Il Satana Miltoniano

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Indubbiamente Satana è la più grande creazione del genio miltoniano, il più imponente, aggressivo, affascinante dei personaggi del Paradiso Perduto; al punto da giocare un brutto scherzo al suo creatore: far credere che proprio lui, il puritano John Milton, fosse dalla sua parte, non solo simpatizzando, ma addirittura identificandosi col grande ribelle infernale. Cosa che non passò mai per il capo di Milton; se poi una certa dose di simpatia sia sfuggita al suo autocontrollo, se sia stato il suo subconscio ad identificarsi con Satana, a noi non è dato di indagare.
Quando riemerge dal lago ardente e s'avvia alla spiaggia, riscotendosi dopo la caduta dal Cielo, Satana non ha perso ancora, se non in piccola parte, lo splendore della sua natura angelica. La sua luce è come quella del sole, velata però dalle nebbie del mattino o come quella della Luna, oscurata in parte da un'eclissi.
Quando, passate in rassegna le sue schiere, convoca il gran concilio strategico di Pandemonium, Satana siede in trono, circondato da mille semidei su seggi d'oro. Ma col procedere del dibattito la favolosa impotenza del Titano comincia a ridursi a dimensioni più umane e col decrescere della gigantesca statura, emergono caratteristiche e atteggiamenti simili piuttosto a quelli di uno scaltro, abilissimo leader politico o di un potente condottiero. La sua forza è più che umana, ma già costretta in schemi che ci sono familiari: per la prima volta si attenua l'atmosfera mitica, sovrannaturale, che aleggiava intorno alla sua figura. Il ribelle acquista però ben presto una nuova grandezza, quella di un coraggio smisurato come il suo orgoglio.




Quando affronta il viaggio attraverso il vasto spazio sconosciuto per raggiungere il Paradiso Terrestre, è il nuovo spazio di Copernico e Galileo quello in cui Satana si avventura: lo spazio senza limiti, senza confini, dove tempo, luogo, dimensioni, sono concetti senza senso: il vuoto, dove non v'è mare, né coste, né aria, né fuoco ma il Caos. Il Gran Nemico lo osserva, dall'orlo dell'inferno: un lungo momento di esitazione, finché la sua tempra indomabile ha il sopravvento, e il suo orgoglioso coraggio affronta gli inquietanti misteri del Nulla.  Eppure il re dei demoni non è poi così forte ed incrollabile come sembra: ha i suoi momenti di stanchezza, i suoi ripensamenti, conosce i dubbi, le incertezze, anche la paura. E nell'inferno della sua anima si succedono le esitazioni, la feroce determinazione, l'ira ribollente per la propria debolezza, l'invidia inconfessata e quindi l'odio più cupo per l'Uomo, così felice e puro e innocente. Una ridda di abiezioni, in mezzo alle quali s'aprono ancora, tuttavia, spiragli di luce, specialmente quando paragona, con infinita amarezza, il suo stato attuale a quello di un tempo, e a quello, inesorabilmente peggiore, che verrà. E quando ammette, sia pur a denti stretti, che sua soltanto, e non di Dio, è stata la colpa di quanto è successo, sa che potrebbe forse tornare al Cielo e indugia sul quel pensiero. Ma non è certo uno scrupolo del genere a trattenere il ribelle: la molla che lo fa agire è l'orgoglio, l'incoercibile orgoglio: per tornare a Dio dovrebbe pentirsi, sottomettersi. Impossibile, intollerabile! "Male, sii tu il mio Dio!", il grido blasfemo ribadisce la condanna. Satana ha scelto ancora una volta, deliberatamente, inesorabilmente: sarà l'eterno nemico, l'antagonista di Dio; è il primo passo verso la degradazione. Il suo pallido volto si sfigura tre volte, d'ira, d'invidia, di disperazione. E sottilmente, attraverso un gioco di similitudini, il poeta ne sottolinea anche il decadimento fisico. L'angelo caduto viene paragonato sempre più frequentemente ad animali sempre più bassi, fino al serpente. Tuttavia riesce difficile al poeta dimenticare l'affascinante figura del ribelle, la gloria torbida, la tenebrosa maestà delle sue prime apparizioni: il grande Satana in disfacimento ha ancora dei sussulti di grandezza. Per esempio, quando l'angelo Ituriele lo scopre, nel Paradiso Terrestre, e lo tocca con la sua lancia, il Nemico si erge improvviso in tutta la sua statura, lo fronteggia con l'antica baldanza. Come una vampata d'incendio improvvisa, suscitata da una favilla sprizzata su polveri piriche.    

***

Qualche verso del "Paradiso Perduto" di John Milton! E siccome mi piace l'Inglese antico, riporto anche il testo originale, che fa molto Cradle of Filth :D

Qualche info sull'Autore:


John Milton nacque a Londra nel 1608; poeta di educazione puritana (sì, in effetti qua e là nell'Opera appaiono leggeri cenni di "misoginia", con una garrula e felicemente obbediente Eva...comunque sorvolando sui difetti dell'opera, Milton resta sicuramente uno dei massimi Poeti Inglesi!), compì un lungo viaggio in Italia (1638-1639) ma tornò in Patria allo scoppio della guerra civile, durante la quale fu partigiano di Cromwell. Oltre ai Poemetti giovanili "L'allegro" e "Il pensieroso", all'Idillio Pastorale "Comus", all'Elegia "Lycidas", ai Sonetti ("Sulla mia cecità" il più noto), scrisse trattati teologici e polemici, anche se la sua fama è legata al Poema "Paradiso Perduto", seguito da "Paradiso Riconquistato" (io però non l'ho mai trovato in giro...) e la Tragedia "Sansone Agonista". Morì nel 1674.  


Libro I

"Chi fu che li sedusse per primo all'insana rivolta?
Il Serpente infernale; fu lui che con malizia,
accecato da invidia e vendetta, trasse in inganno la madre
di tutti gli uomini, al tempo che il suo orgoglio
l'aveva esiliato dal cielo con tutte le sue schiere
di angeli ribelli, con il cui aiuto aspirava a levarsi
più in alto della gloria dei suoi pari, convinto
di poter uguagliare l'Altissimo, se gli si fosse opposto;
e in ambizioso disegno un'empia guerra mosse
nei cieli contro il seggio ed il regno di Dio.
Ma la lotta orgogliosa fu inutile. Poichè l'Onnipossente
lo gettò capofitto fiammeggiante dall'etereo cielo
con orrenda rovina riarso in quella perdizione senza fondo,
dove dimora in catena di adamante, nel fuoco della pena,
colui che aveva osato sfidare alle armi il Dio Onnipotente.
Nove volte lo spazio che il giorno e la notte misura
agli uomini mortali, con la sua orrenda ciurma fu sconfitto,
e cadde rotolando nel golfo di fuoco, travolto, sebbene immortale.
Ma il destino altra pena doveva riservargli; il pensiero della felicità perduta e insieme del dolore interminabile
ancora lo tormenta, e così getta attorno i suoi sguardi funesti,
che testimoniano immensa afflizione, e sgomento
commisto a odio tenace, e inflessibile orgoglio. Per quanto è dato agli angeli distendere lo sguardo, egli subito osserva quell'aspro e pauroso e desolato luogo, quella prigione orribile e attorno fiammeggiante come una grande fornace, e tuttavia da quelle
fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra
nella quale si scorgono visioni di sventura, regioni di dolore e ombre d'angoscia, e il riposo e la pace non vi si troveranno, né mai quella speranza che ogni cosa solitamente penetra; e solo una tortura senza fine urge perenne, e un diluvio di fiamme nutrito di zolfo sempre ardente, mai consunto: tale è il luogo che la Giustizia Eterna aveva preparato per quei ribelli; qui la prigione era stata ordinata nella tenebra esterna, e lo spazio assegnato tanto lontano da Dio e dalla luce del cielo tre volte la distanza dal centro del polo estremo."

Book I

"Who first seduced them to the foul revolt? Th'infernal Serpent; he it was whose guile, stirred up with envy and revenge, deceived the mother of mankind, what time his pride had cast him out from heav'n, with all his lost of rebel angels, by whose aid aspiring to set himself in glory above his peers, he trusted to have equaled the Most High, if he opposed; and with ambitious aim against the throne and monarchy of God raised impious war in heav'en and battle proud with vain attempt. Him the Almighty Power hurled headlong flaming from th'ethereal sky with hideous ruin,and combustion down to bottomless perdition, there to dwell in adamantine  chains and penal fire, who durst defy th'Omnipotent to arms. Nine times the space that measures day and night to mortal men, he with his horrid crew lay vanquished, rolling in the fiery  gulf confounded though immortal. But his doom reserved him to more wrath; for now the thought both of lost happiness and lasting pain torments him; round he throws his baleful eyes, that witnessed huge affliction and dismay mixed with obdùrate pride and steadfast hate. At once as far as angels ken he views the dismal situation waste and wild a dungeon horrible, on all sides round as one great furnace flamed, yet from those flames no light, but rather darkness visible served only to discover sights of woe, regions of sorrow, doleful shades, where peace and rest can never dwell, hope never comes that comes to all; but torture without end, still urges, and a fiery deluge, fed with ever-burning sulphur unconsumed: such place Eternal Justice ha prepared for those rebellious, here their prison ordained in utter darkness, and their portion set as far removed from God and light of heav'n as from the center thrice to th'utmost pole."


Riporto anche la traduzione di Lazzaro Papi (una traduzione che sconsiglio, se non si conosce già bene l'Opera, perchè lo stile di Papi è troppo aulico e, a tratti, difficile, se non incomprensibile! è meglio prima accostarsi ad una traduzione in italiano corrente dell'Opera di Milton, e poi magari leggersi, giusto per curiosità, o anche per apprezzare "l'Italiano Antico", quella di Lazzaro Papi)

"Al turpe eccesso chi sedusse gl'ingrati?
Il Serpe reo d'Inferno fu. Mastro di frodi e punto
da livore e vendetta egli l'antica
nostra madre ingannò, quando l'insano
orgoglio suo dal ciel cacciato l'ebbe
con tutta l'oste de' rubelli Spirti.
Su lor coll'armi loro alto a levarsi
ambìa l'iniquo e d'agguagliarsi a Dio
pensò superbo rivolgendo in mente,
incontro al soglio del Monarca eterno
mosse empia guerra e a temeraria pugna
venne, ma invan. L'onnipossente braccio
tra incendio immenso e orribile ruina
fuor lo scagliò dalle superne sedi
gù capovolto e divampante in nero,
privo di fondo disperato abisso;
ove in catene d'adamente stretto
a starsi fu dannato e in fiamme ultrici
qual tracotato sfidator di Dio,
e già lo spazio che fra noi misura
la notte e'l dì, nove fiate scorse,
che con l'orrida ciurma avvolto ei stava
nell'igneo golfo, tutto sbigottito
benchè immortal.Pur lo serbava ancora
a maggior pena il suo decreto. Intanto
l'aspro pensiero del perduto bene,
e del futuro interminabil danno
il cruccia alternamente. Intorno ei gira
le bieche luci una profonda ambascia
spiranti e un cupo abbattimento misto
d'odio tenace e d'indurato orgoglio:
ed in un punto, quanto lungi il guardo
d'un Angelo si stende, ei l'occhio manda
su quell'atroce, aspro, diserto sito;
carcere orrendo, simile a fiammante
fornace immensa; ma non già da quelle
tetre fiamme esce luce; un torbo e nero
baglior tramandan solo, onde si scorge
la tenebrosa avviluppata massa
e feri aspetti e luride ombre e campi
d'ambascia e duol, dove non pace mai,
non mai posa si trova, e la speranza
che per tutto penétra, unqua non scende.
Quivi è tormento senza fin, che ognora
incalza più, quivi si spande eterno
un diluvio di foco, ognor nudrito
da sempre acceso e inconsumabil solfo.
Tal la Giustizia Eterna a quei ribelli
aveva apparecchiata orrenda chiostra
d'esterno tenebror, remota tanto
dalla luce del ciel quant'è tre volte
lontan dal centro della terra il polo
dell'Universo."

Riporto qualche stralcio del discorso che Satana, appena caduto, rivolge alla sua cerchia di fedeli; è un monologo tutto intriso di eroismo, per quanto disperato, un eroismo puro, che pur sapendo benissimo della sua inevitabile sconfitta, non esita a erigersi come ribelle e condottiero: ad essere esaltato, a mio parere, è proprio lo sforzo del tentativo alla rivolta, che per quanto disperata e votata allo scacco e alla sconfitta, è vista come totale affermazione del Sé. è la parte più celebre del Poema, citatissima nel periodo del Romanticismo da tutti gli artisti ribelli alla società, che si identificavano con il Satana miltoniano; Dio, secondo questa interpretazione romantica era quindi lo Stato, la Chiesa Dogmatica, la società opprimente che soffoca il genio del singolo, in perenne lotta per affermarsi o farsi accettare "in un mondo massificato"; e se era così nel 1800, pensiamo a come sia la nostra società attuale, dove tutto è "piattificato"!
In questo brano di Milton, compaiono a mio avviso, due grandi temi legati al libero arbitrio: il proprio io, la propria mente, vista come inferno, o come stato perenne, che non può non rimandare al concetto di Swedenborg, oltre che ai successivi Goethe e Schiller, (e rifacendoci molto liberamente a Kierkegaard, potremmo persino dire "Non sei tu che mi perdoni Dio, sono io che non perdono me stesso, e non so che farmene del tuo perdono, se io a me stesso non perdono la mia disperazione") e il regnare, come proprio Dio, persino su un regno orribile o d'oscurità totale, la cui unica luce è proprio quella dell'Orgoglio e della Superbia Fiera di Se Stessi, perché è meglio essere padroni di se stessi in un luogo oscuro e desolato, piuttosto che essere servi - senza aver voluto essere creati - in una prigione dorata.
Viene quasi da sorridere, pensando che una delle più belle rappresentazioni letterarie di Satana, venga proprio da uno scrittore cristiano di educazione puritana!
 

Libro I

"Che importa se il campo è perduto? Non tutto
è perduto; la volontà indomabile, il disegno
della vendetta, l'odio immortale e il coraggio
di non sottomettersi mai, di non cedere: che altro
significa non essere sconfitti?"

What though the field be lost?
All is not lost: the unconquerable will,
and study of revenge, immortal hate,
and courage never to submit or yield:
and what is else not to be overcome?

" [...] Strappata dal Peloro, o dal fianco squarciato
dell'Etna che rintrona, le viscere sempre nutrite
di combustibile e pronte a concepire fuoco
sublimato di furia minerale porgono aiuto ai venti
e lasciano un fondale abbruciacchiato, ravvolto
di fumo e di fetore: simil era il terreno sul quale
posavano le piante dei piedi maledetti.
Lo seguiva il compagno più prossimo, entrambi gloriandosi
di essere sfuggiti al gorgo dello Stige
simili a dei, recuperate ormai tutte le forze,
e non perchè era il potere più alto ad averlo voluto.
"è questa la regione, è questo il suolo e il clima"
disse allora l'Arcangelo perduto, "è questa sede che
abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio
contro la luce celestiale? Ebbene, sia pure così
se ora colui che è sovrano può dire e decidere
che cosa sia il giusto: e più lontani siamo
da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione
e che la forza ha ormai reso supremo
sopra i suoi uguali. Addio, campi felici
dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori,
mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi
il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi
mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro
dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto a lui
che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno
saremo liberi; poichè l'Altissimo non ha edificato
questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,
non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio
regnare è una degna ambizione, anche sopra l'inferno:
meglio regnare all'inferno che servire in Paradiso."


Torn from Pelorus, or the shatterd side
of thund'ring Etna, whose combustible
and fueled entrails thence conceiving fire,
sublimed with mineral fury, aid the winds,
and leave a singèd bottom all involved
with stench and smoke: such restig found the sole
of unblest feet. Him followed his next mate,
both glorying to have scaped the Stygian flood
as gods, and by their own recovered strenght,
not by the sufferance of supernal power.
"Is this the region, this the soil, the clime,"
said then the lost Archangel, "This the seat
that we must change for heav'n, this mournful gloom
for that celestial light? Be it so, since he
who now is sovran can dispose and bid
what shall be right: fardest from him is best,
whom reason hath equaled, force hath made supreme
above his equals. Farewell, happy fields,
where joy for ever dwells! Hail, horrors, hail,
infernal world, ant thou, profundest hell,
receive thy new possessor: one who brings
a mind not to be changed by place or time.
The mind is its own place, and in itself
can make a heav'n of hell, a hell of heav'n.
What matter where, if I be still the same,
and what I should be, all but less than he
whom tunder hath made greater? Here at least
we shal be free; th'Almighty hath not built
here for this envy, will not drive us hence:
here we may reign secure, and in my choice
to reign is worth ambition, though in hell:
better to reign in hell than serve in heav'n."


Libro IV

"E quindi maledetto quel suo amore, se l'amore o l'odio
essendo ormai per me la stessa cosa mi procura solo
un eterno dolore. Ma no, maledetto piuttosto
tu che liberamente scegliesti la tua volontà
contro la sua volontà, e così giustamente ti rammarichi.
Me miserevole! per quale varco potrò mai fuggire
l'ira infinita, e l'infinita disperazione?
Perchè dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso
ancora più profondo si spalanca, e minaccia
di divorarmi, e a confronto l'inferno che subisco
mi sembra essere un cielo."


Be then his love accurst, since love or hate,
to me alike, it deals eternal woe.
Nay cursed be thou, since against his thy will
chse freely what it now so justly rues.
Me miserable! which way shall I fly
infinite wrath, and infinite despair?
Which way I fly is hell; myself am hell;
and in the lowest deep a lower deep
still threat'ning to devour me opens wide,
to which the hell I suffer seems a heav'n.


"Mi adorano sul trono dell'inferno
con diadema e scettro
così elevati, e proprio mentre cado
sempre più in basso, supremo ormai solo nella miseria -
essendo questa la gioia che dona l'ambizione."

While they adore me on the throne of hell,
with diadem and scepter high advanced,
the lower still I fall, only supreme
in misery; such joy ambition finds.


E ora, l'altra traduzione, ad opera di Lazzaro Papi!

"Intorno Ei gira
le bieche luci una profonda ambascia
spiranti e un cupo abbattimento misto
d'odio tenace e d'indurato orgoglio:
ed in punto, quanto lungi il guardo
d'un Angel si stende, Ei l'occhio manda
su quell'atroce aspro, diserto sito;
carcere orrendo, simile a fiammante
fornace immensa; ma non già da quelle
tetre fiamme esce luce; un torbo e nero
baglior tramandan solo, onde si scorge
la tenebra avviluppata massa
e feri aspetti e luride ombre e campi
d'ambascia e duol, dove non pace mai,
non mai posa si trova, e la speranza
che per tutto penétra, unqua non scende.
Quivi è tormento senza fin, che ognora
incalza più, quivi si spande eterno
un diluvio di foco, ognor nudrito
da sempre acceso e inconsumabil solfo."


Un commento, all'Opera di Milton :D

"L'antitesi irriducibile Dio-Satana torna ad essere il motivo ispiratore del "Paradiso Perduto", di John Milton (1608-1674). Satana, l'angelo ribelle, precipita assieme a quelli che l'hanno voluto seguire nel caos, ma non si arrende. Ha udito in cielo una profezia a proposito della creazione di un nuovo mondo, la Terra, e di un essere, l'Uomo, e decide di saperne di più. Da qui prende il via una serie di eventi drammatici: il Figlio offre se stesso per la salvezza dell'umanità, destinata a essere tentata e pervertita dal Demonio. Satana assume la forma di angelo minore e penetra, tra dubbi e timori, nell'Eden; Eva viene tentata una prima volta da Satana perché mangi il frutto della scienza nonostante la proibizione divina, ma interviene l'arcangelo Raffaele e racconta la storia della battaglia fra angeli buoni e angeli ribelli... Ma Satana non demorde. Tornato al Cielo, l'arcangelo ritorna nell'Eden sotto forma di nebbia, si insinua nel serpente, e si avvicina nuovamente a Eva. Blandendola scaltramente, la induce a mangiare il frutto proibito, e ad offrirlo ad Adamo. Dio allora pronunzia una servera condanna contro la prima coppia, che scaccia dal Paradiso terrestre. La Morte e la Colpa, incoraggiate dal successo di Satana, decidono di salire nel mondo abitato dall'uomo, ma l'arcangelo Michele predice l'incarnazione, la morte e la resurrezione del Figlio di Dio per la salvezza dell'umanità. La partita ora si gioca sulle virtù teologali della Fede e della Speranza, ma le porte del Paradiso terrestre si sono chiuse per sempre, e una schiera di cherubini si pone alla guardia del divino giardino.

Con Milton, suo malgrado, Satana assume definitivamente un aspetto di bellezza irrimediabilmente decaduta, e, quindi, di inconsolabile nostalgia (già il titolo del Poema è estremamente significativo). Solo chi ha rivestito questa bellezza fulgente può amaramente rimpiangerla e dare, nel suo non arrendersi, una potente caratterizzazione del Male, che è come dire  della disperazione.
"Un Lucifero come quello di Dante, ficcato immobile in mezzo alla terra, non può ricevere un aspetto epico, ma se un poeta sviluppa il mito di Lucifero come protagonista di una poema solenne, la figura stessa del Diavolo deve necessariamente assurgere all'altezza dell'Epica: così Milton alla fine nobilita il suo Satana-Lucifero con la Grandiosità stessa del compito che gli fa assumere, e la serietà con la quale egli cerca di condurlo a effetto."  (A.S.Nulli)


Nota di Lunaria: dal punto di vista letterario, oltre ai capolavori di Lermontov
( https://ildemonelermontov.blogspot.it/ ) ed Eminescu http://poesiamondiale.blogspot.it/2015/08/mihai-eminescu.html ,


si può citare anche il Caino, il Lucifero e il Manfred di Byron http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/09/byron-commento-al-manfredi-caino.html

''Il Re delle Tenebre'' di Nikolaj Rajnov


Il "Faust" di Goethe


Oltre a Carducci e al suo "Satana scientifico",


si può citare anche Lèo Taxil

"Vieni, Lucifero, vieni! O calunniato dai preti e dai re! Vieni, che noi ti abbracciamo, che noi ti stringiamo sul nostro petto! E’ molto tempo che noi ti conosciamo e tu conosci noi! Le tue opere, o benedetto del nostro cuore, non sono sempre belle e buone, agli occhi degli ignoranti, ma esse sole danno un significato all’Universo. Tu solo animi e fecondi il lavoro. Tu nobiliti la ricchezza; tu servi di essenza all’autorità; tu metti il suggello alla virtù … E tu, Adonai, dio maledetto, noi ti rinneghiamo! Il primo dovere dell’uomo intelligente e libero è quello di scacciarti dal suo spirito e dalla sua coscienza. Perché tu sei essenzialmente ostile alla nostra natura, e noi non dipendiamo per nulla dalla tua autorità. Noi giungiamo alla scienza tuo malgrado, alla prosperità tuo malgrado, alla società tuo malgrado; ciascuno dei nostri progressi è una vittoria nella quale schiacciamo la tua divinità.
Spirito mendace, Dio imbecille, il tuo regno è finito: cerca fra i bruti altre vittime. Ora, eccoti detronizzato e distrutto. Il tuo nome per troppo tempo ultima parola del sapiente, sanzione del giudice, forza del principe, speranza del povero, rifugio del colpevole penitente, questo nome incomunicabile Padre Eterno, Adonai e Jehovah, d’ora in poi votato al disprezzo e all’anatema, sarà dileggiato tra gli uomini.
Il tuo nome è goffaggine e viltà, ipocrisia e menzogna, tirannia e miseria. Fintanto che l’umanità si inginocchia davanti al tuo altare, l’umanità schiava dei re e dei preti sarà riprovata; fintanto che un uomo, nel tuo nome esecrabile riceverà il giuramento di un altro uomo, la società sarà fondata sullo spergiuro e la pace e l’amore saranno banditi fra i mortali …
Dio, ritirati! poiché sino da oggi, guariti dal tuo timore e divenuti sani, giuriamo, con la mano sollevata verso il tuo cielo, che tu non sei se non il carnefice della nostra ragione e lo spettro della nostra coscienza!"

e Mario Rapisardi



Anche  "La Bas (L'Abisso)" di J.K. Huysmans è un classico del "Satanismo letterario", anche se l'opera di Huysmans dà spazio a scene quasi grottesche di blasfemia e manca del fascino poetico degli autori che ho citato qui sopra... piuttosto, è pregno di una vena quasi pessimistica e di disgusto della condizione umana... ( http://intervistemetal.blogspot.it/2017/08/la-blasfemia-black-metal-la-sua-origine.html )


Per una visione moderna e romantica del mito dell'angelo della morte, vedi la "Touched Saga"



Infine, anche se il tema meriterebbe un commento molto più esteso, ricordiamo che Satana può diventare metafora anche delle battaglie e delle rivolte contro i tiranni e le dittature: il Titanismo lo celebrava come colui che si era ribellato al dio padre, simbolo di ordine pre-costituito e dittatoriale, e in senso metaforico, come simbolo della lotta contro la dominazione straniera (ideali risorgimentali) o il dominio papista, o ancora, come metafora del Singolo Io (Stirneriano) che si ergeva al di sopra della mediocrità della massa-gregge di pecore obbedienti e belanti. In una prospettiva parzialmente femminile (*), Satana diventa il simbolo della lotta contro il patriarcato monoteista misogino: la donna ribelle a tale ordine è "satanica" proprio perché non obbedisce: NON SERVIAM. Peraltro si noti che nel Satanismo, contrariamente al monoteismo, la donna è sacerdotessa tanto quanto l'uomo.


(*) Parzialmente femminile, perché Satana è ipostatizzato al maschile, rappresentando un concetto maschile di divinità, esattamente come il cristo o il dio padre; pertanto, non può simboleggiare la donna dal punto di vista fisico (Ipostasi del Corpo Fisico Femminile Magnificato) ma solo dal punto di vista del pensiero e dell'azione (la ribellione all'autorità dittatoriale). Più propriamente, per riferirsi ad un'Ipostasi del corpo femminile e all'identità psichica della donna che non dipendi o parta da presupposti maschili (ovvero per sviluppare una prospettiva ginocentrica alla questione-donna), si deve ricorrere agli archetipi delle Dee.


APPROFONDIMENTO SU SATANA IN TASSO, MARINO E MILTON



tratto da


Nella "Gerusalemme Liberata" di Tasso, Satana conserva l'orripilante maschera medioevale:

Orrida maestà nel fero aspetto
terrore accresce e più suberbo il rende;
rosseggian gli occhi, e di veneno infetto,
come infausta cometa, il guardo splende;
gl'involge il mento, e su l'irsuto petto
ispida e folta la gran barba scende;
e in guisa di voragine profonda
s'apre la bocca d'atro sangue immonda.

Qual i fiumi sulfurei ed infiammati
escon di Mongibello, e 'l puzzo e 'l tuono,
tal de la fera bocca i negri fiati,
tale il fetore e le faville sono.


Non molto diverso appare il Satana del Marino, nella "Strage degli Innocenti":

Negli occhi, ove mestizia alberga e morte,
luce fiammeggia torbida e vermiglia.
Gli sguardi obliqui e le pupille torte
sembran comete, e lampadi le ciglia.
E da le nari e da le labbra smorte
caligine e fetor vomita e figlia;
iracondi, superbi e disperati,
tuoni e gemiti son, folgori i fiati.

è interessante che il Marino abbia introdotto un nuovo elemento, la mestizia: "Negli occhi, ove mestizia alberga e morte".
Il Satana del Marino è mesto perché prima di tutto sente d'essere un angelo caduto.
"Misero, e come il tuo splendor primiero
perdesti, o già di luce Angel più bello!"

è un fuligginoso Narciso, un Fetonte degli abissi.

Il Marino insiste con l'aspetto prometeico di Satana:

"E se quindi il mio stuol vinto cadeo,
il tentar l'alte imprese è pur trofeo"

e, sulla bellezza del suo essere d'un tempo:

"Ah, non se' tu la creatura bella,
principe già de' fulguranti Amori,
del matutino Ciel la prima stella,
la prima luce degli alati cori?"

"Lasso, ma che mi val fuor di speranza
a lo stato primier volger la mente?"

"Ma qual forza tem'io? già non perdei
con l'antico candor l'alta natura"

Questo aspetto di Satana Milton lo ebbe presente, quando nel Primo Libro del Paradiso Perduto si accinse a descrivere il concilio infernale. Milton conosceva la traduzione che del Primo Canto della "Strage degli Innocenti" aveva fatto Richard Crashaw, e conosceva l'originale italiano. Il Crashaw aveva reso il passo:

"Misero o come il tuo splendor primiero
perdesti, o già di luce Angel più bello!"

con

"Disdainefull wretch! how hath one bold sinne cost
Thee all the Beauties of thy  once bright eyes?"

Per Milton questo "splendor primiero" non è del tutto perduto; Lucifero è cambiato, sì:

"...Oh qual caduto! oh come
cangiato sei da quel che ne i felici
regni di luce, sovra tante e tante
miriadi benché fulgide, splendevi
di trascendente lucidezza cinto!"

"Ei su'l resto in statura e in portamento
torreggiava superbo: ancora sua Forma
perduto non avea tutto il nativo
scintillante fulgore, e comparia
nulla men che un Arcangel rovinato
e che di gloria un oscurato eccesso:
come allor quando il novo Sol traluce
per l'aere orizontal caliginoso
privo di raggi o quando tutto il copre
il dosso della Luna in buia eclisse:
disastroso crepuscolo che affosca
mezze le Nazioni, e di vicenda
i gran Monarchi nel timor sospende.
Pur benché avvolto di sì fosco velo
l'Arcangel rifulgea su gli altri tutti,
ma la sua faccia avean di solchi piena
del fulmin le profonde cicatrici:
sta l'atra Cura su la smorta guancia,
ma sotto ciglia di coraggio intrepido
e di considerato orgoglio invigila
alla vendetta"

Anche negli occhi del Satana di Milton albergano mestizia e morte:

"...round his baleful eyes
that witness'd huge affliction and dismay
mixt with obdurate pride and stedfast hate"

Se fu Milton a conferire alla figura di Satana tutto il fascino del ribelle indomito che già apparteneva alle figure del Prometeo eschileo e del Capaneo dantesco, non va dimenticato che il Marino l'aveva preceduto su quella strada.
Comunque, in Milton, Satana assume definitivamente un aspetto di decaduta bellezza, di splendore offuscato da mestizia e da morte.
La bellezza maledetta è attributo permanente di Satana.

Nota di Lunaria: potremmo far notare che il Satana di Lermontov è ancora più tormentato, giacché egli ama ancora, anzi, forse ama ancor più di prima.  https://ildemonelermontov.blogspot.it/



Inoltre, benché sia un romanzo e non un poema in versi, suggerisco anche la lettura della "Touched Saga",



che pur lontana dal "Satana innamorato", riprende comunque l'idea di "angelo caduto e innamorato", ed è di gran lunga superiore, per stile e trama, al molto-più-strombazzato-in-giro "Fallen", che, pur con una buona trama, specialmente nel finale, resta impaludato in uno stile adolescenziale "teen-ageriale" a tratti davvero basso.




La Morte vista nei versi di Petrarca

Tratto da


La malinconia per la fugacità del tempo e la caducità delle glorie terrene, l'imperscrutabile mistero della morte, l'anelito al divino: il Petrarca mette a nudo l'intero animo suo.

Dal "Canzoniere"

[...] Prego o sospiro o lagrimar ch'io faccia;
e così per ragion conven che sia,
ché chi possendo star cadde tra via
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
[...] Canzon, qui sono, ed ò 'l cor via più freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz'alcun dubbio,
[...] ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio;
e veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio.
[...]
I' ò pien di sospir quest'aere tutto,
d'aspri colli mirando il dolce piano
ove nacque colei, ch'avendo in mano
meo cor in sul fiorire e 'n sul far frutto,
è gita al cielo, ed àmmi a tal condutto
col subito partir, che di lontano
gli occhi miei stanchi, lei cercando invano,
presso di sé non lassan loco asciutto.
Non è sterpo né sasso in questi monti,
non ramo o fronda verde in queste piagge,
non fiore in queste valli o foglia d'erba,
stilla d'acqua non ven di queste fonti,
né fiere àn questi boschi sì selvagge,
che non sappian quanto è mia pena acerba.
Valle, che de' lamenti miei se' piena [...]
non, lasso, in me, che da sì lieta vita
son fatto albergo d'infinita doglia.

Mia benigna fortuna e 'l viver lieto,
i chiari giorni e le tranquille notti
e i soavi sospiri, e 'l dolce stile
che solea resonare in versi e 'n rime,
volti subitamente in doglia e'n pianto
odiar vita mi fanno e bramar Morte.
Crudele acerba inesorabil Morte,
cagion mi dai di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri e le dogliose notti;
i miei gravi sospir non vanno in rime
e 'l mio duro martir  vince ogni stile.
Ove è condutto il mio amoroso stile?
a parlar d'ira, a ragionar di morte.
U' son i versi, u' son giunte le rime
che gentil cor udia pensoso e lieto?
[...] Chiaro segno Amor pose a le mie rime
dentro a' belli occhi ed or l' à posto in pianto
con dolor rimembrando il tempo lieto,
ond'io vo col penser cangiando stile
e ripregando te, pallida Morte
che mi sottragghi a sì penose notti.
Fuggito è 'l sonno a le mie crude notti
e 'l sono usato a le mie roche rime
che non sanno trattar altro che morte;
così è 'l mio cantar converso in pianto:
non à 'l regno d'Amor sì vario stile
ch'è tanto or tristo quanto mai fu lieto.
[...] Vissi di speme, or vivo pur di pianto,
né contra Morte spero altro che morte.
[...] né da te spero men fere notti;
e però mi son mosso a pregar Morte
che mi tolla di qui, per farme lieto
ove è colei che i' canto e piango in rime.


Dai "Trionfi"

I' dico che giunta era l'ora estrema
di quella breve vita gloriosa
e 'l dubbio passo di che 'l mondo trema,
ed a vederla un'altra valorosa
schiera di donne, non dal corpo sciolta,
per saper s'esser po Morte pietosa.
[...] Allora di quella bionda testa svelse
morte co la sua mano un aureo crine;
così del mondo il più bel fiore scelse,
non già per odio, ma per dimostrarsi
più chiaramente ne le cose eccelse.
Quanti lamenti lagrimosi sparsi
fur ivi, essendo que' belli occhi asciutti
per ch'io lunga stagion cantai ed arsi!
[...] Lo spirto, per partir di quel bel seno
con tutte sue virtuti in sé romito,
fatto avea in quella parte il ciel sereno.
Nessuno degli avversari fu sì ardito
ch'apparisse già mai con vista oscura
fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
Poi che deposto il pianto e la paura
pur al bel volto era ciascuna intenta
[...] Pallida no ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca;
quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
morte bella parea nel suo bel viso.


Dall'"Africa"

Ed ecco, mentre il giovane cartaginese stava
in mezzo al mare, cresceva il dolore della
ferita e più vicino incombeva la dura morte,
ansando, con stimoli ardenti. E vedendo
approssimarsi il momento dell'ora suprema,
egli cominciò: "Ahi! qual fine per una nobile
fortuna! [...] O cima vacillante dei grandi onori,
o fallace speranza umana, o gloria inane ornata
di false blandizie! O vita incerta, condannata ad un
lavoro perpetuo, o morte certa sempre e
mai abbastanza preveduta! Con qual sorte iniqua nasce
l'uomo sulla terra! [...] E tu, Morte, ottima fra tutte
le cose, tu sola scopri gli errori, e dissipi i sogni
della vita trascorsa. [...] L'uomo, che pur deve morire,
cerca di salire alle stelle, ma la morte c'insegna dove
sono le cose che ci appartengono"

Vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/10/in-vita-e-in-morte-di-laura-commento-al.html

In Vita e In Morte di Laura - commento al Canzoniere di Petrarca

Tratto da


Quella raccolta di poesie del Petrarca che noi indichiamo col nome di "Canzoniere" è detta dal poeta "Rerum vulgarium fragmenta". Sono in totale 366 componimenti; "cosette in volgare" anzi frammenti, li definisce il poeta; ma da essi avranno origine sei secoli di letteratura amorosa.
Nel "Canzoniere" ci sono emozioni, passioni, confessioni, analisi interiori e tutti i toni dell'ansia amorosa: c'è Laura, Laura viva, Laura morta, il ricordo di lei, il pensiero di lei.


è un'idea amorosa che via via si arricchisce, fino a diventare simbolo di ogni bellezza del vivere, fino a significare l'amore stesso dell'universo: una trasfigurazione che si compie non con l'intelletto, ma col cuore. Non a caso l'opera si chiude con una canzone alla Vergine, vestita di Sole: l'amore terreno, purificato nel raccoglimento, attraverso anni di devozione e di doloroso rimpianto, si eleva alla divinità.

In Vita di Laura

C'è, all'inizio, un avvertimento al lettore. Abbia pietà - se sa cos'è l'amore - dei pianti e dei sospiri di cui leggerà avanti. E sappia che il poeta si vergogna di sé e del suo vaneggiare e si pente del "primo giovenile errore" perché ha ormai compreso "che quanto piace al mondo è breve sogno". Quasi quasi si scusa, d'essersi abbandonato a una vanità come la passione amorosa...


Nella chiesa di Santa Chiara, un mattino d'aprile, appoggiato ad una colonna, il giovane Francesco contempla per la prima volta il bel volto di Laura inginocchiata all'altare... così il pittore Anselm Feuerbach immaginò il fatidico incontro che influenzò per secoli la poesia in Italia e in Europa.


Dopo il Prologo, per una serie di circa 30 composizioni, Laura compare e non compare. La intravediamo, ma non è ancora perfettamente realizzata.
Francesco l'ha incontrata in un giorno di Venerdì Santo e lei con uno sguardo l'ha fatto prigioniero: "Ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro". Ora la insegue, ma lei "de' lacci d'Amor leggera e sciolta" lo sfugge.
Laura è un "sole", che "movendo de' begli occhi i rai", risveglia pensieri d'amore. è una giovane donna più "bianca e più fredda che neve", una crudele che "mai pietà non discolora" e una guida che, se la segui, "ti scorta dritto dritto fino al Cielo" e al "sommo ben t'invia."

Un po' una donna da Dolce Stil Novo, dunque, idealizzata quanto basta, angelicata al punto giusto, in linea con tutte le regole codificate dai Cavalcanti e dai Guinizelli per le loro madonne.

I momenti toccanti dell'elegia amorosa, in questa prima parte delle Rime, sono soprattutto quelli in cui il poeta si sofferma a guardare in se stesso, nel fondo della propria tristezza.
La sua donna lo sfugge, non può riamarlo,


e allora eccolo che va in cerca di solitudine, misurando "a passi tardi e lenti/i più deserti campi".

Ben tre canzoni sono dedicate agli occhi di Laura: gli occhi sono luoghi leggiadri, ove "l'Amor fa nido", "luci beate e liete", "lumi del ciel", "divine luci", "vaghe faville angeliche, beatrici"; vincono angoscia e noia, sospingono sulla via del cielo, riempiono di pensieri alti e soavi, sono sorgente di salvezza, riparo nella tempesta, sede d'ogni conforto e d'ogni speranza. Infine, è mille volte meglio morire in presenza loro piuttosto che rimanere privi di una visione così beatificante.

Fedele agli ideali poetici del tempo, il poeta di fronte a Laura è solo, soffre e ha bisogno di lei; sostiene che la cerca per avere una valida guida nel cammino verso il Cielo e un po' di felicità qui sulla terra: senza di lei "ogni loco m'attrista"
Ed accarezza con occhi ben umani quella figura che accende il desiderio: del "chiaro viso" al "bel piè", non c'è particolare che non lo rinserri sempre di più nella sua prigionia d'amore.


Questo, il volto nuovo di Laura: il nuovo modo, umano, di essere amata le dà una consistenza reale e sconosciuta alle varie angelette stilnoviste.
Per un buon tratto, la storia dell'amore di Francesco per Laura è affidata ai sonetti.
E i sonetti, così brevi, scandiscono a perfezione l'alternarsi di gioie e tormenti nel cuore del poeta.
Come potrà sopravvivere, se questa bellissima si rifiuta di amarlo? Impossibile sostenere la lotta che la ragione e i sensi ingaggiano per colpa di lei: bisognerà cercare in Dio un rifugio tranquillo , fuori dal turbinio delle passioni o forse solo la vecchiaia potrà spegnere il fuoco dell'Amore.

Ma il trionfo più luminoso di Laura è forse in quelle due canzoni che sono state definite silvane per l'importanza che ha in esse il valore del paesaggio: "Se 'l pensier che mi strugge" e la successiva e celeberrima "Chiare, fresche e dolci acque": in tutte e due la natura è lì per far da sfondo alla bellezza dell'amata. E la donna di riflesso si fa ancora più bella proprio perché è in questo scenario naturale.
Gli argomenti delle due canzoni sono familiari: il dolore di non essere amato e il ricordo struggente di Laura, con colori e tocchi che arrivano a tanta maestria da farci sentire il profumo di quella sua Valchiusa che dipinge con mano tanto affettuosa.
Il poeta osserva ogni cosa, quasi sperando che "tra' fiori e l'erba" siano rimasti i segni del passaggio di Laura.
Nella seconda canzone, il motivo della natura raggiunge un incanto insuperato: tutto concorre al miracolo; la musica del verso, l'uso degli aggettivi, l'accostamento rapido di immagini alternate. Il paesaggio è fatto di chiare acque, rami gentili, erbe, fiori, "aere sacro, sereno". E a tanta bellezza fa eco, nel ricordo, l'immagine femminile, con "le belle membra", il "bel fianco", la "gonna leggiadra", "l'angelico seno". Dai rami scende "dolce nella memoria" una pioggia di fiori e le corolle volteggianti vengono a soffermarsi sul lembo della veste e sulla treccia bionda ("Qual fior cadea sul grembo, qual su le treccie bionde"). Il quadro è di quelli che non si possono più dimenticare: alla fine non desideriamo che di bearci anche noi, con Laura, di quel perpetuo fiorire e rinverdire.

Poco più avanti, un'altra canzone celebra con sottile melanconia la solitudine della campagna: "Di pensier in pensier, di monte in monte" il poeta va in cerca di riposo e pace, doni che solo la natura sa offrire.

In mezzo alle silvane, una canzone estranea a Laura: è la famosa "Italia mia", tanto cara ai Romantici; è il canto politico più ispirato del Petrarca e per molti anche la lirica civile più alta della nostra letteratura.

Un altro gruppo di sonetti continua i temi amorosi: la bellezza di Laura, l'angoscia dell'amante che non può rassegnarsi a non essere riamato, e ancora, ricordi, delusioni, improvvise speranze, abbandoni e risvegli. Finché, un giorno, la Bellissima gli appare come "cerva candida" che lo affascina ma che poi, mentre lui la contempla, rapidamente si dilegua.
L'apparizione misteriosa e la scomparsa repentina che lascia in lacrime il poeta hanno già il tono del presagio. Ben presto i fantasmi di morte si addenseranno in sonetti dolenti: "Qual paura ho quando mi torna a mente quel giorno, ch'io lasciai grave e pensosa Madonna e 'l mio cor seco" e ancora: "Solea lontana, in sonno consolarme con quella dolce angelica sua vista Madonna, or mi spaventa e mi contrista".
Laura stessa gli appare nella mente per annunziargli "non sperar di vedermi in terra mai".
E infine l'orribile visione: "è dunque ver che 'nnanzi tempo spenta sia l'alma luce che suol far contenta mia vita in pene et in speranze bone?"

Ancora pochi canti e poi la prima parte del Canzoniere si chiude. La seconda parte si aprirà sulla canzone "I' vo pensando e nel pensier m'assale", una lunga meditazione sulla morte.

In Morte di Laura

"Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, oimè il leggiadro portamento altero!"
Laura non è più, e Francesco accoglie con questo grido di disperazione la notizia della sua scomparsa.

"Che debb'io far? che mi consigli Amore?" chiede smarrito. E Amore lo consiglia così: vinca l'eccesso della disperazione e canti piuttosto la sua donna mentre aspetta fiducioso di rivederla in Cielo.
Lo ritroviamo dunque su questa strada: continuerà a cantare la bellezza di lei, continuerà a cercarla nei ricordi, come prima. Ormai la morte ha steso un velo sul fuoco della passione.
Laura è in cielo: Francesco la troverà nelle cose celesti, non più in quelle terrene. Adesso più che mai, lei sarà la sua guida, verso Dio.
Il tormento sembra placato in una specie di colloquio affettuoso con tutte le cose: "Fior, frondi, erbe, antri, onde, aure soavi, valli chiuse, alti colli e piagge apriche", lo ascoltano e gli rispondono.
Ora almeno non c'è più a torturarlo quell'alternarsi di speranze e delusioni, perché "Morte m'ha sciolto, Amor, d'ogni tua legge: quella che fu la mia donna, al ciel è gita, lasciando triste e libera mia vita.
Tutto, da che lei se n'è andata, ha preso i colori della malinconia, perfino la stagione fiorita in cui Zefiro torna e 'l bel tempo rimena."
Niente potrà consolarlo: "né per sereno ciel ir vaghe stelle", né la vista di "oneste donne e belle". Anche nella natura, soltanto chi soffre gli è vicino, come quel "rosignol che sì soave piagne".
Malinconia, rimpianto, meditazione della Morte: da questi toni cupi l'immagine di Laura potrebbe uscire un po' incerta. Invece no. Laura non è meno viva di prima, anzi. Non svanisce nell'etereo, non diviene un simbolo raggelato, non si immobilizza nelle regioni celesti, spoglia ormai, con la carne, di ogni umanità. Al contrario, la sua figura acquista un risalto anche più pieno, adesso che va a a situarsi più che mai al centro del dramma intimo del poeta. Perché egli ormai vorrebbe celebrarla solo come un essere tutto spirituale ma più si ingegna e meno gli riesce di dimenticare che è donna.
Nel dissidio c'è tutto Francesco: sempre in lotta tra il lassù e il quaggiù, sempre pronto a guardare al Cielo e così lesto a ricadere appena i sensi premono: una lotta che dura tutta una vita, senza che mai gli riesca, né di qua né di là, di varcare il confine tra Cielo e Terra.
è questo conflitto che salva Laura dal pericolo di diventare un'ombra senza vita. Francesco - l'intenzione è sincera - vuol trasformarla in creatura di Paradiso, almeno adesso che il suo corpo non c'è più. Ma intanto resta un uomo, con i suoi palpiti, anche se si mette a pregare in ginocchio. E più si sforza di pensarla come essere celeste, e più la fantasia gli affolla di cari, caldi ricordi di quel suo bel corpo di donna.
"Là v'io seggia d'amor pensoso, e scriva, Lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde, veggio et odo, et intendo, ch'ancor viva di sì lontano, a' sospir miei risponde."
Basta un corso d'acqua ed eccola uscire di là "or in forma di ninfa, or d'altra diva". E "su per l'erba fresca", egli la vede "calcare i fior com'una donna viva."
Non è nella pace di Dio - come aveva sperato - che egli ora trova un po' di conforto, ma solo in lei, che ricorda in tutti i particolari più minuti: "a l'andar, a la voce, al volto, a' panni."
Alla fine, capirà che non gli è riuscito per niente di limitarsi ad adorare Laura come una santa. Ha trascorso il suo tempo "in amar cosa mortale" e se ne pente. Vede bene che è stata un'illusione divinizzare un amore terreno. Ha sofferto per vent'anni, quando Laura era viva. E da dieci anni la piange morta. Adesso è "tristo de' miei sì spesi anni, che spender si deveano in miglior uso."
è tempo ormai di tralasciare anche i ricordi: tutto ciò che è terreno va dimenticato.
L'ultima canzone sarà una preghiera alla Vergine perché gli conceda finalmente la pace.

Nota di Lunaria: inserisco qui qualche verso del Petrarca, riportati su questa antologia.


nato ad Arezzo nel 1304, seguì la famiglia ad Avignone. Frequentò la facoltà giuridica, ma abbandonò presto gli studi per dedicarsi interamente alla letteratura. Una data importante è l'incontro con una donna, che è stata identificata in Laura de Noves, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone: essa fu cantata e trasfigurata dal poeta nel suo capolavoro, il Canzoniere.
Il Petrarca compì molti viaggi: Lombez, in Francia, in Fiandra, in Germania, alla ricerca di manoscritti dei classici latini. Nel 1341 fu incoronato poeta in Campidoglio a Roma. Ad Arquà, presso Padova, si spense nel 1374.



Dal Canzoniere 

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in su 'l mio primo giovenile errore. (1)
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i sono,
del vario stile, in ch'io (2) piango e ragiono
fra le vane speranze e'l van dolore,
ove sia chi per prova (3) intenda amore,
spero trovar pietà non che perdono (4).
Ma ben veggio or sì come al popol tutto (5)
favola fui (6) gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e de mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

(1) Sviamento
(2) Secondo cui io
(3) Nel caso vi sia chi avendone avuto esperienza
(4) Non solo perdono
(5) A tutti i mortali
(6) Fui materia di discorsi e di riso


Se la mia vita da l'aspro tormento
si può tanto schermire (1), et dagli affanni,
ch'i veggia per vertù degli ultimi anni, (2)
donna, de' be' vostr'occhi il lume spento (3),
e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a 'llamentar mi fa pauroso et lento (4);
pur (5) mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò (6) de' miei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni et l'ore;
et se 'l tempo (7) è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga (8) al mio dolore
alcun soccorso d tardi sospiri.

(1) Difendere
(2) Per gli effetti della vecchiaia
(3) Offuscato lo splendore
(4) Timoroso ed incerto
(5) Allora, infine
(6) Rivelerò
(7) Allude al tempo e alla vecchiaia
(8) Almeno non giungerà


Solo e pensoso i più deserti (1) campi
vo mesurando (2) a passi tardi e lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti (3)
ove vestigio human l'arena stampi (4).
Altro schermo (5) non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti (6);
perché ne gli atti d'alegrezza spenti (7)
di fuor si legge com'io dentro avampi (8):
sì ch'io mi credo omai che monti e piagge (9)
e fiumi e selve sappian di che tempre (10)
sia la mia vita, ch'è celata altrui.
Ma pur (11) sì apre vie né sì selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.

(1) Evitati da tutti
(2) Misurando
(3) Attenti ad evitare
(4) Dove si mostri traccia di piede umano
(5) Riparo
(6) All'attenzione della gente
(7) Privi di ogni gioia
(8) Di amore
(9) Colline e spiagge
(10) Qualità
(11) Eppure


Nota di Lunaria: Vittorio Alfieri nel 1786 scriverà un componimento che a me sembra riecheggiare l'espressività del Petrarca di "Solo e pensoso i più deserti campi":

Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al pari di me non si ricrea
tra' figli suoi nessuna orrida belva.
E quanto addentro più il mio piè s'inselva,
tanto più calma e gioia in me si crea;
onde membrando com'io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.
Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch'io mi creda al buon sentiero più appresso:
ma, non mi piacque il vil secolo mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
solo nei deserti tacciono i miei guai.


Erano i capei d'oro a l'aura (1) sparsi,
che (2) 'n mille dolci nodi gli avolgea;
e 'l vago lume oltre misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi (3);
e 'l viso di pietosi color farsi (4),
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi? (5)
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma (6); et le parole
sonavan altro che pur (7) voce humana.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel che'i' vidi; e se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana. (8)

(1) All'aria, alludendo a nome Laura
(2) La quale aura
(3) Che ora sono così scarsi di quell'antico splendore
(4) Colorarsi di pietà
(5) è sottointeso l'amore
(6) Il suo incedere non era di persona ma di angelo
(7) Semplicemente
(8) La ferita prodotta dall'arco non si rimargina per quanto la sua corda sia allentata


Chiare, fresche et dolci acque (1),
ove le belle membra
pose (2) colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra) (3)
a lei di fare al bel fiancho colonna (4);
herba et fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno (5),
aere sacro sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse (6);
date udienza (7) insieme
a le dolenti mie parole extreme.

[...]

(1) Del fiume Sorga
(2) Immerse
(3) Mi ricordo sospirando
(4) Appoggiare il bel fianco
(5) Che la donna, con l'angelico seno, ricoperse
(6) Dove Amore con la vista degli occhi di lei mi aprì il cuore
(7) Porgete ascolto


Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo. (8)
Qual fior cadea su'l lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
erano quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l'onde,
qual con un vago errore (9)
girando parea dir: qui regna Amore.

(8) Dalla nuvola dei fiori
(9) Errando per l'aria leggiadramente


Pace non trovo, et non ò da far guerra; (10)
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.
[...]
Pascomi (11) di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.

(10) Non ho la possibilità di combattere
(11) Mi nutro


La vita fugge, e non s'arresta un'ora,
e la morte vien dentro a gran giornate (12)
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra (13), e le future anchora

[...]

(12) A tappe veloci
(13) Mi tormentano


"Morte di Laura"

[...] Or qual fusse 'l dolor qui non si stima (1)
ch'a pena oso pernsarne, non ch'io sia (2)
ardito di parlarne in versi o 'n rima.
[...] Lo spirto, per partir di quel bel seno
con tutte sue virtuti in sé romito (3)
fatto avea in quella parte il ciel sereno.
[...] Pallida no mai più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca
quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo (4) lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
morte bella parea nel suo bel viso.

(1) Non si può misurare
(2) E tanto meno sono
(3) Raccolto in sé con ogni sua vitù
(4) Essendo

Vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/10/la-morte-vista-nei-versi-di-petrarca.html