con Baudelaire nasce la figura del "poeta maledetto", tormentato da laceranti conflitti interiori ed estraneo al mondo che lo circonda, il quale esprime il suo disagio esistenziale attraverso l'autodistruzione fisica e morale e la ricerca di sensazioni raffinate e morbose. Il gusto del male e della decadenza va però inteso come reazione all'impossibilità di attingere la purezza e la perfezione verso cui il poeta si sente profondamente attratto e che sa di non poter conquistare. Questa sofferenza che porta il "poeta maledetto" alla distruzione e alla morte precoce si traduce in un'arte altissima e perfetta attraverso la quale egli si libera dale male e dalla sofferenza della vita [**]

[**] Ne è un esempio Cioran, che scriveva

"Promossi al rango di incurabili, siamo materia dolente, carne urlante, ossa rose da grida, e i nostri stessi silenzi non sono che lamenti strozzati."

"Distruggere significa esercitarsi a non essere niente."

"Le ossessioni espresse sono affievolite e per metà superate. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti e logorarti."

"A furia d'insistere sulle mie miserie passate e future, ho trascurato quelle del presente. Ciò mi ha consentito di sopportarle più agevolmente che se avessi consacrato le mie riserve d'attenzione."

Nota di Lunaria: per approfondire il Decadentismo morboso e che "flirta" col demoniaco, vedi la recensione fatta a "Là-Bas, Abisso" http://intervistemetal.blogspot.com/2017/08/la-blasfemia-black-metal-la-sua-origine.html
che, ovviamente, è un testo che sta "alle origini" dell'attitudine Black Metal.

Commento a ''Narcisi'' di William Wordsworth

Info tratte da




William Wordsworth (1770 - 1850) insieme a Samuel Coleridge è considerato uno dei massimi fondatori e interpreti del Romanticismo Inglese.
Trascorse l'adolescenza a contatto con la Natura, che considerò sempre amica e madre confortatrice.
Le "Lyrical Ballads", pubblicate nel 1798, insieme al poeta Coleridge, sono considerate il manifesto del Romanticismo Inglese: i componimenti di Wordsworth esprimono una visione serena della Natura, quelli di Coleridge danno voce alla componente del sovrannaturale e al gusto del mistero (che da lì a poco inaugurerà la moda del romanzo Gotico. Nota di Lunaria)
I due poeti erano anche molto diversi per carattere: irrequieto, schiavo dell'oppio e tormentato Coleridge, più tranquillo e sistematico Wordsworth.
Tra le opere di Wordsworth oltre alla "Ballate Liriche" ricordiamo anche "Preludio" [*], un poema filosofico nel quale egli descrive la sua formazione spirituale e poetica, e "Poesie in due volumi".
I versi di Wordsworth trasmettono al lettore la vertigine provocata dal guardare fissamente e dall'evocare istanti che tutti possono vivere quotidianamente, ma che solo il poeta è in grado di captare ed esprimere. Si viene così a creare un rapporto speculare tra il poeta e il lettore: il primo prova un'emozione, la rivive a distanza di tempo e in tranquillità nella memoria, quindi la traduce in poesia; il lettore a sua volta leggendo la poesia riprova l'emozione descritta dal poeta, la custodisce nella sua memoria e può rievocarla a distanza di tempo.

[*] Versi tratti da "Il preludio" (1850)

 

Si è scrollato via,
come per miracolo si è scrollato via,
il peso di un me stesso innaturale,
l'oppressione di troppi giorni uggiosi,
giorni non miei, non fatti per me.
Lunghi mesi di pace (se parola così ardita
possa mai dirsi per la vita umana),
lunghi mesi di calma e gioia ininterrotta
mi si aprono davanti. Dove mi volgerò?
Strada, sentiero, campo aperto,
o sarà un ramoscello o altro oggetto portato
dalla corrente a indicarmi la strada?

It is shaken off,
as by miraculous gift 'tis shaken off,
that burden of my own unnatural self,
the heavy weight of many a weary day
not mine, and such as were not made for me.
Long months of peace (if such bold word accord
with any promises of human life),
long months of ease and undisturbed delight
are mine in prospect; whither shall I turn,
by road or pathway, or through open field,
or shall a twig or any floating thing
upon the river point me out my course?

A questo punto, volendo ormai trovare
sollievo alla precedente passione, andai avanti
piano, con passi noncuranti, e in breve venni
a un luogo verde e ombroso, dove sedetti
sotto un albero, contenendo volutamente i pensieri
e abbandonandomi a una più quieta felicità.
Era autunno, un giorno calmo e placido,
sufficientemente scaldato da sole che da due ore
declinava a occidente; un giorno
di nuvole d'argento, di luce sull'erba,
e - nel riparato boschetto dove giacevo -
di perfetto silenzio.

Whereat, being not unwilling now to give
a respite to this passion, I paced on
gently, with careless steps; and came, ere long,
to a green shady place, where down I sate
beneath a tree, slackening my thoughts by choice,
and settling into gentler happiness.
'Twas autumn, and a calm and placid day,
with warmth, as much as needed, from a sun
two hours declined towards the west; a day
with silver clouds, and sunshine on the grass,
and in the sheltered grove where I was couched
a perfect stillness.

La mente dell'uomo si compone come il respiro
e l'armonia della musica. Vi è un oscuro
invisibile lavorio che riconcilia
elementi discordi, e li fa muovere
in sintonia. Ah, che tutti
i terrori, tutti i primi dolori,
rimpianti, sconforti, abbandoni, che tutti
i pensieri e i sentimenti che sono stati istillati
nella mia mente, abbiano potuto comporsi
nella calma esistenza che è mia quando
son degno di me stesso! Sia lode al fine!

The mind of man is framed even like the breath
and harmony of music; there is a dark
invisible workmanship that reconciles
discordant elements, and makes them move
in one society. Ah me! That all
the terrors, all the early miseries,
regrets, vexations, lassitudes, that all
the thoughts and feelings which have been infused
into my mind, should ever have made up
the calm existence that is mine when I
and worthy of myself! Praise to the end!

Del clamore intanto
risuonavano i dirupi;
gli alberi spogli e i crinali ghiacciati
tintinnavano come ferro, mentre i colli lontani
in quel tumulto mettevano un suono estraneo
e melanconico non inosservato,
le stelle a oriente luccicavano chiare...

With the din, meanwhile,
the precipices rang aloud;
the leafless trees and every icy crag
tinkled like iron; while the distant hills
into the tumult sent an alien sound
of melancholy not unnoticed, while the stars
eastward were sparkling clear...

Le sabbie di Westmorland, le baie e i torrenti
dei rocciosi confini del Cumberland, sanno bene
- quando il mare deponeva l'ombra notturna
e alle capanne dei pastori sotto i dirupi
dava dolce notizia del sorgere della Luna -
come io indugiassi in fantasie di questo tipo,
avvolto nella tenerezza del pensiero...

The sands of Westmorelands, the creeks and bays
of Cumbria's rocky limits, they can tell
how, when the Sea threw off his evening shade,
and to the sheperd's huts beneath the crags
did send sweet notice of the rising moon,
how I have stood, to fancies such as these,
engrafted in the tenderness of thought...


"Daffodils", "Narcisi", è tratta da "Poesie in due volumi"

Erravo solo come nube
che alta fluttua su valli e colli,
quando a un tratto vidi una folla,
una schiera di narcisi muover a danza;
lungo il lago e sotto gli alberi
ne danzava nella brezza una miriade.

Lì presso danzavano le onde scintillanti,
in letizia dai narcisi soverchiate;
un poeta non poteva ch'esser lieto
in così ridente compagnia.
Mirando e rimirando, poco pensai
al bene che la vista mi recava:

ché spesso quando me ne sto coricato,
senza pensieri, o pensieroso, i narcisi
mi balenano all'occhio interiore
che rende la solitudine beata,
e allora mi si ricolma il cuore
di piacere, e danza con loro.


I wandered lonely as a cloud
that floats on high o'er vales and hills,
when all at once I saw a crowd
a host of golden daffodils,
along the lake, beneath the trees,
ten thousand dancing in the breeze.

The waves beside them danced but they
outdid the sparkling waves in glee:
a poet could not but be gay
in such a laughing company:
I gaz'd - and gaz'd - but little thought
what wealth the shew to me had brought:

for oft, when on my couch I lie
in vacant or in pensive mood,
they flash upon that inward eye
which is the bliss of solitude;
and then my heart with pleasure fills,
and dances with the daffodils.


La lirica riassume alcuni degli aspetti più significativi del Romanticismo Inglese: il poeta descrive una luminosa distesa di narcisi dorati che egli ha visto un giorno mentre vagava solitario per la campagna. Il loro piegarsi sotto il soffio lieve del vento primaverile ha la leggerezza di una danza spumeggiante e si armonizza col movimento delle onde che lambiscono la pioggia.
A distanza di tempo, mentre è disteso sul letto, improvvisamente la visione della marea ondeggiante dei narcisi riaffiora alla sua memoria suscitando in lui una sensazione di gioia e di leggerezza.

Tre sono gli elementi che caratterizzano la lirica:

- il soggettivismo
- la visione vitalistica della Natura
- la capacità della memoria di riaccendere e fissare un'esperienza emotiva.

La parola con cui il componimento inizia è "I", io, che enfatizza il carattere soggettivo e personale dell'esperienza del poeta; tale sensazione è rafforzata da "lonely", solitario.
Attraverso la rievocazione memoriale compiuta in solitudine, il poeta richiama alla mente l'immagine che gli ha provocato gioia ed emozione.
La natura appare vivificata: i narcisi danzano al vento, le onde del lago accompagnano la loro danza; il vagare senza meta del poeta è paragonato a quello della nuvola; la Natura stessa viene antropomorfizzata: ai narcisi e alle onde viene attribuito un sentimento umano: la gioia. La moltitudine ondeggiante dei narcisi dorati comporta una fusione tra l'Io del poeta e la Natura.
Una volta solo, ripensandoci, le immagini rimaste nell'animo del poeta, riaffiorano con la stessa vitalità del primo momento.

Il tema del personaggio che vaga in mezzo alla natura è abbastanza diffuso nella cultura romantica: basta citare il quadro di Caspar David Friedrich "Viandante sul mare di nebbia".

 

Nota di Lunaria: ma lo stesso tema era già presente in certa poesia rinascimentale italiana. Cito l'autore più rappresentativo: Luigi Tansillo





E freddo è il fonte, e chiare e crespe ha l'onde
e molli erbe verdeggian d'ogn'intorno (1),
e 'l platano coi rami e 'l salce, e l'orno
scaccian Febo (2), che il crin talor v'asconde:
e l'aura appena le più lievi fronde
scuote; sì dolce spira al bel soggiorno [...]

(1) Dappertutto, lungo le rive
(2) Il Sole


Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)

(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti


"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."

Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.

Jean Ray "La Giostra" (racconto horror)



Anni fa a Londra, in Bethnal Green, tra Shoreditch Station e Bricklane, c'era una squallida piazza che portava il nome di Altwater Square, nome che conservò fino al giorno in cui crollò il muro sul quale era scritto. Più avanti si stabilì in quell'area un parco di divertimenti che gli abitanti del quartiere chiamavano French Fair immaginando, e non del tutto a torto che le fiere di Francia gli somigliassero in tutto e per tutto. Durante i mesi d'inverno le tende e le baracche restavano chiuse: le prime ben legate e riparate dai copertoni, le altre inchiodate come casse. Nelle roulottes parcheggiate in disparte la popolazione della French Fair trascorreva la cattiva stagione in una specie di letargo, vivendo del proprio grasso come gli orsi per ridestarsi persone e cose, soltanto a primavera. All'inizio la French Fair contava un circo equestre, un serraglio, parecchie giostre - le cosidette merry-go-round - la vasta tenda di un illusionista e un numero imprecisato di lotterie, friggitorie e antri di cartomanti. Ma, dopo un lungo periodo di relativa floridezza, essa conobbe il declino; il numero dei "mestieri", per usare il gergo dell'ambiente, andò diminuendo; inoltre il quartiere diventava sempre più povero.

Il circo equestre divenne ambulante e non ritornò più in Bedhal Green. I leoni e le tigri morirono di vecchiaia e di tisi; gli orsi furono acquistati dallo Zoo di Londr; il pitone gigante fuggì e andò a morire nella fogna dove si era rifugiato; le scimmie entrarono al servizio di alcuni suonatori di organetti italiani. Un'ordinanza imprevista proibì alle indovine e ai veggenti di continuare a esercitare la loro attività; e i superstiti vissero alla giornata, sotto il segno della decrepitezza.
Al Blass era nato nella French Fair al tempo in cui suo padre, Silas Blass faceva quattrini con la sua giostra. All'epoca in cui ha inizio questa storia l'ultimo merry-go-round apparteneva ad Alerton Blass.
Silas era un furbacchione che asseriva di essere amico del progresso e che, grazie a una trovata, era riuscito a battere tutti i suoi concorrenti. Egli aveva sostituito buona parte dei suoi cavalli di legno con leoni e maiali; e, parrebbe impossibile, la clientela preferiva montare un leone o un porco invece di un comune cavallo.

Al crebbe in questo ambiente chiassoso ma bonario. Menando frustate che facevano molto rumore e poco male egli incitava la vecchia giumenta che azionava la giostra; ridava il colore agli animali di legno sbiaditi e ne fabbricò anche un paio di nuovi perchè era abile di mano.
Aveva 25 anni quando il vecchio Silas morì lasciandogli un affare che non andava troppo male. Si parlava di un suo matrimonio con Betty, una ragazza che gestiva una lotteria a ruota. Ma poco tempo prima delle nozze la bella vendette la sua azienda e partì con un capitano in aspettativa. Alerton se ne consolò soltanto quando seppe che Betty la rossa non era che una volgare prostituta che i marinai in libera uscita nella Commercial Road potevano offrirsi a turno per qualche bicchiere di gin o una manciata di sigarette. Tuttavia gli rimase una certa diffidenza verso il  sesso gentile e non volle prender moglie. Assunse al suo servizio un vecchio, taciturno  e cupo, Gil Barker, un ex clown che ebbe l'incarico di incassare i quattrini, di allontanare chi non pagava e di girare la manovella dell'asse rotatorio. Un mattino la vecchia cavalla fu trovata morta nella sua stalla di tela e lo squartatore se la portò via. Al acquistò un vecchio cavallo da corsa che acconsentì a nitrire e a saltare ma non a fare la parte del derviscio che gira su se stesso; e dovette rivenderlo, perdendoci, a un ambulante che faceva i mercati e possedeva un carrozzino. Fu allora che gli venne la famosa idea di modernizzare la  sua giostra. La polizia fluviale aveva scartato alcuni motori a gasolio che non servivano più alle sue vedette. Al ne acquistò uno quasi a prezzo da ferrovecchio. L'illusionista che aveva qualche cognizione di meccanica gli insegnò a far girare contemporaneamente, con l'ausilio di una cinghia e di una puleggia, il perno e la piattaforma e  tutto andò secondo i suoi disegni. La giostra girava assai più rapidamente di prima, l'organo meccanico faceva più rumore di una banda e i clienti erano soddisfatti. Disgraziatamente i tempi diventavano sempre più duri e svaghi diversi e più lontani attiravano i giovani del quartiere. Ma Al era un uomo che si accontentava di poco e seppe tenersi a galla senza eccessive preoccupazioni. Fino al giorno in cui Uragano si ruppe le reni e le zampe.
Uragano era un bel cavallo marrone, con sella di feltro e briglie dorate e tempestate di pietre false. Faceva colpo, e quando la giostra si metteva in moto restava di rado senza cavagliere. Quel giorno era stato scelto da un omaccione zavorrato di birra e di brandy in soprappiù dei suoi cento chili abbondanti; ma costui era appena montato in sella che già crollava sulla piattaforma tra i frammenti e le schegge di quello che era stato Uragano.

Al riuscì a stento ad ottenere dal gigantesco cavaliere alcuni scellini a titolo di risarcimento e si recò da un fabbricante di attrezzi da fiera per acquistare un sostituto del povero Uragano. Ma le tariffe erano cambiate e il costruttore domandò un prezzo così esorbitante che Alerton ritornò a casa a mani vuote.

L'assenza del cavallo marrone non impediva alla giostra di girare, ma il vuoto che esso aveva lasciato nelle fila degli animali pungeva il cuore di Al Blass che finì col trovarne insopportabile la vista. Ora, Gil Barker era forse un vecchio brontolone, e scimunito per di più, ma capiva il dolore del padrone; e una sera rientrò curvo sotto un pesante fardello.

- Questo servirà a costruire un nuovo Uragano- borbottò. E Al vide che il fardello era un grosso pezzo di legno.
- Dove lo hai preso, Gil?- domandò.
Il vecchio scrollò le spalle, fece un segno in direzione dei moli e disse con voce sorda:  -Bè, laggiù -.
Poi riempì la pipa e si mise a fumare in silenzio.
- Non ho mai visto un legno simile- mormorò Al.
-Non è duro ma pesa come il piombo. E che strano odore!- Infatti il legno mandava un fetore nauseabondo di marcio e il suo colore verdastro non aveva nulla di attraente. Ma un proverbio del Midlands, forse noto anche altrove, dice che a caval donato non si guarda in bocca; e Al prese la mazzuola e lo scalpello e si mise all'opera immediatamente. Il legno si prestava bene a quello che egli voleva farne, e a poco a poco il nuovo corsiero prese forma. Era un bel lavoro. Il corpo, soprattutto, di linee snelle e robuste era ben riuscito; solo la testa non rispondeva ai desideri di Al, sebbene egli avesse cercato più volte di modificarne la forma. Era, tuttavia la testa di un cavallo; ma con un'espressione di ferocia diabolica che faceva paura a guardarla e che, al suo confronto, faceva apparire innocue capocce di pecore le teste dei leoni. Un ultimo tentativo di correggerla si concluse con un disastro. Causa un falso movimento lo scalpello incise le labbra della bestia cosicché le sue fauci si spalancarono quasi per una terribile minaccia. Allora, per evitare di far peggio, lo scultore ripose i suoi strumenti. Ma il peggio fu fatto quando Barker ci mise nuovamente le mani. Il vecchio aveva voluto rendersi utile e, sacrificando una parte del suo riposo notturno, aveva dipinto il nuovo ospite. Aveva scelto un atroce colore scarlatto e uno smalto di un bianco brillante per adornare la bocca spalancata di una possente rastrelliera di denti. Un rimasuglio di vermiglio e di smalto servì a dipingere un paio d'occhi enormi, inverosimili, sporgenti come quelli di un granchio mostruoso. Al rabbrividì quando vide il capolavoro, ma non avrebbe voluto per tutto l'oro del mondo arrecare un dispiacere al vecchio servitore criticando o disapprovando la sua opera. Così il nuovo corsiero prese il posto dell'altro. Non ebbe, però, lo stesso nome, perchè Gil dichiarò dando un'amichevole manata al mostro: -Sue... se lo chiamassimo Sue?-
- Perchè?-
- Quand'ero domatore di belve...- incominciò Gil Barker...

In effetti, prima di mettersi, ormai vecchio, a  divertire il pubblico con farse pietose e goffe capriole egli aveva presentato nel circo un numero di bestie feroci.
- ... Lavoravo con una tigre, un vero mostro. Aveva fatto fuori quattro domatori, ma a me non fece mai del male. Si chiamava Sue.-
- Vada per Sue, allora - rispose Al ridendo. -Ci figureremo che sia una giumenta. -
Sue entrò nella giostra, seguì la ronda dietro il leone Rabo e piacque molto ai giovani cavalieri, orgogliosi di poter cavalcare una bestia dall'aspetto così feroce senza correre il rischio d'essere fatti a pezzi o di mordere la polvere.

Alerton Bass era un uomo solitario, i cui pensieri giravano in un cerchio chiuso come i suoi animali di legno. Talvolta cercava di scambiare qualche parola con Gil Barker, ma questi rispondeva con un mugolio oppure faceva il sordo, come Cob Cow della favola che sente soltanto quando gli fa comodo. Un mattino tuttavia, Gil uscì dal suo mutismo per gridare rabbiosamente: - Vorrei proprio sapere che è il figlio di cane che ha conciato Ravo in questa maniera! -. Rabo il leone aveva perduto la coda e aveva i fianchi profondamente scorticati. Il vecchio mugugnò e finì col dire che avrebbe stretto le viti a Sue perchè si chinava troppo in avanti. Mentre era intento a questo lavoro, Al lo udì mormorare: -Brutto demonio, hai allungato il collo, eh?- E pochi minuti dopo lo udì soggiungere: - Bisogna star buoni, bellezza...non si può mordere le altre bestie...Non si può. -

Era appena scoppiata una tempesta che doveva durare tre giorni interi. Londra era scomparsa in una nuvola d'acqua e di fumo; le raffiche di vento schiantarono gli alberi dei parchi e mandarono qualche tetto a fare un volo. La French Fair dovette chiudere le tende e la sua gente si ritirò nelle roulottes o andò ad affogare le sue pene nelle osterie dei dintorni. Ma, a parte qualche bancarella rovesciata, la fiera non ebbe troppo a soffrire per il cattivo tempo e la vita normale riprese il suo corso. Prima di rimettere in moto la giostra, Gil fece un giro d'ispezione per vedere se ogni cosa era in ordine.
- Maledizione!- gridò a un tratto. -Sono tre giorni che non giriamo e le viti di questa dannata bestia non tengono più.- Si guardò intorno, ma non scorse Alerton che si era nascosto poco lontano presentendo che qualcosa di insolito stesse per accadere. Il vecchio diede un calcio a Sue borbottando: - Canaglia, come se non lo sapessi che sei stata tu, nessun altro che tu, a fare a pezzi Rabo.-

Faceva buio perchè i teloni non erano ancora stati tolti e Al poteva distinguere soltanto le forme fantomatiche degli animali di legno e quella gesticolante del suo domestico.
-Ah! Baldracca...carogna-
- Cosa succede?- domandò Al uscendo dal suo nascondiglio.
- Niente di grave. Un chiodo della gola di Sue che mi ha graffiato.-
Per tutta settimana Gil Barker portò la mano fasciata. Durante la notte Al lo udiva spesso lamentarsi e bestemmiare sottovoce.

In un pomeriggio tetro e di pubblico scarso il motore della giostra si arrestò. La piattaforma fece ancora mezzo giro e stava per fermarsi quando, repentinamente, riprese il movimento in maniera disordinata. Al non poteva credere ai propri occhi: il merry-go-round girava sempre più in fretta e i pochi ragazzi che cavalcavano gli animali urlavano di terrore. Il movimento si accellerava fino a dare le vertigini in un silenzio vasto, pesante che accentuava la stranezza del fenomeno: infatti il meccanismo centrale restava muto, con i suoi fantocci fissati in una immobilità paurosa. Gli occhi di Al erano fissi su Sue. Il ragazzo che stava in sella si aggrappava al collo dell'animale piangendo e gridando che stava per cadere e ammazzarsi. Puf, puf, puf...il motore si rimise in marcia e i fantocci del perno centrale ripreso a batter tamburi e triangoli.
- Senti un po'- esclamò il monello che era saltato a terra appena la giostra aveva rallentato. -La tua bestiaccia suda, attacca e puzza...e come puzza! - e scuoteva le mani con disgusto. Al vide larghe chiazze umide luccicare sui fianchi di Sue, ma non cercò di capire. D'altraparte c'era forse qualcosa da capire?
Durante la notte egli udì un rumore come se una schiera di topi si desse da fare da qualche parte. E poteva darsi che fossero davvero topi , dato che a French Fair non ne mancavano. Ma la mattina seguente Gil Barker dovette staccare il leone Rabo che aveva i fianchi dilaniati; e Al vide che il vecchio toglieva di nascosto delle schegge di legno dalla bocca di Sue.

- Ehi, Blass- disse Sol Corter, l'illusionista, - forse che Barker ha ripreso il suo antico mestiere di domatore e si esercita di nascosto?-
- Cosa ti salta in mente?- si stupì Al.   
-Deve già una sterlina e quattro scellini a Grudden che ha una macelleria di carne di cavallo in Bricklane; e ieri, quando Grudden ha rifiutato di fargli ancora credito, si è quasi messo in ginocchio. Alla fine, è riuscito a portarsi via un po' di carnaccia.
Al riflettè un poco; poi, durante una breve assenza del suo domestico, andò a esaminare Sue con maggiore attenzione. Il legno con il quale la bestia era stata fabbricata non aveva mai olezzato di rosa, ma adesso esalava un fetore insopportabile di putrefazione. - Dove ho già sentito questa puzza?- mormorò Al. Più tardi, durante il giorno, si battè la mano sulla fronte: ricordava, ma era un ricordo che rendeva le sue idee ancora più confuse. Quel fetore era l'alito delle tigri del serraglio di Westlock.
Una notte Al Blass fu destato dal soffio freddo di uno spiffero; e, alla luce di un fanale che entrava da un finestrino della roulotte, vide che la cuccetta di Gil era vuota. Il fatto non aveva nulla di singolare, senonché dall'esterno giungeva un rumore strano che non era quello della pioggia che martellava i tendoni e le lamiere di copertura. Una lanterna era accesa all'interno della giostra e un triangolo di luce  usciva dal tendone. Udendo un rumore soffocato di colpi, di salti e di cadute, Al sgattaiolò dentro.

Accadde allora qualcosa di fulmineo e di confuso. Vide vicino al suo viso quello di Gil Barker, rosso di sangue, contratto dalla disperazione e dal dolore; e poi una forma che girava a vuoto. Urtò contro qualcosa, oppure fu urtato, e cadde con la faccia al suolo e un dolore lancinante che gli trafiggeva il petto. Nello stesso istante la lanterna si staccò dal palo e andò a sbattere contro la damigiana piena di gasolio. - Al fuoco- urlò Al. Ma già un cerchio di fiamme ruggenti lo circondava.  
Meno di un'ora dopo la povera casa di assi e di tela che era stata French Fair non era più che cenere rossa che sibilava sotto la pioggia. Per un vero miracolo la vittima fu una sola: Al Blass, il cui cadavere fu trovato semi carbonizzato tra i resti del suo merry-go-round.

- Sarà bene fare indagini- dichiarò il sergente di polizia che aveva assistito ai lavori di salvataggio.       
- Direi che questo colpo è stato tratto col coltello.-
Si cercò Gil Barker che era sparito, e non ci volle molto a trovarlo. Il suo cadevere giaceva nel settore di manovra di Shoreditch-Station. Il dottor Andrew Matthis che si era recato sul posto su invito della polizia raccontò: - è una fortuna che gli fosse rimasto un pezzo di testa che ci ha permesso di identificarlo. Il resto non era che poltiglia. Pareva che l'avessero passato al tritatutto per farne polpette. Gli era rimasto anche un pezzo di mano, però; quanto bastava per impugnare un'ascia dalla lama completamente storta e che sembrava intrisa di vischio o di melassa.-. Intorno al cadavere furono raccolti grossi pezzi di una sostanza verdastra, densissima, esalante un odore così nauseabondo che il dottor Matthis fu colto dai conati di vomito.

Dieci anni dopo, il dottor Andrew Matthis faceva parte di una spedizione scientifica inglese nel deserto del Gobi. Una sera la comitiva incontrò la spedizione del professor Hatterly, e nella triste solitudine del deserto i due gruppi di scienziati fraternizzarono.
- Abbiamo fatto una scoperta eccezionale, senza precedenti - raccontò il professore, - sulle rive di uno di quei maledetti laghi salati che pullulano da queste parti. Anzi, non dovrei maledirli, perchè è proprio grazie al sale delle loro acque che il cadavere è relativamente ben conservato.
- Un cadavere? Domandò il dottor Matthis. - Allora dev'essere bene avanti negli anni, perchè da secoli qui non ci sono altri esseri viventi all'infuori delle tarantole o delle cavallette.-
- Secoli? Dite pure millenni, caro collega- rispose l'americano ridendo. E diede ordine di aprire alcune casse.
-Fortunatamente la testa è quasi intatta- continuò, - mentre il resto del corpo si è in gran parte decomposto e disgregato. Ma lo portiamo via ugualmente; ci permetterà di fare ricerche più ampie.-
Il dottor Matthis trattenne a stento un'esclamazione di terrore quando Hatterly gli fece vedere una testa mostruosa, di una laidezza senza pari. - Sarebbe una tigre... ma con l'orrore in più!-
- Infatti. Non credo di sbagliare dicendo che si tratta di un machairodus, la tigre della preistoria. Osservate la testa, allungata, come quella di un cavallo o di un asino. E il muso: non ne trovate di simili in nessun altro grande animale feroce. Ma che razza di gigante doveva mai essere questo...Due volte le dimensioni di un bufalo, vi pare?- Indicò  un'altra cassa dalla quale usciva un odore ripugnante. - Muscoli quasi putrefatti. Osservate il loro strano colore verdastro e bronzeo; forse il sale ne è la causa, almeno in parte. Quanto al fetore, non penso che sia dovuto alla putrefazione ma che sia l'odore "sui generis" del mostro. Altrettanto insolita è la densità di questa sostanza: 6.50, pressapoco la stessa dell'antimonio.-

Richter, lo scienziato austriaco che faceva parte della spedizione americana e aveva passato molti anni in Siberia, disse a sua volta: - Nell'Ostrog, gli uomini delle tribù Schamanes scoprono qualche volta corpi simili imprigionati, ma si guardano bene dal toccarli, anzi si allontanano in fretta e vanno a rizzare le loro tende il più lontano possibile. E, non ho mai capito perchè, chiamano quei corpi  "La cosa che resta terribile e non muore mai".-

Andrew Matthis si chiese allora dove avesse visto resti identici a quelli che esalavano lo stesso fetore pestilenziale. Se ne ricordò solo qualche giorno dopo, e la sua mente concepì un'ipotesi allucinante e spaventosa. Ma, riflettendo, si rese conto di quello che sarebbe avvenuto se l'avesse resa pubblica: la levata di scudi degli ambienti scientifici, le controversie appassionate, le risate di disprezzo, le ingiurie, perfino. E poichè ambiva a una cattedra a Oxford o a Cambridge, preferì tacere.