Eça de Queiroz "Il defunto" (1873)

Tratto da



I

L'anno 1474, che fu per tutta la cristianità così largo di grazie divine, regnando in Castiglia il re Enrico IV, venne ad abitare nella città di Segovia, dove avevo ereditato alcune case e un giardino, un giovane cavaliere, di purissimo lignaggio e di gentile aspetto, che si chiamava Don Ruy de Cardenas.
Una casa che gli aveva legata suo zio, arcidiacono e Maestro di Diritto Canonico, era situata a lato e all'ombra silenziosa della chiesa di Nostra Signora del Pilar; e di fronte, al di là d'una piazzetta, in cui cantavano i tre cannelli d'una antica fontana, s'ergeva, oscuro, ben munito d'inferriate, il castello di Don Alonso de Lara, hidalgo di grande ricchezza e di foschi costumi, che già in matura età coi capelli grigi, aveva sposato una fanciulla celebre in Castiglia per la sua bianchezza, la sua capigliatura color del chiaro sole e il collo di cigno reale. Don Ruy, al suo nascere, aveva avuto per madrina Nostra Signora del Pilar, di cui sempre s'era serbato devoto e fedele servitore, benché, essendo di sangue gagliardo e vivace, amasse le armi, la caccia, le veglie galanti, e a volte anche le rumorose notti di taverna, con dadi e boccali di vino. Per amore e per la comodità di quella santa vicinanza, egli aveva contratto, al suo giungere a Segovia, la pia abitudine di visitare tutte le mattine, alla Prima Messa, la sua Divina Madrina, e di chiederle, con tre avemarie, la benedizione e la grazia.
(Nota di Lunara: qui c'è un errore mostruoso: maria non è divina, è la serva del signore, non è una Dea! pertanto, definirla "divina madrina", come il racconto fa più volte, è un'idiozia!!!)
All'imbrunire poi, dopo qualche violenta scorreria, per monti e campagna, con levrieri e falcone, ancor tornava, alla salutazione dei Vespri a mormorare dolcemente un Salve Regina.
E tutte le domeniche comprava nella piazzetta, da una fioraia moresca, qualche fascio di giunchiglia, o di garofani, o di roselline da spargere con tenera e cavalleresca premura innanzi all'altare della Madonna.
In questa venerabile chiesa del Pilar veniva pure ogni domenica Dona Leonor, la così celebre sposa del signor de Lara, accompagnata da una burbera governante, dagli occhi più inquisitori e più duri di quelli d'una civetta, e da due poderosi servitori, che le stavano a lato e la custodivano come due torri. Così geloso era Don Alonso che, solo per averne ricevuto severo ordine dal suo professore, e per timore di offendere la Signora del Pilar, sua vicina, permetteva questa visita fugace, di cui egli restava a spiare impazientemente da dietro le stecche d'una persiana, i passi e la durata. Tutti i lenti giorni della lenta settimana, Dona Leonor lì trascorreva nella prigionia del palazzo di fosco granito, dalle solide inferriate, non possedendo, per svagarsi e repirare, anche durante le calure estive, che un angolo di giardino verde cupo, circondato da così alte mura che appena si scorgeva, sovrastante qua e là ad esse, qualche cima di triste cipresso. Ma bastò questa breve visita a Nostra Signora del Pilar perché Don Ruy s'innamorasse di Dona Leonor pazzamente, una mattina di maggio, in cui la vide in ginocchio innanzi all'altare, in un raggio di sole, aureolata dai suoi capelli d'oro, con le lunghe ciglia abbassate sul libro delle Preghiere, il rosario pendulo tra le dita sottili, sottile ella pure e tutta morbida e bianca, d'una bianchezza di giglio sbocciato nell'ombra, più bianca ancora fra i pizzi neri e le nere sete, che intorno alla sua persona piena di grazia ricadevano in rigide pieghe sopra le lastre della cappella, vecchie lastre di sepolcro. Quando, dopo un momento l'estasi e di deliziosa meraviglia, s'inginocchiò, quest'atto di riverenza fu meno rivolto alla Vergine del Pilar, sua divina Madrina, che a quell'apparizione mortale di cui non conosceva né nome né vita, e per cui avrebbe dato vita e nome, s'ella pur avesse voluto concedersi per così incerto prezzo.
Balbettando, con vana preghiera, le tre avemarie, con cui ogni mattina salutava Maria, raccolse il suo cappello, discese leggermente la navata sonora e sulla porta si fermò, attendendo la dama fra i mendicanti pieni di piaghe che si riscaldavano al sole. Ma quando dopo un breve lasso di tempo, durante il quale Don Ruy sentì nel cuore un insolito battito d'ansia e di timore, Dona Leonor passò, fermandosi un istante, ad immergere la punta delle dita nella pila dell'acqua benedetta, i suoi occhi, sotto il velo abbassato, non si alzarono verso di lui, forse timidi, forse distratti. Con la governante dallo sguardo inquisitore incollata ai vestiti, fra i due servi, come fra due torri, attraversò lievemente la piazzetta, pietra a pietra, godendo certo, come una prigioniera, l'aria libera e il libero sole che la inondavano. E Don Ruy provò un vero spavento quando vide la dama entrare sotto la cupa arcata, dai possenti pilastri, sopra cui poggiava il palazzo, e sparire, per una piccola porta munita di catenacci. Ella era, dunque, la così celebre Dona Leonor, la bella e nobile signora di Lara...
Incominciarono allora per Don Ruy sette snervanti giorni che egli consumò seduto sul banco di pietra della sua finestra, a fissare quella nera porta coperta di catenacci, quasi fosse quella del Paradiso, e da essa dovesse uscire un angelo, per annunziargli la buona ventura. Fino a che giunse la sospirata domenica; e mentr'egli attraversava la piazzetta, all'ora della prima Messa, al rintocco delle campane, con un fascio di garofani gialli per la sua divina Madrina, s'imbatté in Dona Leonor, che usciva di fra i pilastri della buia arcata, bianca, dolce e pensosa, come una luna di fra le nubi. I garofani gli caddero quasi di mano, per quella gioiosa emozione che gli fece ansare il petto come un mare, e tutta l'anima gli fuggì in tumulto attraverso lo sguardo con cui divorava la dama. Ed ella pure alzò gli occhi verso Don Ruy, ma occhi calmi, occhi sereni, in cui non luceva curiosità, e nemmeno coscienza d'essersi incrociati con altri, così accesi e cupi di desiderio. Il giovane cavaliere non entrò in chiesa, turbato dal pio timore di non poter prestare alla sua Madrina divina l'attenzione, che certo gli avrebbe tutta rubata colei che era soltanto umana, ma ormai signora del suo cuore, e da lui divinizzata.
Attese impazientemente alla porta, fra i mendicanti, inaridendo i garofani con l'ardore delle mani tremanti, pensando quanto fosse lungo il rosario che ella recitava. E Dona Leonor stava ancora uscendo dalla navata, che già egli sentiva dentro l'anima il dolce fruscio delle pesanti sete che ella strascicava sulle lastre. La bianca signora passò, e il medesimo vago sguardo, distratto e calmo, che lasciò scorrere sui mendichi e sulla piazza, lo lasciò pure scorrere su di lui, sia perché non comprendeva quel giovane che s'era fatto tanto pallido, sia perché non lo differenziava ancora dalle cose e dalle forme comuni. Don Ruy s'allontanò con un profondo sospiro, e nella sua camera posò devotamente innanzi alla Vergine i fiori che non aveva offerto nella chiesa, all'altare. Tutta la sua vita cominciò a consumarsi allora in un lungo tormento, per sentir così fredda, così disumana quella donna, l'unica fra le donne, che avrebbe potuto conquistare e render costante il suo cuore instabile e leggero.
Con una speranza che ben prevedeva il disinganno, incominciò a gironzolare intorno alle alte mura del giardino, oppure, imbacuccato in una cappa, appoggiato ad una cantonata, restò lunghe ore a contemplare le inferriate delle finestre, nere e grosse come quelle d'un carcere. Ma le muraglie non si fendevano, le inferriate non lasciavano sfuggire un barlume di luce che fosse come una promessa. Tutto il palazzo era simile ad un sepolcro in cui giaceva una creatura insensibile; e dietro le fredde pietre vi era pure un freddo cuore. Per trovar sfogo compose, con religiosa cura, in lunghe notti vegliate sulla pergamena, lamentose canzoni che non gli davano sfogo. Dinanzi all'altare della Signora del Pilar, sopra le stesse lastre su cui aveva veduta inginocchiata la dama, s'inginocchiava egli pure, e, senza pregare, se ne rimaneva così, immerso in una fantasticheria amara e dolce, attendendo che il suo cuore si rasserenasse e si consolasse, sotto l'influenza di Colei che tutto rasserena e consola.  
Ma sempre si rialzava ancor più infelice, avvertendo appena la sensazione di quanto fossero fredde e dure le pietre su cui s'era inginocchiato. E gli pareva che tutto il mondo non fosse che rigidità e freddezza.
In altre chiare mattine di domenica incontrò Dona Leonor: e gli occhi di lei continuavano ad essere indifferenti e come assenti, o, se s'incrociavano con quelli di lui, ciò avveniva in modo così semplice, così privo di ogni emozione, che Don Ruy li avrebbe preferiti offesi o scintillanti d'ira, o superbamente distolti, con superbo disdegno. Certo ormai Dona Leonor lo conosceva, ma, allo stesso modo, conosceva pure la fioraia moresca accoccolata dinanzi al suo cesto sul margine della fontana, o i poveri che si scaldavano al sole dinnanzi alla porta della chiesa. Né Don Ruy poteva pensare ch'ella fosse fredda e disumana. Era soltanto sovranamente lontana, come una stella che nei cieli gira e rifulge, senza sapere che, in basso, nel mondo ch'essa non distingue, occhi ch'essa non sospetta la contemplano, l'adorano e le affidano il governo della loro fortuna e del loro destino.
Allora Don Ruy pensò:
"Ella non vuole, io non ho potere su di lei: fu un sogno che finii, e Nostra Signora conceda a tutti e due la sua grazia!"
E poiché era un cavaliere molto discreto, dal momento in cui comprese quanto la dama fosse irremovibile nella sua indifferenza, non la cercò più, né alzò più gli occhi all'inferriata delle sue finestre, e giunse al punto di non entrare nella chiesa di Nostra Signora quando casualmente, dalla porta, scorgeva la dama inginocchiata, con il capo fulgente d'oro e di grazia curvo sul libro delle preghiere.


II

La vecchia governante, dagli occhi più inquisitori e più duri degli occhi d'una civetta, non aveva tardato a riferir al signor de Lara che un giovane audace, di gentile aspetto, nuovo inquilino nelle vecchie case dell'arcidiacono, s'incontrava con loro continuamente nella piazzetta, e si collocava dinanzi alla chiesa per attirare, attraverso gli occhi, il cuore di Dona Leonor. Con sua grande amarezza già ben ne era informato il geloso hidalgo, poiché quando dalla sua finestra scrutava come un falco, la soave signora diretta verso la chiesa, aveva pur osservato l'andirivieni, le attese, le occhiate dardeggiate, da quel giovane galante, e s'era tirata la barba per il furore.
Da quell'istante, la sua più intensa occupazione era stata quella di odiare Don Ruy, l'impudente nipote del canonico, che aveva osato innalzare il suo basso desiderio fino all'alta signora de Lara. Continuamente, ormai, lo faceva spiare da un servo, e conosceva tutti i passi e i riposi di lui, e gli amici con cui cacciava o si sollazzava, e perfino l'artigiano che gli tagliava i farsetti, e perfino il servo che gli lucidava la spada, ed ogni ora della sua vita. E più ansiosamente ancora vigilava su Dona Leonor: ogni suo movimento, i più fuggitivi gesti... vigilava i suoi silenzi e il suo conversare con le ancelle, le sue distrazioni sopra il ricamo, la sua abitudine di andarsene a fantasticare sotto gli alberi del giardino, e l'aspetto con cui ritornava dalla chiesa...
Ma così inalterabile serena, nella sua semplicità di cuore, si mostrava Dona Leonor, che nemmeno la più occhiuta gelosia avrebbe potuto rilevare una macchia in quell'immacolata neve. E più aspro allora si rivolgeva il rancore di Don Alonso contro il nipote del canonico, per aver egli desiderato quella purezza, quei capelli color del chiaro sole, quel collo di cigno reale, che appartenevano a lui solo, per splendido godimento della sua vita. E quando passeggiava nella cupa galleria del castello, sonora e tutta ad arcate, avvolto nella zimarra orlata di pelliccia, con la punta della barba grigia tirata in avanti, l'arruffata capigliatura irta gettata all'indietro, i pugni stretti, era sempre per rimuginare la stessa bile.
"Attentò contro la sua virtù e attentò contro il mio onore... è colpevole di due colpe e merita due morti!"
Ma il suo furore si cambiò quasi in terrore, quando seppe che Don Ruy più non attendeva sulla piazzetta Dona Leonor, né gironzolava amorosamente intorno alle mura del palazzo, né entrava in chiesa quand'ella era là a pregare, la domenica; e che s'allontanava da lei così completamente che una mattina, sentendo stridere ed aprire la porta per cui la signora soleva apparire, egli, che pur stava presso l'arcata, era rimasto con le spalle voltate, senza girarsi, ridendo con un grasso cavaliere che gli mostrava una pergamena. Una così ben affettata indifferenza, aveva pensato Don Alonso, doveva servir di certo a nascondere una ben dannata tentazione! Che cosa stava tramando quel destro ingannatore? Nell'inasprito hidalgo tutto s'inacerbì: la gelosia, il rancore, la vigilanza, il peso della sua età grigia e cupa. Nella semplicità di Dona Leonor sospettò astuzia e finzione, e immediatamente le vietò le visite alla Signora del Pilar.
Le mattine stabilite si recava lui in chiesa per recitare il rosario e portare le scuse di Dona Leonor "che" egli mormorava tutto curvo innanzi all'altare, "non può venire, per il motivo che tu sai, Vergine purissima!"
Meticolosamente visitò e rinforzò tutti i neri catenacci delle porte del suo palazzo. Di notte slegava due mastini nell'ombra del chiuso giardino.
Accanto al capezzale del vasto letto, presso la tavola su cui stavano la lampada, un reliquario ed una coppa di vino caldo, con cannella e garofano, per ritemprar le forze, luccicava sempre una grande spada nuda. Ma, malgrado tante precauzioni, dormiva assai male, e ogni momento si sollevava di soprassalto dai fondi cuscini, per afferrar Dona Leonor con una mano brutale e cùpida, che la copriva di lividi,  e ruggire ansiosamente, a voce bassa: "Dimmi che ami me solo!..."
E poi, col sopraggiungere dell'alba, s'appollaiava per scrutare come un falco le finestre di Don Ruy. Ma ormai più non lo scorgeva né alla porta della chiesa all'ora della messa, né di ritorno dalla campagna, a cavallo, ai rintocchi dell'avemaria.
E per quel sentirlo così assente dai luoghi usati, lo sospettava più addentro al cuore di Dona Leonor. 
Finalmente, una notte, dopo aver a lungo calcato le lastre della galleria, rimuginando sordamente sfiducia e odio, chiamò il suo intendente e ordinò che gli preparasse bagagli e cavalcature. Il mattino di buon'ora sarebbe partito, con Dona Leonor, per la sua proprietà di Cabril, a due leghe di Segovia!
La partenza non avvenne all'alba, come la fuga d'un avaro che vada a nascondere il suo tesoro, ma si svolse fastosamente e lentamente: la lettiga fu lasciata lunghe ore in attesa, dinanzi alla grande arcata della porta, con le cortine sollevate, mentre uno scudiero faceva passeggiare nell'atrio la mula bianca dell'hidalgo, sellata alla moresca, e a lato del giardino la fila dei muli, carichi di bauli, assicurati ad anelli di ferro, sotto il sole e le mosche, stordivano la viuzza col tintinnare dei sonagli. Così Don Ruy seppe in giornata della partenza del signor de Lara; e così lo seppe tutta la città.
Fu una grande gioia per Dona Leonor, a cui piaceva Cabril, con i suoi rigogliosi frutteti, i giardini su cui s'aprivano generosamente, e senza inferriate, le finestre del suo luminoso appartamento; lì almeno possedeva aria libera, pieno sole, aiuole da inaffiare, un'uccelliera e viali di lauri o di tassi così lunghi che davano quasi l'impressione della libertà. E sperava inoltre che in campagna si alleggerissero quelle preoccupazioni che, da qualche tempo, tenevano tanto accigliato e taciturno il suo signore e sposo. Ma non durò a lungo questa speranza. Dopo una settimana il volto di Don Alonso ancora non si era rasserenato... poiché certo non c'era freschezza d'albereti, sussurri di ruscelli, o aromi erranti di roseti in fiore che potessero calmare un'agitazione tanto amara e profonda. Come a Segovia, nella galleria sonora dalle grandi arcate, passeggiava senza posa, imbacuccato nella sua zimarra, con la punta della barba tirata in avanti, la folta, irta capigliatura gettata all'indietro, un silenzios digrignare di denti, come meditasse malvagità di cui godeva in precedenza l'acre sapore.
E tutto l'interesse della sua vita si concentrava in un servo, che galoppava di continuo tra Segovia e Cabril, e che a volte egli andava ad attendere ai confini della proprietà, presso il crocicchio, restando ansante ad ascoltare l'uomo che smontava da cavallo e gli dava subito frettolose notizie.
Una notte in cui Dona Leonor, nel suo appartamento, recitava la terza parte del rosario con le ancelle, alla luce di un cero, il signor de Lara entrò piano piano, tenendo in mano un foglio di pergamena e una penna immersa nel suo calamaio d'osso. Con un rude cenno congedò le ancelle, che lo temevano come un lupo, poi, spingendo uno sgabello presso la tavola, e rivolgendosi a Dona Leonor con un volto a cui aveva imposto tranquillità e cortesia, come se venisse soltanto per cose naturali e futili:
"Signora, desidero che mi scriviate una lettera che è assai conveniente scrivere..."
Ella era così abituata alla sottomissione, che, senza altra osservazione o curiosità, andò soltanto ad appendere alla sbarra del letto il rosario che stava sgranando, poi subito sedette sopra lo sgabello; e le sue dita sottili, con molta cura, perché la lettera risultasse perfetta e chiara, tracciarono la prima breve linea che il signor de Lara aveva dettato, ed era: "Mio cavaliere..." Ma quando egli dettò la seconda, più lunga, e in brusca maniera, Dona Leonor gettò la penna, come se la penna bruciasse, e scostandosi alla tavola, gridò dolorosamente:
"Signore, perché è necessario ch'io scriva tante e così false cose?"
Nell'improvviso furore, il signor de Lara si strappò il pugnale dalla cintola e glielo agitò sul viso, ruggendo sordamente: "Scrivete ciò che vi comando e che conviene che scriviate, o, per Dio, vi trapasso il cuore!..."
Più bianca del cero che la illuminava, con la carne che raccappricciava innanzi al luccichìo di quel ferro, in uno spavento supremo, che tutto accettava, Dona Leonor mormorò: "Per la Vergine Maria, non fatemi del male! Non incolleritevi, signore, che io non vivo che per obbedirvi e servirvi... comandate pure, che io scriverò."
Allora, coi pugni stretti, sull'orlo della tavola, sopra cui aveva posato il pugnale, schiacciando la fragile e sventurata donna sotto uno sguardo duro che fulminava, il signor de Lara dettò, gettò giù raucamente, a frammenti, a scatti, una lettera che, tracciata in tremuli caratteri, diceva "Mio cavaliere, avete molto mal compreso o molto mal ricompensato l'amore che vi porto, e che, a Segovia, mi fu impossibile dimostrarvi chiaramente... Ora mi trovo qui, a Cabril, e ardo dal desiderio di vedervi; e se il vostro desiderio corrisponde al mio, ben facilmente lo potrete realizzare, poiché mio marito si trova lontano, in un'altra nostra proprietà, e questa di Cabril è molto accessibile. Venite questa notte, entrate per la porta del giardino, dalla parte del sentiero, e, oltrepassando la vasca, giungete al terrazzo. Lì troverete una scala appoggiata ad una finestra della casa, che è la finestra della mia camera, ove sarete dolcemente accolto da chi ansiosamente vi aspetta..."
"Ed ora, signora, firmate in fondo col vostro nome, che è quel che più importa."
Dona Leonor scrisse lentamente il suo nome, tutta rossa in volto come se la spogliassero innanzi ad una folla.
"Ed ora", ordinò più saldamente il marito attraverso i denti serrati, "indirizzatela a Don Ruy de Cardenas!"
Ella osò alzare gli occhi, nella sorpresa di quel nome sconosciuto.
"Avanti!... A Don Ruy de Cardenas!", gridò il truce signore.
Ed ella indirizzò la sua peccaminosa lettera a Don Ruy de Cardenas.
Don Alonso collocò la pergamena nella cintola, accanto al pugnale che aveva inguianato, e uscì in silenzio, con la barba irta, soffocando il rumore dei passi sulle lastre del corridoio.
Ella rimase seduta sopra lo scranno con le mani stanche abbandonate in grembo, oppressa da un infinito spavento, con gli occhi smarriti nell'oscurità della notte silente. Meno scura le pareva la morte di quell'oscura avventura da cui si sentiva avvolta e rapita!   
Chi era questo Don Ruy de Cardenas, di cui non aveva mai udito parlare, che mai aveva attraversato la sua vita, così quieta, così poco popolata di memorie e di uomini? Egli certo la conosceva, l'aveva incontrata e seguita, almeno con gli occhi, dato che era cosa naturale e logica ch'egli ricevesse da lei una lettera di tanta passione e promessa...
Così, un uomo, un giovane certamente di buona famiglia, forse di animo gentile, penetrava nella sua vita bruscamente, guidato per la mano da suo marito?
E per di più, così intimamente era entrato quest'uomo nella sua vita, senza che ella se ne fosse accorta, che per lui si apriva di notte la porta del suo giardino, e contro la sua finestra, perché egli vi potesse salire, si appoggiava di notte una scala! Ed era suo marito che, in gran segreto, spalancava la porta, e in gran segreto appoggiava la scala... Perché?
Ma ad un tratto, in un lampo, Dona Leonor comprese la verità, la vergognosa verità, che le strappò un grido ansioso e mal soffocato. Era un agguato! Il signor de Lara attirava a Cabril questo Don Ruy, con una promessa magnifica, per impadronirsi di lui e certo ucciderlo, indifeso e solo! E lei, il suo amore, il suo corpo, erano le promesse che si facevano brillare innanzi agli occhi affascinati dello sventurato giovane. E suo marito usava la bellezza, il suo letto, come la rete d'oro in cui doveva cadere l'imprudente preda! Poteva esservi offesa maggiore? E qual rischio tuttavia! Avrebbe ben potuto, questo Don Ruy de Cardenas, diffidare, non accedere al convito tanto apertamente amoroso, e poi mostrare per tutta Segovia, ridendo e trionfando, la lettera in cui la moglie di Alonso de Lara gli faceva offerta del suo letto e del suo corpo? Ma no!
L'infelice sarebbe corso a Cabril, per morire, miseramente morire nel nero silenzio della notte, senza prete, senza sacramenti, con l'anima macchiata d'un peccato d'amore!
Per morire, senza dubbio, perché mai il signor de Lara avrebbe permesso che vivesse un uomo che aveva ricevuta una tale lettera. Così, quel giovane cavaliere sarebbe morto per amor suo, per un amore che gli avrebbe dato subito la morte senza avergli dato mai una gioia. Per amor suo... certamente... poiché tale odio del signor de Lara, odio che si nutriva di tanta slealtà e brutalità, poteva soltanto nascere dalla gelosia, che gli offuscava ogni dovere di cavaliere e di cristiano. Senza dubbio egli aveva sorpreso occhiate, passi, progetti, di questo signor Don Ruy, troppo malcauto perché troppo innamorato.
Ma come? Quando? Confusamente ella si ricordava di un giovane che una domenica s'era incontrato con lei sulla piazzetta, l'aveva attesa alla porta della chiesa, con un mazzo di garofani in mano... era forse lui? Aveva nobile aspetto, era molto pallido, con grandi occhi neri e ardenti. Ella era passata indifferente. I garofani che stringeva nella mano erano rossi e gialli... A chi li portava?
Ah, se il mattino, assai di buon'ora, avesse potuto avvisarlo!
Ma in qual modo, se non aveva a Cabril un servo o una cameriera di cui potesse fidarsi? Ma lasciare che una spada brutale trafiggesse a tradimento quel cuore, che veniva pieno di lei, palpitando per lei, tutto pieno di speranza di lei!...
Quella ardente e sfrenata cavalcata di Don Ruy da Segovia a Cabril, con promessa d'un incantevole parco aperto innanzi a lui, d'una scala posta contro una finestra, sotto la pronuba protezione della notte! Ma avrebbe realmente il signor de Lara avvicinato la scala alla finestra? Certamente, per poter con più facilità uccidere il povero, dolce, innocente ragazzo, quand'egli fosse salito, malsicuro sopra un fragile gradino, con le mani impacciate, e la spada addormentata nella guaina... E così la notte seguente, di fronte al suo letto, la sua finestra sarebbe stata aperta, con una scala appoggiata contro, nell'attesa d'un uomo! Imboscato nell'ombra della camera, suo marito certamente avrebbe ucciso quell'uomo...
Ma se il signor de Lara avesse atteso oltre le mura del parco, e avesse assalito brutalmente in un qualche sentiero quel Don Ruy de Cardenas, e, o perché meno destro, o perché meno forte, nell'incrociarsi delle armi, fosse stato lui a cader trafitto, senza che l'altro riconoscesse colui che aveva ucciso? Ed ella lì, ignara nella sua camera, con tutte le porte spalancate e la scala innalzata, e quell'uomo che s'affacciava alla finestra, nell'ombra soave della tepida notte, e il marito che avrebbe dovuto difenderla, morto nel fondo di un sentiero... e che farebbe lei, Vergine Madre? Oh, certo respingerebbe superbamente il giovane temerario! Ma allora ecco la meraviglia e la collera di quel desiderio ingannato:
"Io venni chiamato da voi, signora!"
E portava lì, sopra il cuore, quella lettera, firmata da lei; che la sua mano aveva tracciata. Come avrebbe ella potuto raccontargli dell'imboscata e dell'inganno? Era cosa così lunga da narrare in quel silenzio e in quella solitudine della notte, mentre gli occhi di lui, umidi e neri, la supplicavano e la trafiggevano... Oh, lei sventurata, se il signor de Lara fosse morto, ed ella fosse rimasta sola, indifesa, in quella casa aperta! Ma quanto pur sventurata, se quel giovane chiamato da lei, che la amava, e che giungeva abbagliato da quell'amore, avesse incontrata la morte dove credeva d'incontrare la sua speranza, e che era il luogo stesso del suo peccato, e, morto in pieno peccato, fosse precipitato nella dannazione eterna... Venticinque anni, se era colui ch'ella ricordava, pallido, bello, con un giubbetto di velluto viola e un fascio di garofani in mano, alla porta della chiesa, a Segovia...
Due lagrime caddero dagli stanchi occhi di Dona Leonor. E, piegando le ginocchia, innalzando tutta l'anima al cielo, dove cominciava a levarsi la luna, mormorò con angoscia e fede infinita: "Oh! Santa Vergine del Pilar, Signora mia, veglia su noi due, veglia su tutti noi!"
 

III

Don Ruy entrava, per l'ora della siesta, nel fresco cortile della sua casa, quando da una panca di pietra, nell'ombra, si alzò un ragazzotto di campagna, che trasse da una borsa di cuoio una lettera, e gliela consegnò mormorando: "Signore, leggetela subito, poiché devo far ritorno a Cabril, da chi mi mandò..."
Don Ruy svolse la pergamena e, nel trasognamento che l'invase, se la strinse così forte al petto che parve volesse farla entrare nel cuore...
Il servitorello insisteva, inquieto:
"Presto, signore! Non è necessario che rispondiate. Basta che mi diate un segno d'aver ricevuto la commissione."
Pallidissimo, Don Ruy si strappò uno dei suoi guanti ricamati in fil di seta, che il ragazzo arrotolò e nascose nella bisacca. E già s'allontanava sulla punta dei sandali leggeri, quando, con un cenno, Don Ruy lo trattenne ancora un momento:
"Ascolta. Che strada prendi, tu, per andare a Cabril?"
"La più diretta e la più solitaria, per una persona di fegato: quella del Colle degli Impiccati."
"Va bene."
Don Ruy salì la gradinata di pietra e, giunto in camera sua, senza nemmeno togliersi il cappello, di nuovo lesse, presso la finestra, quello scritto divino in cui Dona Leonor lo chiamava di notte nel suo appartamento, al completo possesso dell'essere suo. E non lo meravigliava quest'offerta, dopo una così lunga, imperturbabile indifferenza. Subito pensò che l'amore di lei fosse un amore molto prudente perché molto intenso, un amore che con grande pazienza si nasconde innanzi agli ostacoli e ai pericoli, e silenziosamente prepara la sua ora di gioia, tanto più bella e più deliziosa, perché così a lungo preparata. Ella lo aveva sempre amato, forse, da quella mattina benedetta in cui i loro occhi s'erano incontrati sotto la porta di Nostra Signora. E allorché egli ronzava intorno alle mura di quel giardino, maledicendo una freddezza che gli sembrava più fredda di quelle fredde mura, già ella gli aveva donato la sua anima, e con costanza, con amorosa sagacia, frenando anche il minimo sospiro, addormentando i sospetti, preparava la notte radiosa in cui gli avrebbe offerto anche il suo corpo.
Tanta fermezza, tanto sottile ingegno in cose d'amore la rendevano ancor più bella e desiderabile!
Con quale impazienza Don Ruy guardava il sole, così lento, quella sera, a tramontare dietro i monti! Senza tregua, nel suo appartamento, con le persiane chiuse, per meglio concentrarsi nella sua felicità, preparava amorosamente ogni cosa per la trionfale giornata: la biancheria fine, i fini merletti, un corsetto di velluto nero, essenze odorose. Due volte discese nella scuderia, per vedere se il cavallo era ben ferrato e ben nutrito. Curvò e ricurvò sul pavimento, per provarla, la lama della spada che avrebbe portato alla cintola. Ma la sua maggior preoccupazione era la strada per Cabril, sebbene la conoscesse, e inoltre il villaggio agglomerato intorno al monastero francescano, e il vecchio ponte romano, col suo Calvario, e il sentiero incassato che conduceva alla proprietà del signor de Lara. Anche nell'inverno era passato da quelle parti, andando a caccia con due amici di Astorga, e, scorgendo la torre dei de Lara, aveva pensato: "Ecco la torre della mia ingrata!"
Come s'ingannava!
Eran notti di luna, egli sarebbe uscito segretamente da Segovia, per la porta di San Mauros. Un breve galoppo l'avrebbe portato sul Colle degli Impiccati... la conosceva bene quella località triste e paurosa, con i suoi quattro pilastri di pietra, dove si impiccavano i criminali e dove i loro corpi rimanevano sballottati dai venti, rinsecchiti dal sole, fino a che le corde imputridissero e le osse cadessero, bianche e scarnite dal becco dei corvi. Dietro il colle vi era lo stagno Das Donas. L'ultima volta ch'era passato di là, era stato il giorno dell'apostolo San Mattia, quando il corregidor e le confraternite di carità e di pace,  in processione, avevano dato cristiana sepoltura alle ossa cadute sulla nera terra, ripulite dagli uccelli. Da quel punto, poi, la strada correva piana e diritta fino a Cabril.
Così Don Ruy pensava alla sua venturosa giornata, mentre la sera cadeva a poco a poco. Ma allorché fu buio completo, e intorno alle torri della chiesa cominciarono a girare i pipistrelli, e sugli angoli della piazzetta si accesero le nicchie delle Anime, l'animoso giovane provò una paura strana, la paura di quella felicità che s'approssimava e che gli sembrava soprannaturale.
Era poi ben certo che quella donna di divina bellezza, famosa in Castiglia, più inaccessibile d'un astro, sarebbe stata sua, tutta sua, nel silenzio e nella sicurezza di un'alcova, pochi istanti dopo, quando non si fossero ancor nemmeno spenti, innanzi agli altari delle Anime, quei lumi devoti? E che cosa aveva fatto, lui, per meritare un così grande bene? Aveva passaggiato sulle lastre di una piazzetta, atteso alla porta d'una chiesa, cercando con gli occhi altri due occhi, che non s'alzavano, indifferenti e disattenti. Allora, rassegnato, aveva abbandonato quella speranza... Ed ecco che all'improvviso quegli occhi distratti lo cercavano, quelle braccia deliziose gli si aprivano, e, col corpo e con l'anima, quella donna gli gridava "Oh ingenuo, che non mi hai compresa! Vedi? Colei che ti scoraggiò, ora t'appartiene!".
Poteva mai esistere un'egual fortuna? Così preziosa, così rara era, che certo dietro ad essa, se la legge umana non errava, doveva camminare la sventura! E veramente camminava, poiché era pur grande angoscia sapere che dopo tanta felicità, quando all'alba, uscendo da quelle divine braccia, egli sarebbe tornato a Segovia, la sua Leonor, il bene supremo della sua vita, posseduto per un istante, in modo così insperato, sarebbe subito caduto sotto il dominio d'un altro padrone.
Ma che importava! Venissero dopo dolori e gelosie!
Quella notte era splendidamente sua, il mondo tutto era una vana apparenza, e l'unica realtà quella camera di Cabril, fiocamente illuminata, dove ella lo attendeva, coi capelli sciolti! 
Fu con impazienza che discese la scala, si slanciò sul cavallo. Poi, per prudenza, attraversò la piazzetta lentamente, con il cappello abbassato sugli occhi, come per una passeggiata normale, alla spontanea ricerca d'un po' di fresco notturno, fuori dalle mura. Nessun incontro lo inquietò fino alla porta di San Mauros. Lì, un mendico, accovacciato nell'oscurità d'un arco, e che toccava monotonamente la sua gironda, chiese con lamentosa cantilena, alla Vergine e a tutti i Santi, che tenessero sotto la loro dolce e santa guardia quel gentile cavaliere.
Don Ruy già stava per gettargli un'elemosina, allorché ricordò che quella sera non era passato in chiesa, all'ora dei Vespri, a pregare e a chiedere la benedizione della sua divina Madrina (*). Con un salto discese subito da cavallo, poiché proprio lì, vicino al vecchio arco, tremolava una lampada, illuminando un altarino. Era un'immagine della Vergine col petto trapassato da sette spade. Don Ruy s'inginocchiò, posò il cappello sulle lastre e con le mani giunte, con grande pietà, recitò un Salve Regina. Il chiarore giallognolo della lampada si diffondeva sul volto della Signora: che, senza sentire il dolore delle sette spade, e come se esse le dessero soltanto un'ineffabile piacere, sorrideva con le labbra molto vermiglie. Mentr'egli pregava, nel vicino convento di San Domingos la campana cominciò a suonare un'agonia.
Dalla cupa ombra dell'arco, cessando di suonare la gironda, il mendico mormorò: "Vi è laggiù un frate che muore". Don Ruy recitò un'Ave Maria per il frate che moriva. La Vergine dalle sette spade sorrideva dolcemente: quei tocchi d'agonia non erano poi un cattivo presagio! Don Ruy salì allegramente a cavallo e partì.
Oltre la porta di San Mauros, dopo alcune casupole di oliari, la strada continuava stretta e buia, fra alte agavi. Dietro le colline, sul fondo della tenebrosa pianura, saliva, giallo e languido, il primo chiarore della luna piena, ancor nascosta. E Don Ruy andava al passo, temendo di giungere a Cabril troppo presto, prima che le ancelle e i famigli avessero terminato il lavoro notturno e il rosario. Perché Dona Leonor non gli aveva indicata l'ora in quella lettera così precisa e così meditata? E la sua immaginazione correva innanzi, irrompeva nel giardino di Cabrìl, saliva ansiosamente la scala promessa, ed egli si slanciava dietro questo suo immaginare, in una corsa impaziente, che faceva saltare le pietre alla strada mal connessa. Poi frenava il cavallo ansante. Era presto, era presto! E riprendeva il passo lento, mentre sentiva il cuore battergli in petto, come un uccello prigioniero che batte contro le sbarre.
Così giunse alla Grande Croce, dove la strada si divideva in due strade, più avvicinate delle punte d'un tridente, e che tagliavano entrambe la pineta. Don Ruy si scoprì innanzi all'immagine del Crocifisso, e provò un istante d'angoscia, perché non ricordava quale delle due strade portasse al Colle degli Impiccati. Già s'era addentrata nella strada che attraversava la pineta più fitta allorché fra i pini silenziosi scorse una luce, danzante nell'oscurità. Era una vecchia cenciosa, con i lunghi capelli sciolti, appoggiata ad un bastone, che portava una candela.
"Dove conduce questa strada?", gridò Ruy.
La vecchia fece dondolare più alta la candela, per guardare bene il cavaliere.
"A Xarama"
E luce e vecchia immediatamente scomparvero, sommerse nell'ombra, come se fossero lì comparse soltanto per avvisare il cavaliere che aveva sbagliato strada... Già egli aveva furiosamente fatto voltare il cavallo, e, girando attorno al Calvario galoppò per l'altra strada più ampia, finché scorsi sullo sfondo chiaro del cielo i pilastri neri, gli alberi neri del Colle degli Impiccati. Allora si fermò improvvisamente, drizzandosi sulle staffe. Su di un monticello alto, arido, senza erba o eriche, uniti da un basso muro sbrecciato, si innalzavano neri, enormi, nel pallore lunare, i quattro pilastri di granito, simili ai quattro angoli d'una casa in rovina. Sui pilastri poggiavano quattro grosse travi. Dalle travi pendevano quattro impiccati neri e rigidi nell'aria calma e muta. E tutto, intorno, pareva morto come loro.
Grossi uccelli di rapina dormivano appollaiati sopra le travi. Più lontano brillava, livida, l'acqua morta dello stagno Das Donas. E nel cielo, grande e piena, la luna camminava.
Don Ruy mormorò il Padre Nostro dovuto da ogni cristiano a quelle anime peccatrici. Poi spronò il cavallo, e già se ne andava, allorché nell'immenso silenzio e nell'immensa solitudine risuonò una voce che lo chiamava, supplice e lenta: "Cavaliere, fermatevi, venite qua!..."
Don Ruy tirò bruscamente le redini e, ritto sulle staffe, girò gli occhi spaventati su tutta la sinistra altura. Scorse soltanto il colle scosceso, l'acqua luccicante e muta, le travi, i cadaveri. Pensò che forse era un'illusione della notte o l'audacia d'un qualche demonio errante.
E serenamente, spronò il cavallo, senza soprassalto o paura, come in una via di Segovia. Ma, dietro a lui, la voce si riudì, e lo richiamò, con più premura, ansiosa, quasi afflitta:
"Cavaliere, attendete, non andatevene, voltatevi, venite qui!"
Di nuovo Don Ruy si fermò, e, giratosi sopra la sella, scrutò coraggiosamente i quattro corpi penzolanti dalle travi.
Da quel lato risuonava la voce, che, essendo umana, poteva soltanto uscire da una forma umana! Uno di quegli impiccati, dunque, lo chiamava con tanta ansia e premura.
Restava forse ad alcuno, per miracolosa grazia di Dio, respiro e vita? O forse, per più vivo miracolo, una di quelle carcasse mezzo imputridite lo fermava, per trasmettergli un avviso dall'Aldilà?... Ma uscisse la voce dal petto d'un vivo o d'un morto, era grande viltà fuggire, terrorizzato, senza fermarsi ad udirla. Spinse subito su, per l'erta del Colle, il cavallo che tremava, e diritto e fermo, con la mano sul fianco, dopo aver fissato ad uno ad uno i quattro corpi sospesi, gridò:
"Chi di voi, o uomini impiccati, osò chiamare Don Ruy de Cardenas?"
Allora, quello che voltava le spalle alla luna piena rispose, dall'alto della corda, tranquillamente e naturalmente, come un uomo che dalla sua finestra conversa verso la strada: "Signore, sono stato io."
Don Ruy fece avanzare il cavallo fino a lui. Non gli distingueva il volto, affondato nel petto, celato nelle lunghe e nere ciocche dei capelli penzolanti. Avvertì soltanto che aveva le mani slegate e slegati pure i piedi nudi, già rinsecchiti e color del bitume.
"Che vuoi?"
L'impiccato, sospirando, mormorò: "Signore, fatemi la grande grazia di tagliarmi questa corda a cui sto appeso."
Don Ruy trasse la spada e con un colpo sicuro tagliò la corda mezzo imputridita. Con un sinistro scricchiolio di ossa che cozzavano, il corpo cadde al suolo, su cui giacque un momento disteso. Ma, immediatamente, si rizzò sui piedi malsicuri e ancora intorpiditi, e rivolse a Don Ruy una faccia morta, ch'era quella d'un cadavere con la pelle stirata e più gialla della luna che batteva su di essa. Gli occhi non avevano né luce né movimento. Le labbra erano stirate in un sorriso impietrito. Fra i denti, molto bianchi, usciva la punta di una lingua tutta nera.
Don Ruy non manifestò né terrore né ribrezzo. E ringuainando serenamente la spada: "sei morto o sei vivo?", chiese.
L'uomo si strinse lentamente nelle spalle: "Signore, non so... chi sa che cosa sia la vita? Chi sa che cosa sia la morte?"
"Ma che vuoi da me?"
L'impiccato, con le lunghe dita scarne, allentò la corda che ancora gli stringeva il collo e dichiarò sicuro e sereno:
"Signore, io voglio venir con voi a Cabril, dove voi andate."
Il cavaliere sussultò così forte, tirando le redini, che il suo buon cavallo si impennò come spaventato esso pure.
"Con me a Cabril?!..."
L'uomo curvò la schiena, di cui si vedevano tutte le ossa, più acute dei denti d'una sega, attraverso un lungo brandello di camicia di stamigna: "Signore", supplicò, "non negatemelo. Perché io riceverò un grande premio se vi renderò un grande servizio!"
Allora Don Ruy pensò all'improvviso che quella poteva essere una formidabile astuzia del Demonio. E, fissando gli occhi ardenti in quella faccia morta che si levava verso di lui, ansiosa, nell'attesa del consenso, tracciò lento ed ampio il segno della Croce.
L'impiccato abbassò gli occhi con timorosa riverenza:
"Signore, perché volete provarmi con questo segno? Soltanto per suo mezzo otteniamo remissione, soltanto da esso spero misericordia."
Allora Don Ruy pensò che se quell'uomo non era mandato dal Demonio, ben poteva esser mandato da Dio! E subito devotamente, con un gesto sottomesso, col quale si rimetteva al Cielo, acconsentì e accettò il terrificante compagno: "Vieni con me, dunque, a Cabril, se Dio ti manda! Ma io nulla ti domando e tu non domandarmi nulla."
Fece discendere subito il cavallo nella strada, tutta illuminata dalla luna. L'impiccato gli camminava di fianco, con passo così leggere che, anche quando Don Ruy galoppava, egli continuava a rimanere presso la staffa, come portato da un vento silenzioso. A volte, per respirar più liberamente, allentava il nodo della corda che gli stringeva il collo. E quando passavano attraverso siepi odoranti di fiori silvestri, l'uomo mormorava con sollievo e delizia: "Quant'è bello correre!"
Don Ruy andava, assorto in una meraviglia, in una tormentosa preoccupazione. Ben comprendeva, ora, che quello era un cadavere rianimato da Dio per uno strano e misterioso servizio. Ma perché Dio gli dava un così spaventoso compagno?! Per proteggerlo? Per impedire che Dona Leonor, amata dal Cielo per la sua pietà, cadesse in colpa mortale? E per una così divina incombenza, di così alta grazia, non aveva, il Signore, angeli nel Cielo? Era necessario ricorrere a un suppliziato?... Come avrebbe allegramente girate le redini verso Segovia, se non fosse stato per galante lealtà di cavaliere, orgoglio di non indietreggiae, e sottomissione agli ordini di Dio, che sentiva incombere su di sé...
Dall'alto della strada, all'improvviso scorsero Cabril, le torri del convento francescano biancheggianti nel plenilunio, i casali addormentati fra gli orti. In gran silenzio, senza che un cane latrasse dietro i cancelli o dall'alto d'un muretto, discese sul vecchio ponte romano. Dinanzi al Calvario, l'impiccato cadde in ginocchio sulle pietre, congiunse le livide ossa delle mani, e rimase a lungo assorto in preghiere, tra lunghi sospiri.
Poi, all'entrata del sentiero, bevette copiosamente con sollievo, da una fonte che correva e cantava sotto le fronde di un salice. Poiché il sentiero era molto stretto, egli camminava innanzi al cavaliere, tutto curvo, con le braccia incrociate sul petto, senza rumore.
La luna se ne andava alta nel cielo. Don Ruy considerava con amarezza quel disco, pieno e lucente, che spargeva tanto chiarore con così poca discrezione, sul suo segreto. Ah, come si sciupava quella notte che doveva esser divina! Una luna enorme sorgeva dietro i mondi illuminando ogni cosa. Un impiccato aveva lasciato la sua forca per seguirlo e tutto conoscere. Dio così aveva ordinato. Ma che tristezza giungere alla dolce porta, dolcemente promessa, con tale intruso al suo lato, sotto quel cielo così chiaro!
Bruscamente l'impiccato si fermò, alzando il braccio, da cui pendeva una manica a brandelli.
Erano giunti al termine del sentiero che sbucava in una strada più larga e più battuta: e innanzi a loro biancheggiava il lungo muro della proprietà del signor de Lara, che presentava in quel luogo un belvedere, con terrazzino di pietra e tutto rivestito d'edera.
"Signore", mormorò l'impiccato, reggendo con rispetto la staffa di Don Ruy "a pochi passi da questo belvedere vi è la porta per cui dovete entrare nel giardino. è necessario che lasciate qui il cavallo, legato ad un albero, se lo sapete sicuro e fedele, poiché nell'impresa a cui stiamo per andare incontro è già di troppo il rumore dei nostri piedi!..." 
Silenziosamente Don Ruy balzò a terra, e legò il cavallo, che sapeva fedele e sicuro, al tronco d'un olmo rinsecchito.
E si sentiva così sottomesso a quel compagno imposto da Dio, che senz'altra osservazione lo seguì lungo il muro illuminato dalla luna.
Con profonda cautela, e sulla punta dei piedi nudi, l'impiccato ora avanzava, scrutando la sommità del muro, l'oscurità della siepe e fermandosi ad ascoltare rumore che soltanto da lui potevano essere percepiti, perché Don Ruy non aveva mai veduta notte più profondamente addormentata e muta.
E tale paura, in un essere che avrebbe dovuto essere indifferente ai pericoli umani, andò lentamente riempiendo pure il valoroso cavaliere di così viva diffidenza, che egli tirava il pugnale dalla guaina, arrotolava il mantello sul braccio, camminava all'erta, con l'occhio acceso, come per una strada d'imboscata e di rissa. Giunsero così ad una bassa porta, che l'impiccato sospinse, e che s'aprì senza gemere sui cardini. Entrarono in un sentiero fiancheggiato da folti tassi, e giunsero ad uno stagno pieno d'acqua, su cui galleggiavano foglie di nenufari, e che rustici banchi di pietra circondavano, coperti dai rami di arbusti in fiore.
"Da questa parte", mormorò l'impiccato, stendendo il braccio incartapecorito.
Vi era, oltre lo stagno, un viale a cui i fronzuti e vecchi alberi formavano un'oscura volta. In esso s'immersero come ombre nell'ombra; l'impiccato camminava davanti, e Don Ruy lo seguiva con passo leggero, senza sfiorare un ramo, calcando appena la ghiaia. Un leggero filo d'acqua sussurrava tra le erbe. Lungo i tronchi salivano rose rampicanti, che olezzavano dolcemente. Il cuore di Don Ruy cominciò a battere d'amorosa speranza.
"Ssss!", mormorò l'impiccato.
E Don Ruy urtò quasi il sinistro uomo, che stava con le braccia aperte come i ferri d'una cancellata.
Davanti a loro quattro gradini di pietra portavano a un terrazzo, su cui la chiarità era ampia e diffusa. Tutti curvi, salirono i gradini, e in fondo a un giardino senz'alberi, tutto aiuole di fiori ben curati, contornate da bosso tagliato, scorsero un lato della casa sotto il plenilunio. In mezzo, tra le finestre della facciata principale, un balcone di pietra, con mascheroni agli angoli, aveva le vetrate spalancate. Il silenzioso appartamento, all'interno, era come un buco tenebroso nella chiarità della facciata che la luna inondava. E appoggiata al balcone stava una scala con gradini di corda.
Allora l'impiccato sospinse vivamente Don Ruy dai gradini verso l'oscurità del viale. E lì, frettolosamente, dominando il cavaliere, esclamò:
"Signore! è ora necessario che mi diate la vostra cappa e il vostro cappello! Voi rimanete qui, nell'oscurità di questi alberi. Io salirò quella scala e guarderò in quella camera. E se tutto è come desiderate, tornerò qui, e con Dio siate felice..."
Don Ruy indietreggiò per l'orrore che una tale creatura salisse a quella finestra.
Batté il piede, e gridò sordamente:
"No, per Dio!"
Ma la mano dell'impiccato, livida nell'oscurità, bruscamente gli strappò il cappello dalla testa e la cappa di sul braccio. E già se ne copriva, già se ne avvolgeva, mentre ancor mormorava in un'ansiosa supplica:
"Non negatemelo, signore, che se vi renderò un grande servizio, guadagnerò un grande premio!"
Salì i gradini: si trovava ora sull'ampio e luminoso terrazzo.
Don Ruy attese, meravigliato, e guardò. Ma... era lui, Don Ruy, tutto lui, nella figura e nel portamento, quell'uomo che, tra le aiuole e il bosso tagliato, avanzava, gentile e lieve, con la mano sul fianco, il volto sorridente levato verso la finestra, la lunga piuma scarlatta del cappello ondeggiante trionfalmente. L'uomo avanzava nello splendore del plenilunio. L'amorosa stanza stava là in attesa, spalancata ed oscura. E Don Ruy guardava, con occhi che brillavano, tremando di stupore e di collera. L'uomo era
giunto alla scala: si svolse dalla cappa, e appoggiò il piede sul primo gradino della scala di corda!
"Ah... sale lassù, il maledetto", ruggì Don Ruy.
L'impiccato saliva. Già l'alta figura, ch'era la figura di lui, Don Ruy, si trovava a mezza scala, tutta nera contro la parete bianca. Si fermò!... No, non s'era fermata: saliva, era giunto... ormai posava il ginocchio prudente sul davanzale della terrazza. Don Ruy guardava, disperatamente, con gli occhi, con l'anima, con tutto l'essere suo... Ed ecco che, all'improvviso, dalla nera stanza esce una massa nera, un'infuriata voce grida: "Vile! vile!" e la lama d'una daga brilla, s'abbassa, e un'altra volta si leva e brilla, e si abbatte, e ancora rifulge e ancora s'immerge!...Come un fardello, dall'alto della scala, pesantemente, l'impiccato cade sopra la terra molle. Le vetrate, le porte del balcone si chiudono tosto con fragore. E non vi fu più che il silenzio, la molle serenità, la luna alta e tonda nel cielo d'estate.
In un lampo Don Ruy aveva compreso il tradimento, e aveva sguainata la spada, indietreggiando nell'oscurità del viale; allorché miracolosamente, correndo attraverso il terrazzo, apparve l'impiccato, che gli afferrò la manica e gli gridò: "A cavallo, signore, e fuggite, che l'appuntamento non era d'amore, ma di morte!"
Percorsero entrambi frettolosamente il viale, costeggiarono lo stagno, sotto il riparo degli arbusti in fiore, penetrarono per la stretta strada fiancheggiata dai tassi, oltrepassarono la porta, e si fermarono un momento, ansanti, nella strada, che la luna, più fulgida, più tonda, illuminava a giorno. E allora, soltanto allora, Don Ruy scoprì che l'impiccato conservava piantata nel petto, fino alla lama, la daga, la cui punta gli usciva dal dorso, lucida e limpida!... Ma lo spaventevole personaggio lo sospingeva, lo pressava: "A cavallo, signore, e in tutta fretta, che sta ancora sopra di noi il tradimento!"
Tremante, nell'ansia di finire un'avventura così piena di miracolo e di orrore, Don Ruy raccolse le redini, e si mise a galoppare furiosamente. E subito, in gran fretta, l'impiccato saltò egli pure in groppa al cavallo fedele. Il buon cavaliere provò raccapriccio nel sentir sfiorare il suo dorso da quel corpo morto, staccatosi da una forca, attraversato da una daga. E con quale angoscia galoppò allora per la strada interminabile! Malgrado la violenta cavalcata l'impiccato non oscillava, rigido in groppa, come un bronzo su d'un piedistallo. E Don Ruy sentiva crescere istante per istante un freddo intenso che gli gelava le spalle, come se vi portasse sopra un sacco di ghiaccio. Passando sul crocevia mormorò: "Signore, proteggetemi!". Oltrepassato il crocevia il raccapriccio lo pervase, per la chimerica paura che un così funebre compagno gli restasse al fianco per sempre, e che gli toccasse il destino di galoppare attraverso il mondo, in una notte eterna, portando un morto in groppa... E non si contenne, ma gridò, dietro di sé, nel vento della corsa che lo flagellava: "Dove volete che vi porti?"
L'impiccato, stringendosi tanto a Don Ruy da ammaccarlo con l'elsa della daga, mormorò:
"Signore, è necessario che mi lasciate sul Colle!"
Infinito, dolce sollievo per il buon cavaliere, poiché il Colle era vicino, e già si scorgevano nel pallido chiarore i pilastri e le nere travi... Presto arrestò il cavallo che tremava, bianco di spuma.
Tosto l'impiccato, silenziosamente, scivolò di groppa e assicurò come un buon servo la staffa di Don Ruy. E col teschio eretto, la lingua nera più sporgente fra i bianchi denti, mormorò con rispettosa preghiera: "Signore fatemi ancora la grande grazia d'appendermi un'altra volta alla mia trave."
Don Ruy rabbrividì d'orrore: "In nome di Dio... io, dovrei impiccarvi?"
L'uomo sospirò, aprendo le lunghe braccia: "Signore, per volontà di Dio e per volontà di Colei che è più cara a Dio!"
Allora, rassegnato, sottomesso al volere dell'Altissimo, Don Ruy saltò a terra e cominciò a seguire l'uomo che saliva il Colle, meditanondo, col dorso curvo, da cui usciva, luccicante, la punta della daga. Si fermarono entrambi sotto la trave vuota. Intorno, dalle altre travi, pendevano le altre carcasse. Il silenzio era più triste e più profondo degli altri silenzi della terra. L'acqua dello stagno s'oscurava. La luna tramontava e impallidiva.   
Don Ruy considerò la trave, su cui restava, penzolante nell'aria, il pezzo di corda che egli aveva tagliato con la spada.
"Come volete che vi appenda?", esclamò, "Non posso raggiungere quel pezzo di corda con la mano. Né io solo basto per issarvi lassù."
"Signore", rispose l'uomo, "lì in un angolo vi deve essere un lungo rotolo di corda. Attaccherete un'estremità d'essa al nodo che mi stringe il collo, e l'altra estremità la lancerete in cima alla trave, e spingendo poi, forte come siete, mi potrete appendere di nuovo."
Curvi entrambi, con passo lento, cercarono il rotolo di corda. E fu l'impiccato che lo trovò e lo srotolò... Allora Don Ruy sfilò i guanti. E guidato dal defunto (che così bene aveva imparato dal carnefice) attaccò un'estremità della corda al laccio che l'uomo conservava ancora al collo, e lanciò forte l'altra estremità, che ondeggiò nell'aria, passò sopra la trave, cadde penzolante fino a sfiorare il suolo. E il gagliardo cavaliere, puntando i piedi, tendendo le braccia, spinse, issò l'uomo, fino a che egli se ne rimase sospeso nell'aria, nero, come un impiccato naturale, fra gli altri impiccati.
"State bene così?"
Lenta e soffocata, la voce del morto rispose:
"Signore, sto come devo,"
Intanto Don Ruy, per fissarla, rotolò la corda, in ampi giri, intorno al pilastro di pietra. Quindi posò il cappello, asciugandosi con la costa della mano il sudore che lo inondava, poi contemplò il suo sinistro e miracoloso compagno. Stava là, rigido come prima, con la faccia pendula, sotto la capigliatura ricadente, i piedi irrigiditi, imputridito come una vecchia carcassa.
Nel petto conservavo la daga infilzata. Sulla trave due corvi dormivano quieti.
"E ora che cosa volete ancora?", domandò Don Ruy, cominciando a infilarsi i guanti.
Con voce cavernosa dall'alto, l'impiccato mormorò:
"Signore, di gran cuore ancora vi prego, che al vostro arrivo a Segovia confessiate tutto fedelmente a Nostra Signora del Pilar, vostra Madrina, poiché da lei spero una grande grazia per l'anima mia, in cambio del servizo che, per ordine suo, vi ho reso col mio corpo!"
Allora Don Ruy de Cardenas comprese ogni cosa, e inginocchiandosi devotamente, sopra quella terra di dolore e di morte, recitò una lunga orazione per quel buon impiccato.
Poi galoppò verso Segovia. Albeggiava allorché oltrepassò la porta di San Mauros. Nell'aria sottile le chiare campane suonavano il Mattutino. Ed entrando nella chiesa di Nostra Signora del Pilar, ancor sotto l'impressione della sua terribile giornata, Don Ruy, prostrato innanzi all'altare, narrò alla sua Divina Madrina l'infausta tentazione che l'aveva condotto a Cabril, il soccorso che aveva ricevuto dal Cielo e con calde lacrime di pentimento e di gratitudine le giurò che mai più avrebbe rivolto il suo desiderio ove vi fosse peccato, e che mai più avrebbe albergato nel suo cuore un pensiero che provenisse dal Mondo e dal Male.

(*) Come già dicevo, qui c'è un errore teologico. Maria non è divina, perché non è una Dea. è la serva obbediente, sottoposta a dio.


IV

Alla stessa ora, a Cabril, Don Alonso de Lara, con gli occhi sbarrati per l'angoscia e il terrore, scrutava tutti i sentieri, e gli angoli e le ombre del suo giardino. Quando all'alba, dopo aver origliato alla porta della camere in cui quella notte aveva chiuso Dona Leonor, egli era disceso cautamente in giardino e non aveva trovato, sotto il terrazzo, ai piedi della scala, come deliziosamente sperava, il corpo di Don Ruy de Cardenas, aveva pensato che certo quell'uomo odioso, cadendo, con ancor un debole resto di vita, si era trascinato, sanguinando e ansando, nel tentativo di raggiungere il cavallo e di allontanarsi da Cabril...
Ma con quella poderosa daga con cui tre volte egli gli aveva trapassato il petto, e che nel petto gli aveva lasciata, il vile non aveva certo potuto fare molta strada, e doveva pur giacere in qualche angolo, freddo e rigido. Scrutò allora ogni sentiero, ogni ombra, ogni macchia d'arbusti. Ma, fatto straordinario, non scoprì né corpo né orme né terra rimossa, né alcuna macchia di sangue! E tuttavia, con mano sicura e famelica di vendetta, tre volte gli aveva piantata la daga nel petto, e nel petto gliel'aveva lasciata!
Ed era Ruy de Cardenas l'uomo che egli aveva ucciso, perché molto bene e subito l'aveva riconosciuto, dall'oscuro fondo della stanza da dove stava spiando, quand'egli, nel chiarore lunare, veniva attraverso il terrazzo, fiducioso, disinvolto, con la mano alla cintura, il volto sorridente, eretto, e la piuma del cappello trionfalmente dondolante! Come poteva essere accaduto l'impossibile fatto che un corpo mortale sopravvivesse ad un ferro, che per tre volte gli aveva attraversato il cuore, e nel cuore era rimasto inflitto? E più impossibile ancora era che sul suolo, sotto il terrazzo dove si stendeva lungo il muro una fila di viole e di gigli, quel corpo vigoroso, cadendo da tanta altezza, pesantemente, inertemente, come un fardello, non avesse lasciato segno!
Non un fiore calpestato, ma tutti diritti, rigogliosi, freschi, cosparsi di lievi gocce di rugiada! Immobile d'uno spavento ch'era quasi terrore, Don Alonso de Lara rimaneva lì assorto, a considerare il balcone, a misurare l'altezza della scala, guardando stralunato le viole diritte, fresche, senza uno stelo o una foglia piegata. Poi ricominciava a percorrere come un folle il terrazzo, il viale, il sentiero dei tassi, sempre nella speranza d'incontrare un'orma, un ramo spezzato, una macchia di sangue sulla sabbia fine.
Nulla! Tutto il giardino offriva un ordine insolito, una serenità nuova, come se sopra di esso non fosse passato né il vento che sfoglia, né il sole che avvizzisce.
Allora, all'imbrunire, divorato dall'incertezza e dal mistero, prese un cavallo, e, senza scudiero o stalliere, partì per Segovia.
Curvo, in gran segreto, come un fuoriuscito, entrò nel suo palazzo per la porta del frutteto: e la sua prima cura fu di correre alla galleria degli archi, spalancare i battenti della finestra, e scrutare avidamente la casa di Don Ruy de Cardenas. Tutte le persiane della vecchia casa dell'arcidiacono erano buie, aperte, a respirare la freschezza della notte, e alla porta, seduto su un banco di pietra, un mozzo di stalla accordava accuratamente la mandòla.
Don Alonso de Lara discese nella sua camera, livido, pensando che non potevano certo essere accadute disgrazie in una casa in cui tutte le finestre erano spalancate per dar aria, e sulla porta di strada i domestici oziavano. Allora batté le palme, chiese furiosamente la cena. E appena seduto a capotavola, sulla sua alta seggiola di cuoio lavorato, mandò a chiamare l'intendente, a cui offrì subito con strana familiarità, una coppa di vecchio vino. E mentre l'uomo, in piedi, beveva rispettosamente, Don Alonso, accarezzandosi la barba, e sforzando la sua fosca faccia a sorridere, cominciò ad interrogarlo sulle novità e sui pettegolezzi di Segovia. In quei giorni della sua permanenza a Cabril, nessun fatto aveva destato per la città spavento o scandalo?
L'intendente si asciugò le labbra, per affermare che nulla era accaduto a Segovia che potesse destare mormorazioni, se non che la figlia del signor Gutierrez, giovanissima e ricchissima, aveva preso il velo nel convento delle Carmelitane Scalze. Don Alonso insisteva, fissando voracemente l'intendente. E non v'era stata qualche grande rissa? ...Non s'era trovato ferito sulla strada di Cabril un giovane cavaliere assai noto?... L'intendente si strinse nelle spalle: non aveva udito nulla, nella città, di risse o di cavalieri feriti. Con un brusco cenno Don Alonso congedò l'intendente.
Dopo aver cenato parcamente, ritornò subito nella galleria, a scrutare le finestre di Don Ruy. Erano ancora chiuse; all'ultima, nell'angolo, tremolava un leggero chiarore. Don Alonso vegliò tutta la notte, rimuginando instancabilmente il suo terrore. Come aveva potuto fuggire quell'uomo, con una daga che gli trapassava il cuore? Come aveva potuto?... All'alba prese una cappa, un largo cappello, discese nella piazzetta, tutto imbacuccato, e si mise a ronzare innanzi alla casa di Don Ruy. Le campane suonavano il Mattutino. I mercanti, con i giubboni male abbottonati, uscivano ad aprire le porte dei negozi e ad appendere i cartelli. Già gli ortolani, pungolando gli asini, carichi di ceste, annunziavano a grida i loro freschi ortaggi, e frati scalzi, con le bisacce sulle spalle, chiedevano l'elemosina, benedicevano le ragazze.
Beghine imbacuccate, con grossi rosari neri, correvano golosamente verso la chiesa. Poi il banditore della città, fermatosi ad un angolo della piazzetta, suonò una tromba, e con una voce tremenda cominciò a leggere un editto. Il signor de Lara s'era fermato presso la fontana, smarrito, come sperduto nel canto dei tre cannelli d'acqua. Ad un tratto pensò che quell'editto letto dal banditore della città poteva forse riferirsi a Don Ruy, alla sua sparizione...
Corse all'angolo della piazza, ma già l'uomo rotolava la sua carta, e si allontanava maestosamente, battendo sopra le lastre con la sua bacchetta bianca.
E allora, quando Don Alonso si voltò per spiare di nuovo la casa, i suoi occhi attoniti incontrarono Don Ruy. Don Ruy che egli aveva ucciso, e che se ne veniva verso la chiesa di Nostra Signora, svelto, allegro, con la faccia sorridente ed eretta nella fresca aria mattutina, il corsetto e le piume del cappello in tinta chiara, con una mano posato sul fianco e l'altra che giocherellava distrattamente con un bastoncello dai fiocchi di cordoncino dorato.
Don Alonso rientrò allora in casa con passo strascicato e senile. Alla sommità della scala di pietra trovò il suo vecchio cappellano ch'era venuto a ossequiarlo e che entrando con lui nell'anticamera, dopo aver rispettosamente domandato notizie della signora Dona Leonor, gli narrò un prodigioso avvenimento che provocava per la città grandi commenti e vivo terrore. Il giorno prima, verso sera, essendo andato il corregidor a visitare il Colle degli Impiccati, poiché si avvicinava la festa dei Santi Apostoli, aveva scoperto, con grande meraviglia e grande scandalo, che uno degli impiccati portava una daga piantata nel petto!
Era stato lo scherzo di un sinistro briccone? Una vendetta che neppure la morte aveva saziato?... E per maggior prodigio ancora, il corpo era stato staccato dalla forca, trascinato in un orto o in un giardino (poiché si trovarono attaccate ai vecchi cenci del morto delle tenere foglie) e poi nuovamente impiccato e con una corda nuova!... E così andavano i tempi, turbolenti al punto che neppure i morti sfuggivano a oltraggi!
Don Alonso ascoltava con le mani che gli tremavano e i capelli irti. E subito, in un'ansiosa agitazione, ruggendo, inciampando contro le porte, volle partire e verificare con i propri occhi la funebre profanazione. Su due mule bardate in fretta partì per il Colle degli Impiccati, trascinando seco il cappellano stordito.
Molta gente di Segovia s'era già raccolta sul Colle, stupita del fatto meraviglioso e orrendo: il morto ch'era stato ucciso!... Tutti si scostarono innanzi al nobile signore de Lara che, slanciatosi sulla sommità del Colle, s'era fermato a guardare, stralunato e livido, l'impiccato e la daga che gli trafiggeva il petto. Era la sua daga: era stato lui che aveva ucciso il morto! Galoppò terrorizzato sino a Cabril. E lì giunto, si chiuse con il suo segreto, cominciando subito a ingiallire, a dimagrire, evitando Dona Leonor, nascosto nei più oscuri sentieri del giardino, mormorando parole al vento, finché all'alba di San Joan un'ancella che tornava dalla fontana con la sua brocca, lo rinvenne morto sotto il balcone di pietra, lungo disteso a terra, con le dita sprofondate fra le piante delle viole, dove sembrava aver a lungo scavato la terra, per cercare...


V

Per sfuggire a tali angosciose memorie, Dona Leonor, ereditiera di tutti i beni di casa de Lara, si ritirò nel suo palazzo di Segovia. Ma poiché ora sapeva che Don Ruy de Cardenas era sfuggito
miracolosamente all'imboscata di Cabril, e poiché ogni mattina, spiando attraverso le persiane socchiuse, lo seguiva con occhi che non si saziavano e si inumidivano allorché egli attraversava la piazzetta per entrare in chiesa, ella non volle, per timore dell'impazienza del suo cuore, visitare la Signora del Pilar finché durasse il suo lutto. Poi, un mattino di domenica, quando, invece che di nero crespo, poté vestirsi di seta violetta, discese la gradinata del suo palazzo, oltrepassò la porta della chiesa. Don Ruy de Cardenas stava inginocchiato innanzi all'altare, dove aveva posato il suo fascio votivo di garofani gialli e bianchi. Al fruscio delle fini sete alzò gli occhi colmi d'una speranza purissima, tutta fatta di grazia celeste, come se un angelo l'avesse chiamato. Dona Leonor si inginocchiò col petto ansante, così pallida e così felice che la cera delle torce non era più pallida, né più felici erano le rondini che battevano le ali libere, per le ogive della vecchia chiesa.
Innanzi a quell'altare, inginocchiati su quelle lastre, essi furono uniti in matrimonio dal vescovo di Segovia, Don Martinho, nell'autunno dell'anno di grazia 1475, regnando già in Castiglia Isabel e Fernando, potenti sovrani e ferventi cattolici, per mezzo dei quali Dio operò grandi cose sulla terra e sul mare.

Melancholia








''Clarimonde'' di Théophile Gautier


Lei mi chiede, Padre, se io abbia mai goduto dei piaceri dell'amore. Ebbene, sì. Atroce e strana è la mia storia: tanto che, sebbene abbia ormai varcato la soglia dei settant'anni, ancora ho ritegno nel cercare le braci vive d'un tal ricordo fra le ceneri della memoria. Ma a lei non oso rifiutar nulla: sia chiaro, però, che a nessun animo meno esperto del suo farei mai il racconto delle mie esperienze.
Volle il fato ch'io mi trovassi, per più di tre anni, preda e prigione d'una illusione diabolica. Io, misero e solingo prete di campagna, ogni notte condussi in sogno (e volesse Iddio che fosse stato solo un sogno!) la vita d'un Sardanapalo. Per correre il rischio di perdere l'anima immortale, mi bastò l'aver gettato un solo sguardo, forse troppo partecipe, su una creatura di sesso femminile. Per buona sorte infine, col soccorso di Nostro Signore e del mio Santo Patrono, riuscii a scacciare lo spirito immondo che mi possedeva: ma il rischio fu immenso.
La mia esistenza, a un certo punto della mia vita, s'era complicata per l'aggiunta d'una esistenza notturna supplementare, in pieno contrasto con l'altro. Il giorno, ero un piccolo prete adorno della propria castità, tutto preso dalle orazioni e dai servizi santi: ma la notte, chiusi gli occhi, mi trasformavo in un baldo giovane, profondo conoscitore di femmine, cani e cavalli, giocatore di dadi, bevitore, bestemmiatore. E, al risveglio, nel chiaro dell'alba, pensavo di stare sul punto di addormentarmi per sognare d'essere un prete.
Di questa vita da sonnambulo, mi sono rimasti ricordi, ahimè, incancellabili di cose che mai avrei dovuto vedere e parole che mai avrei dovuto udire. E malgrado non sia mai uscito dalle mura del mio presbiterio, a sentirmi parlare si direbbe ch'io sia un uomo dal passato intenso, che ha goduto di tutti i piaceri del mondo, e che infine si sia accostato alla pace religiosa per chiudere nel grembo di Dio i suoi giorni troppo agitati: non certo l'umile seminarista che fui nella realtà, invecchiato nel silenzio, disperso nel cupo d'un bosco ove mai ebbei occasione d'avere rapporto alcuno con le cose del mondo.
Invece, ho amato come nessuno su questa terra ha amato mai, di un amore furioso, così violento, ch'io stesso mi stupisco che il cuore non me ne sia scoppiato. Che tensione paurosa! Che notti! Che notti!
La vocazione a farmi prete l'avevo subita fin dalla più tenera infanzia: per cui, tutti i miei studi furono orientati a tale scopo, tanto che la mia vita, fino ai ventiquattro anni, non fu che un lungo noviziato. Conclusi gli studi di teologia e superati tutti i gradi minori, malgrado la mia giovinezza, i superiori mi stimarono degno di varcare l'ultima soglia, la più temibile: si stabilì che avrei ricevuto gli Ordini Sacri, e nella settimana di Pasqua sarei diventato prete.
Mai, prima d'allora, ero stato al di fuori della cinta in cui erano racchiusi il collegio che avevo frequentato, e il seminario. Sapevo, certo, che esisteva qualcosa che chiamavano "donna": ma con estrema vaghezza, e senza mai che su tal pensiero la mia mente si fosse soffermata. Ero d'una innocenza pura e perfetta.
Nulla avevo da rimpiangere, e non provavo dunque la minima esitazione di fronte all'impegno irrevocabile che stavo per sigillare: anzi, la mia anima era piena di gioia e d'impazienza.
Non credo che alcun fidanzato abbia mai contato gli istanti che lo separavano dall'unione con la promessa sposa con un ardore più acceso del mio. Non riuscivo neppure a prendere sonno, eccitato com'ero all'idea che alfine avrei potuto celebrare la Santa Messa. Esser prete: nulla al mondo sapevo concepire di più bello. Senza esitare, avrei rifiutato d'esser re o poeta.
E venne il gran giorno. Mi diressi alla chiesa con passi tanto leggeri che mi pareva che sulle spalle mi sorreggessero le ali d'un angelo. Simile a un angelo, infatti, mi credevo e mi meravigliavo dei volti scuri e preoccupati che attorno a me esibivano molti dei miei compagni: perché eravamo in molti in procinto di ricevere gli Ordini. Avevo passato la notte in preghiera, ed ero così esaltato da rasentare l'estasi. Il Vescovo, un vegliardo venerando, mi pareva Iddio, in atto di contemplare la propria stessa eternità. Attraverso le volte del tempio, vedevo il cielo.
Lei, fratello mio, conosce i particolari della cerimonia: Benedizione, Comunione, unzione delle mani con l'olio dei catecumeni, e infine il Santo Sacrificio, che si offre insieme con il Vescovo. Oh! Come aveva ragione Giobbe! Quanto è imprudente non fare un patto preventivo con i propri occhi! Per caso, a un tratto, alzai la testa, e di colpo vidi davanti a me, tanto vicina da poterla toccare (benché, in realtà, fosse piuttosta lontana), una giovane donna di straordinaria bellezza, vestita come una regina. Fu come se delle scaglie mi cadessero dagli occhi: provai la sensazione di un cieco che ritrova all'improvviso la vista.
Il Vescovo, così splendido fino a quel momento, subito si spense, i ceri impallidirono nei candelieri d'oro come le stelle al mattino, e in tutta la chiesa si fece per me il buio completo. L'affascinante creatura si staccava da quel sipario d'ombra come una rivelazione divina: pareva splendesse di luce propria, che fosse essa stessa una fonte di luce.   
Abbassai le palpebre, deciso a non sollevarle mai più, per sottrarmi a ogni fascino che potesse provenire dall'esterno: perché in realtà mi sentivo sempre più distratto, e sempre meno mi rendevo conto di quel che facevo.
Un istante dopo riaprii gli occhi, perché anche attraverso le palpebre chiuse la vedevo brillare in una rossa penombra, come se stessi fissando il sole.
Quanto era bella! I più grandi pittori, anche quando vogliono raffigurare la Madonna, e cercano quindi di rappresentare l'ideale della bellezza, non si avvicinano neppure lontanamente a quella favolosa realtà. Nessuna tavolozza di pittore, nessun verso di poeta avrebbero potuto darne l'idea. Ancora non so se la fiamma che la illuminava provenisse dal cielo o dall'inferno: ma certo veniva o dall'uno o dall'altro.
Man mano che la contemplavo, sentivo schiudersi in me delle porte di cui non sospettavo nemmeno l'esistenza, e la vita mi appariva in una luce tutta diversa. Era come se nascessi a un nuovo essere, a un altro ordine di idee. Un'angoscia spaventosa mi mordeva il cuore, e ogni minuto che passava mi sembrava nello stesso tempo un secondo e un secolo.
La cerimonia, comunque, proseguiva, trasportandomi sempre più lontano da quel mondo di cui i miei nuovi desideri assediavano furiosamente l'entrata.
Comunque, nel momento fatale dissi "sì". Avrei voluto dire "no": tutto in me si rivoltava e protestava contro la violenza che la mia lingua stava facendo alla mia anima. Ma una forza occulta mi strappò la parola decisiva di gola, malgrado me stesso.
Qualcosa di simile deve accadare alle molte ragazze che vanno all'altare con la ferma risoluzione di rifiutare lo sposo che vien loro imposto contro la loro volontà: giunto il momento, nessuna ricusa le nozze. Qualcosa del genere deve anche accadere a tutte quelle povere novizie che finiscono col prendere il velo, anche quando sarebbero ben decise a farlo a brani al momento dei voti.
Poche osano far scoppiare scandali davanti a tutti, o deludere l'aspettativa di tante brave persone. Si indovinano, tese e concentrate sulla risposta che dovete dare, tutte le singole volontà dei presenti: i loro sguardi fissi opprimono come una cappa di piombo. E poi, ogni cosa è già predisposta, tutto è così ben regolato in anticipo, e appare così irrevocabile, che ogni reazione personale cede sotto quel peso immane e non può che arrendersi definitivamente.
Lo sguardo della bella sconosciuta mutava di espressione man mano che la cerimonia procedeva. Dapprima tenero e carezzevole, si coloriva sempre più di una sorta di sdegno e di disapprovazione, come per esprimere scontento per ciò cui doveva assistere.
Feci uno sforzo, da solo sufficiente a sradicare una montagna, per esprimere con un urlo la mia volontà di non farmi più prete: non riuscii a nulla. La mia lingua era incollata al palato, e non riuscii a tradurre la mia intenzione neppure col più insignificante cenno negativo. Sveglio, vivevo in una sorta di incubo.
Lei sembrò accorgersi del martirio che stavo subendo, e, come se mi volesse incoraggiare, mi lanciò un'occhiata piena di divine promesse. I suoi occhi erano un poema, di cui ogni sguardo costituiva una cantica.    
Pareva che mi dicesse: "Se vorrai essere mio, ti farò più felice di quanto possa renderti Dio in Paradiso; gli angeli ti invidieranno. Strappa il lugubre sudario con cui stanno per avvolgerti: io sono la bellezza, la gioventù, la vita. Vieni da me: insieme, saremo l'amore. La nostra vita scorrerà come un sogno, non sarà che un lungo, eterno bacio. Spargi a terra il vino del calice che ti porgono, e sarai libero. Io ti guiderò verso isole sconosciute: dormirai sul mio seno, in un letto d'oro e sotto un baldacchino d'argento; perché io ti amo, e voglio sottrarti a Dio, verso il quanto tanti cuori riversano torrenti d'amore, che non arrivano nemmeno fino a lui."
Mi pareva di udire queste parole accompagnate da una musica dalla dolcezza infinita, perché il suo sguardo sembrava parlare, e le frasi che i suoi bellissimi occhi trasmettevano vibravano in fondo al mio cuore, come se una bocca invisibile me le soffiasse nell'anima. Mi sentivo prontissimo a rinunciare a Dio, ma intanto continuavo a compiere macchinalmente tutte le formalità del rito.
La bella mi gettò uno sguardo così carico di supplica e talmente disperato, che fu come se mille lame acuminate mi trafiggessero il cuore.
Ma, ormai, era fatta: ero prete.
Mai viso umano espresse un'angoscia più straziante: la giovinetta che vede cadere al suo fianco il promesso sposo fulminato da una sincope, la madre che trova vuota la culla del suo bambino, l'avaro che scorge una pietra al posto del suo oro, il poeta che ha lasciato scivolare nel fuoco l'unica copia della sua opera più importante, non avrebbero avuto un'espressione più desolata e inconsolabile. Il suo viso si fece bianco come il marmo, le braccia bellissime le caddero lungo il corpo. Si appoggiò a una colonna, come se le gambe non la reggessero più.
Quanto a me, ero livido, in un bagno di sudore più bruciante di quello del Calvario. Mi diressi barcollando verso il portale della chiesa. Soffocavo, e le volte pareva mi schiacciassero le spalle: era come se dovessi sostenere da solo l'intero peso della cupola.
Stavo per oltrepassare la soglia, quando una mano afferrò la mia: una mano di donna! Non ne avevo mai toccate: era fredda come la pelle d'un serpe, eppure mi rimase la sensazione come del marchio d'un ferro rovente. Era lei.
"Sciagurato! Che hai fatto!", mi sussurrò a bassa voce. Poi, svanì tra la folla. Mi passò davanti il vecchio Vescovo. Mi osservò con aria severa. In effetti, il mio contegno doveva apparirgli assai strano: impallidivo e arrossivo continuamente e, senza apparente ragione, ero in preda alle vertigini. Uno dei miei compagni si accorse del mio stato, e si prese cura di accompagnarmi: da solo, non avrei ritrovato neppure la strada del seminario.
Alla svolta di una viuzza, mentre il mio compagno guardava da un'altra parte, un paggetto negro, bizzarramente vestito, mi venne incontro e, senza fermarsi, mi consegnò un piccolo portafogli preziosamente istoriato, facendomi segno di nasconderlo. Lo feci scivolare nella manica, e non lo tolsi che quando fui solo nella mia cella. Feci saltare il fermaglio: dentro, c'erano due soli foglietti con queste parole: "Clarimonde, Palazzo Concini".
Conoscevo, così poco, a quell'epoca, delle cose del mondo, che non sapevo nulla di Clarimonde, anche se in giro si parlava molto di lei, e ignoravo poi del tutto dove si trovasse il Palazzo Concini. Feci infinite congetture, l'una più stravagante dell'altra: ma, in verità, quel che desideravo era di riuscire a rivederla, e ben poco mi importava di quel che fosse, gran dama o cortigiana.
Questa passione, appena nata, si era radicata in maniera incrollabile e non mi veniva nemmeno fatto di pensare alla possibilità di sradicarla. Quella femmina mi dominava ormai interamente: con un solo sguardo aveva fatto di me un altro uomo, mi aveva iniettato la sua volontà. Mi comportavo in modo assurdo, baciavo la mia mano nel punto in cui lei l'aveva sfiorata, stavo ore intere a ripeterne il nome. Appena chiudevo gli occhi, la vedevo così distintamente come se fosse presente, e mi ripetevo di continuo le parole che lei aveva pronunciato sul portale della chiesa: "Sciagurato, che hai fatto?".
Mi rendevo conto dell'orrore della mia situazione, e tutti gli aspetti più tristi del mio stato mi rivelavano con chiarezza: essere prete voleva dire rimanere casto, non fare all'amore, non badare mai né al sesso né all'età, distogliere gli occhi da ogni bellezza, comportarsi come un cieco, strisciare sempre nell'ombra gelida di un chiostro o di una chiesa, non avere contatti che con i moribondi, vegliare cadaveri di sconosciuti, e portare sempre il lutto, con quella sottana nera che, così com'era, avrebbe potuto servire benissimo anche come sudario per avvolgermi nella bara!
Come fare per rivedere Clarimonde? Non avevo alcun pretesto per uscire dal seminario, poiché non conoscevo nessuno in città. Non dovevo poi nemmeno rimanerci a lungo: stavo anzi aspettando che mi destinassero a una parrocchia. Tentai di scalzare le sbarre della mia finestrella, ma ero a un'altezza impressionante, e poi non possedevo una scala a pioli, dunque era inutile pensarci.
D'altra parte, non sarei potuto scendere che di notte, e come avrei saputo districarmi nel labirinto delle strade, che conoscevo appena? Tutte queste difficoltà, che a un altro sarebbero apparse insignificanti, erano invece invalicabili per un misero seminarista, neonato all'amore, senza esperienza, senza soldi e senza vestiti.
Ah! Se non fossi stato prete - mi dicevo - avrei potuto vederla ogni giorno; sarei diventato il suo amante, il suo sposo (tanto ero cieco) e, invece di starmene avviluppato nel mio sinistro sudario, avrei portato vestiti di seta e velluto, catene d'oro, spada e piume, come tutti i bei cavalieri.
I miei capelli, invece d'essere umiliati da una larga tonsura, si sarebbero avvolti intorno al collo in un gioco di riccioli. Avrei avuto dei bei baffi impomatati, sarei stato un giovane di mondo. Invece, una sola oretta passata davanti a un altare, da qualche mezza parola sussurrata a malapena, erano bastate a tagliarmi fuori dal novero dei vivi: io stesso avevo murato la mia tomba, io stesso avevo serrato il catenaccio della mia prigione!
Mi affacciai alla finestra: il cielo era splendidamente azzurro, gli alberi avevano indossato la loro livrea primaverile, la natura risplendeva di una gioia che a me appariva beffarda. La piazza del paese era piena di gente: chi andava, chi veniva. Giovani coppie si dirigevano, abbracciate, verso l'ombra dei giardini e dei pergolati. Alcune comitive passavano, tra risa e canzonacce, di bevitori: un tale movimento, lo slancio e l'allegria generale facevano risaltare ancor più miseramente il mio lutto e la mia solitudine.
Non riuscii a sopportare tale spettacolo: chiusi la finestra e mi gettai sul letto, col cuore pieno di odio e gelosia irrefrenabili, mordendomi le dita e rodendo la coperta, come farebbe una tigre digiuna da tre giorni.
Non so per quanto tempo rimasi così; ma, mentre mi rivoltavo nel mio giaciglio tra spasimi rabbiosi, scorsi d'un tratto l'Abate Serapione, immobile nel mezzo della camera, che mi osservava attentamente. Ebbi vergogna di me stesso e, chinata la testa sul petto, mi coprii gli occhi con le mani.
"Romualdo, amico mio, ti sta accadendo qualcosa di anormale", mi disse con voce calma Serapione, dopo qualche minuto di silenzio.
"Il tuo contegno è davvero inesplicabile. Un essere pio, calmo e dolce come te, si agita nella sua celletta come una belva. Fa' attenzione, fratello, a non prestare orecchio ai suggerimenti del Diavolo, perché di certo il Maligno, rabbioso nel saperti ormai consacrato al Signore, ti ronza intorno e fa l'ultimo sforzo per attirarti a lui. Invece di lasciarti abbattere, caro Romualdo, edifica una corazza di preghiere e mortificazioni, e combatti con forza il nemico: solo così vincerai. La prova è indispensabile alla virtù. Anche le anime più agguerrite hanno patito momenti simili. Prega, medita, digiuna: il Maligno batterà in ritirata."
Il discorso dell'Abate Serapione mi aiutò a ritrovare me stesso, e a ridarmi un po' di calma.
"Venivo ad annunciarti la tua nomina alla parrocchia di C... è morto il prete che la teneva, e il Vescovo ha designato te come suo successore. Sii pronto domani."
Assentii con un cenno del capo, e l'Abate mi lasciò di nuovo solo.
Aprii il messale, e cominciai a leggere una preghiera, ma le parole mi ballavano davanti agli occhi e il volume mi scivolò di mano senza che facessi nulla per trattenerlo.
Partire l'indomani, senza averla più vista! Aggiungere un'ulteriore impossibilità a tutte quelle che si frapponevano tra noi. Perdere per sempre la speranza di incontrarla di nuovo, a meno d'un miracolo. E se le avessi scritto? Ma chi avrebbe potuto recarle la lettera? Con chi potevo confidarmi, vestito com'ero dei sacri paramenti?
Provai un'angoscia indicibile. Mi tornò in mente quel che l'Abate mi aveva detto circa le manovre del Diavolo: la singolarità di tutta l'avventura, la bellezza soprannaturale di Clarimonde, il bagliore fosforescente dei suoi occhi, il tocco bruciante delle sue mani, il turbamento in cui mi aveva gettato, la metamorfosi che si era operata in me, la mia devozione dissolta in un istante, tutto provava senz'ombra di dubbio la presenza di Satana, e forse quella mano di seta non era che il guanto che ricopriva il suo artiglio.
Questi pensieri mi gettarono in un immenso terrore: raccolsi il messale e mi rimisi a pregare.
Il giorno dopo, Serapione venne a prendermi. Due muli ci attendevano alla porta, con i nostri scarsi bagagli. Lungo le vie della città, scrutavo ansiosamente ogni finestra, per vedere se mai vi apparisse Clarimonde, ma era ancora troppo presto, e la città non aveva ancora aperto gli occhi. Con lo sguardo, cercavo di penetrare al di là dei tendaggi che coprivano le finestre dei palazzi lungo il nostro cammino. Serapione doveva attribuire questo mio interessamento all'ammirazione per l'elegante architettura di quei luoghi, a me quasi ignota, perché rallentava il passo della sua cavalcatura, per darmi il tempo di vedere ogni cosa.
Superammo, infine, le porte della città, e cominciammo a salire sulla collina. In cima, mi volsi un'ultima volta per rivedere i luoghi in cui viveva Clarimonde. L'ombra di una nuvola ricopriva tutta la città. I tetti azzurri e rossi si confondevano in una mezza tinta generale, su cui aleggiavano, come bianchi fiocchi di spuma, le brume del mattino.
Un singolare effetto ottico faceva spiccare, dorato dall'unico raggio di luce, un edificio che superava in altezza tutte le costruzioni vicine, immerse nella nebbia; sebbene si trovasse in realtà a più di una lega da noi, mi appariva come vicinissimo, e potevo distinguerne tutti i particolari.
"Che cos'è quel palazzo illuminato dal sole?", chiesi a Serapione. Si fece schermo alla luce con la mano e mi rispose: "è l'antico palazzo che il Principe Concini ha regalato alla cortigiana Clarimonde. Dicono sia teatro di orge mostruose."
Proprio in quell'istante, realtà o illusione che fosse, mi parve di scorgere sulla terrazza una figuretta chiara che brillò un secondo e subito si spense. Era Clarimonde! Forse sapeva che in quello stesso momento, dall'alto di quel sentiero scosceso che mi allontanava ancor più da lei, io covavo con gli occhi la sua casa, che un beffardo gioco di luci sembrava mettermi a portata di mano, quasi per invitarmi a farvi il mio ingresso da padrone?
Certo, lei doveva saperlo: la sua anima era troppo affine e in assonanza con la mia per non avvertire i miei stessi turbamenti, ed era certo questo il sentimento che l'aveva spinta di prima mattina, ancora avvolta nei suoi veli notturni, a uscire sulla terrazza.
L'ombra ingoiò infine anche il palazzo, e di fronte non mi rimase ce un oceano immobile di tetti, di cui altro non si distingueva che un'ondulazione montagnosa. Serapione spinse il suo mulo, e il mio lo seguì. Una curva del sentiero mi tolse per sempre dalla vista la città di S..., in cui non dovevo più tornare.
Dopo tre giorni di viaggio, attraverso squallide campagne, vedemmo spuntare la cima del campanile della chiesa in cui dovevo servire. Percorso qualche sentiero tortuoso costeggiato da capanne e cortili, arrivammo davanti alla facciata. A sinistra c'era il cimitero, pieno di erbacce e con una gran croce di ferro al centro; a destra il presbiterio, nudo e misero.
L'Abate Serapione mi aiutò a installarmi, e dopo qualche giorno ritornò al seminario. Rimasi dunque solo, senz'altro sostegno che me stesso. Il pensiero di Clarimonde continuava a ossessionarmi e, per quanti sforzi facessi per cacciarlo via, non ci riuscivo.
Una notte, suonarono con forza alla porta. La vecchia perpetua andò ad aprire, e un uomo dalla pelle bruna, riccamente vestito, si mostrò sulla soglia. Qualcosa nel suo aspetto spaventò la vecchia; ma l'uomo la rassicurò, e disse che era venuto a prendermi per una questione che riguardava il mio ministero. La sua padrona - aggiunse - una gran dama, stava morendo, e aveva il desiderio di un prete. Presi l'occorrente per l'Estrema Unzione, e mi affrettai a seguirlo.
Davanti alla porta scalpitavano impazienti due cavalli, neri come la notte, e un fumo bianco usciva dalle loro narici. L'uomo mi aiutò a montare su uno dei due destrieri, e saltò sull'altro. Spronò e lasciò libere le briglie al suo cavallo, che partì come una freccia; il mio lo seguì, divorando la strada. Vedevo la terra filare sotto di noi, grigia e solcata: le sagome nere degli alberi ci fuggivano di lato come un esercito in rotta.
Traversammo una foresta così scura e gelida che sentii corrermi sotto la pelle un brivido di terrore superstizioso. Le scintille che i ferri dei nostri cavalli facevano sprizzare dai sassi formavano dietro di noi una scia di fuoco: se qualcuno avesse visto me e la mia guida a quell'ora della notte, ci avrebbe preso per due spettri a cavallo di un incubo. La criniera dei due cavalli si arruffava sempre di più, e rivoli di sudore scorrevano sui loro fianchi; ma quando li vedeva rallentare, lo scudiero, per rianimarli, emetteva un grido stridulo, che non aveva nulla di umano, e la corsa riprendeva con ancor maggiore furia.
Infine quel turbine cessò: una massa nera, costellata di qualche punto luminoso, ci si parò all'improvviso davanti. Il passo delle nostre cavalcature risuonò più rumoroso su una pavimentazione ferrata, e passammo sotto una cupa arcata sinistra che si apriva fra due immense torri.
Nel castello c'era una grande agitazione: gruppi di domestici, torce alla mano, traversavano il cortile in tutti i sensi, e luci diverse salivano e scendevano da un piano all'altro. Vidi confusamente nel buio immense architetture, arcate, colonne, rampe; era un insieme di costruzioni degno di una reggia.
Un paggetto nero, il medesimo che mi aveva consegnato il biglietto di Clarimonde e che riconobbi all'istante, mi aiutò a scendere di sella; un maggiordomo, vestito di velluto nero, venne verso di me, appoggiandosi a un bastone d'avorio. Grosse lacrime gli colavano dagli occhi sulla barba bianca.
"Troppo tardi!", mi disse scuotendo il capo. "Troppo tardi. Ma, Padre, se non ha fatto in tempo a salvarle l'anima, venga almeno a vegliare il povero corpo."
Mi prese un braccio, e mi guidò verso la camera ardente. Io piangevo quanto lui, perché avevo ormai indovinato che la morta altri non era che la mia Clarimonde, così disperatamente amata.
Mi inginocchiai, senza osar di gettare un'occhiata nel catafalco al centro della stanza, e mi misi a recitare i salmi con fervore, ringraziando Dio di aver posto un sepolcro fra me e quella donna, il che mi permetteva di pronunciare nelle mie preghiere il suo nome, ormai santificato.
Ma a poco a poco il mio fervore diminuì, e cominciai a fantasticare. Quella camera non aveva nulla di una camera mortuaria. Invece dell'atmosfera fetida e cadaverica che si respirava sempre in tali luoghi, un languido profumo d'essenze orientali, un non so quale afrodisiaco odore di donna aleggiava dolcemente nell'aria tiepida. La tenue luce della stanza pareva un'illuminazione sapientemente predisposta per la voluttà, piuttosto che il livido riflesso dei ceri che di solito palpita accanto a un cadavere. Pensavo al caso singolare che mi aveva fatto ritrovare Clarimonde proprio nel momento in cui la perdevo per sempre, e un sospiro di dolore mi sfuggì dal petto.
Mi parve di udire un sospiro anche alle mie spalle, e mi voltai istintivamente. Era soltanto l'eco, ma in quel movimento gli occhi mi caddero sul catafalco che prima avevo cercato di non guardare. I drappeggi di damasco rosso lasciavano vedere la morta, distesa con le mani incrociate sul petto. Era avvolta in un sudario di lino, d'un bianco abbagliante che risaltava ancor più accanto al colore sanguigno dei tendaggi, e così lieve che nulla riusciva a nascondere della sagoma seducente del suo corpo. Si sarebbe detta una statua di alabastro, oppure una giovane dormiente, su cui fosse caduta la neve.
Non riuscivo più a trattenermi: quell'aria di alcova mi aveva eccitato, e camminavo a lunghi passi per tutta la stanza, fermandomi di continuo a contemplare la bella defunta, sotto la trasparenza del sudario. Strani pensieri mi passavano per il capo. Immaginavo che non fosse davvero morta, e che tutto fosse una sua manovra per attirarmi nel castello e parlarmi del suo amore.
E poi mi dissi: "Sarà proprio Clarimonde? Che prove ne ho? Quel paggetto nero potrebbe aver cambiato padrona. Sono davvero un pazzo a disperarmi così."
Mi avvicinai al catafalco, e guardai con un'intensità anche più grande la causa dei miei tormenti. Devo confessarlo? La perfezione delle sue forme mi turbava in modo indicibile, e quel suo giacere era così simile a un semplice sonno che chiunque avrebbe potuto restarne ingannato.
Dimenticai che ero venuto in quel luogo per un servizio funebre, e mi figurai come uno sposo per la prima volta nella camera della giovane moglie che si copre il volto, pudica. Sconvolto dal dolore, rapito dalla gioia, tremante a un tempo di timore e piacere, mi chinai verso di lei e sollevai l'angolo del lenzuolo, trattenendo il respiro come per paura di svegliarla.
Era davvero Clarimonde, come l'avevo vista in chiesa il giorno in cui ero stato ordinato prete: era seducente come allora, e la morte sembrava aggiungerle una civetteria supplementare. Rimasi a lungo assorto in quella muta contemplazione e, più la guardavo, meno potevo convincermi che la vita avesse potuto veramente abbandonare quel corpo stupendo. Le toccai lievemente il braccio: era freddo, ma non più della sua mano quando aveva sfiorato la mia sotto il portale della chiesa.
Ah! Che atroce sentimento di disperazione e d'impotenza! Che agonia era per me quella veglia! La notte avanzava, e con l'alba sentivo avvicinarsi il momento della separazione eterna. Non potei impedirmi la triste e suprema dolcezza di deporre un lieve bacio sulle labbra di colei che aveva avuto tutto il mio amore.
O prodigio! Un tenue respiro si mescolò al mio, e le labbra di Clarimonde risposero alla pressione delle mie: i suoi occhi si aprirono, si illuminarono, e lei, sospirando, aprì le braccia e me le passò attorno al collo, con un'aria di estasi ineffabile.
"Romualdo", mi disse con voce profonda e dolce, simile alle vibrazioni finali di un'arpa. "Che fai? T'ho atteso così a lungo che ne sono morta. Ma ormai siamo uniti l'uno all'altra. Potrò vederti e venire da te. Addio, Romualdo, addio. Ti amo, e offro a te questa vita, che tu hai richiamato in me per un istante con un bacio. A presto."
Reclinò la testa, mentre le sue braccia ancora mi circondavano. Un turbine di vento spalancò la finestra ed entrò nella stanza. I lumi si spensero, e io caddi svenuto sul petto della bella defunta.
Quando rinvenni, mi trovai nel mio letto, nella piccola camera del mio presbiterio. La vecchia perpetua si dava da fare nella stanza con un'agitazione senile; apriva e chiudeva i cassetti, mescolava polverine nei bicchieri.
Vedendomi aprire gli occhi, la vecchia diede un grido di gioia; ma io ero così debole che non riuscii a dire una parola né a fare alcun gesto. Seppi poi che ero rimasto in quello stato per tre interi giorni, senza dare altro segno di vita che una respirazione impercettibile. La governante mi riferì che lo stesso uomo dalla pelle scura che mi era venuto a prendere la notte prima, mi aveva riportato la mattina dopo in una lettiga, e se ne era andato via subito.
Appena potei connettere i miei pensieri, ripassai mentalmente tutte le circostanze di quella notte fatale. Dapprima pensai d'essere stato vittima di un'illusione: ma l'evidenza di circostanze reali e palpabili cancellò ben presto quest'ipotesi. Non potevo credere d'aver sognato, dal momento che anche la governante aveva visto l'uomo dai due cavalli neri, di cui ricordava quanto me i medesimi particolari. Tuttavia, nessuno pareva sapere dell'esistenza nei dintorni di un castello simile a quello in cui avevo rivisto Clarimonde.
Un mattino, vidi entrare l'Abate Serapione. Mentre mi chiedeva notizie della mia salute, con tono ipocritamente mielato, fissava su di me le sue gialle pupille da leone, e immergeva i suoi sguardi come una sonda nel fondo dell'anima mia. Mi fece poi varie domande su come dirigevo la mia parrocchia, se mi trovavo bene, come impiegavo il tempo libero, quali erano le mie letture favorite e altre questioni insignificanti del genere.
Questa conversazione non aveva palesemente alcun rapporto con quanto in realtà era venuto a dirmi. D'un tratto, senza preamboli e come se d'improvviso si fosse ricordato di qualcosa che aveva paura di dimenticare, mi disse con voce alta e vibrante, che mi riecheggiò all'orecchio come le trombe del Giudizio Universale:
"La cortigiana Clarimonde è morta, nei giorni scorsi, dopo un'orgia durata otto giorni e otto notti. è stata una cosa paurosa e infernale. Si sono ripetute le azioni immonde dei festini di Balthazar e di Cleopatra. I suoi convitati erano serviti da schiavi di pelle nera che parlavano una lingua sconosciuta, e che sicuramente non erano altro che demoni. Su Clarimonde sono corse infinite, orride leggende, e tutti i suoi amanti sono finiti in maniera miserabile o violenta. S'è detto perfino fosse un Vampiro. Ma per me, è Belzebù in persona."
Tacque, e mi osservò con ancor maggiore attenzione, quasi volesse cogliere l'effetto che su di me avevano avuto le parole. Non avevo saputo reprimere un sussulto al sentir nominare Clarimonde, e turbamento e terrore comparvero sul mio viso, benché facessi di tutto per dominarmi.
Serapione mi lanciò allora un'occhiata preoccupata e severa. Poi mi disse: "Figlio mio, ti devo mettere in guardia. Hai già un piede nell'abisso: guardati dal precipitarvi. Satana ha lunghi artigli, e le tombe non sempre sono definitive. Bisognerebbe chiudere la lastra sepolcrale di Clarimonde con un triplo sigillo, perché pare che questa non sia neppure la prima volta che è morta. Che Dio vegli su di te, Romualdo."
E Serapione, voltandomi le spalle, lentamente se ne andò.
Infine mi ristabilii, e ripresi le mie funzioni abituali. Il ricordo di Clarimonde, e le parole del vecchio Abate, erano sempre nel mio spirito, tuttavia nessun evento straordinario venne a confermare le funeste previsioni di Serapione, e cominciai a pensare che i suoi timori e i miei terrori fossero eccessivi. Poi, una notte, feci un sogno.
Mi ero appena addormentato, che sentii sollevarsi le cortine del mio letto. Mi drizzai bruscamente, e vidi che un'ombra femminile mi stava dinanzi. Riconobbi Clarimonde. Aveva in mano un lumino di quelli che si mettono sulle tombe, il cui bagliore rendeva ancor più trasparenti le sue dita affusolate. Come unico abbigliamento, aveva un lieve sudario, le cui pieghe raccoglieva sul ventre, come se si vergognasse di essere così scarsamente vestita; ma la sua piccola mano non raggiungeva completamente lo scopo.
Era così bianca che il candore del velo si confondeva col pallore della sua carne, sotto il tenue raggio della lampada. Avviluppata in quel fine tessuto che rivelava ogni forma del suo giovane corpo, si sarebbe detta più il ritratto marmoreo di un'antica bagnante che una donna viva. Ma, morta o viva, statua o donna, ombra o corpo, la sua bellezza era sempre la medesima: solo il verde bagliore del suo sguardo era lievemente smorzato, e la sua bocca era livida. Poggiò la lampada sul tavolo e si sedette ai piedi del letto, poi mi disse, china su di me, con la sua voce a un tempo argentina e vellutata, che non ho mai sentito in nessun altro:
"Mi sono fatta attendere molto, mio caro Romualdo: forse hai pensato che t'avessi dimenticato. Ma sono dovuta venire da molto lontano, da un luogo da dove nessuno ritorna. Non c'è né sole né luna nel paese da cui vengo, né spazio, né ombra, né sentiero per il piede, né l'aria per le ali. E tuttavia, eccomi qui: il mio amore è più forte della morte, e infine vincerà. Quanti visi pallidi e orrendi ho visto nel mio viaggio. Con quanta pena la mia anima, tornata alla vita, per la forza della volontà, s'è dovuta riadattare al corpo. Che fatica per sollevare la terra con cui mi avevano ricoperta. Guarda: il palmo delle mie mani è tutto martirizzato. Baciale: solo tu puoi guarirle, amore mio diletto."
Mi applicò sulle labbra, l'una dopo l'altra, le sue gelide palme. Le baciai infinite volte, mentre lei mi guardava con un sorriso indecifrabile.
Confesso, a mia vergogna, che avevo ormai del tutto dimenticati gli ammonimenti dell'Abate Serapione, e il mio stesso abito talare. Ero caduto al primo assalto, senza opporre alcuna resistenza. Non avevo neppure provato a respingere la tentazione.
La freschezza che emanava dalla pelle di Clarimonde scendeva nella mia, e mi sentivo correre lungo il corpo brividi di voluttà. Povera bambina! Malgrado tutto quel che vidi poi, stento ancora a credere che fosse un demone. In quel momento, almeno, non ne aveva certo l'aria: Satana non ha mai nascosto meglio i suoi artigli.
Era accucciata sul bordo del mio lettuccio, in un atteggiamento pieno di civetteria spontanea, e ogni tanto mi faceva scorrere le dita tra i capelli e formava dei riccoli, come se volesse provare l'effetto, intorno al mio viso, di diverse acconciature. Io la lasciavo fare col più colpevole compiacimento, mentre lei accompagnava i suoi gesti col più seducente cinguettìo.
"Ti amavo infinitamente già prima di vederti, caro Romualdo. E ti ho cercato ovunque. Ti scorsi poi nella chiesa in quel fatale momento e mi dissi subito: è lui. Quanto sono gelosa di Dio, che ami più di me. Quanto sono infelice. So che non avrò mai il tuo cuore per me sola, io che per te ho vinto il sepolcro, e vengo a dedicarti la mia vita, io che mi sono ripresa unicamente per farti felice."
Ogni frase era interrotta da carezze deliranti e lascive, che mi stordirono al punto che, per consolarla, osai pronunciare un'orrenda bestemmia: le dissi che l'amavo almeno quanto Dio. Le sue pupille subito si ravvivarono.
"è vero. Tu mi ami quando Dio", esclamò abbracciandomi. "E poiché è così, verrai con me e mi seguirai dove vorrò. Lascerai questi lugubri vestiti neri. Sarai il più bello, e il più invidiato dei cavalieri, il mio amante. è un gran destino essere l'amante riconosciuto di Clarimonde, di colei che ha rifiutato un Papa! Che dolce vita felice e dorata condurremo. Mio signore, quando partiamo?"
"Domani! Domani!", gridai nel mio delirio.
"Va bene, domani", rispose Clarimonde. "Avrò il tempo di cambiarmi: l'abito che porto è troppo succinto, inadatto a un lungo viaggio. Bisogna anche che avvisi i miei servitori, che mi credono morta. Denaro, abiti, carrozza, tutto sarà pronto domani. Verrò a prenderti a questa stessa ora."
Mi sfiorò la fronte con le labbra gelide, poi la lampada si spense, le cortine si chiusero, e non vidi più nulla. Un sonno di piombo, un sonno senza sogni, mi avvolse, lasciandomi immoto fino all'indomani mattina.
Mi svegliai più tardi che d'abitudine, e il ricordo di quella apparizione mi turbò durante tutto il giorno. Finii col convincermi che era stata un frutto della mia immaginazione esaltata. Tuttavia, le sensazioni erano state così vive che mi era difficile credere che non fossero reali; non fu senza apprensione, dunque, che mi misi a letto la sera, dopo aver pregato il Signore di distogliere da me ogni laido pensiero, e di proteggere la castità del mio sonno.
Mi addormentai subito d'un sonno di piombo, e la visione della notte innanzi riprese. Le cortine si sollevarono, e apparve Clarimonde, non più nel suo diafano e bianco sudario, ma gaia e splendente in un superbo vestito di velluto verde con ricami d'oro. I suoi riccioli biondi sfuggivano da un ampio cappello nero, ornato di piume bianche; teneva in mano un frustino che aveva in cima un fischietto d'oro. Mi toccò leggermente e mi disse: "Allora, bell'addormentato? è così che ti prepari? Pensavo di trovarti in piedi. Lesto, non c'è tempo da perdere. Vèstiti e partiamo."
Saltai giù dal letto. Lei stessa mi porse gli abiti, togliendoli da un bagaglio che aveva portato, ridendo della mia goffaggine, e indicandomene il giusto uso, quando, per inesperienza, mi sbagliavo. Mi pettinò lei; porgendomi poi uno specchio, mi chiese: "Ti piace? Vuoi prendermi come tua cameriera personale?"
Non ero più lo stesso, non somigliavo a quello che ero prima più di quanto una statua non ricordi la pietra informe da cui è stata ricavata. Ero bello, e la mia vanità si gonfiava in seguito a questa prodigiosa metamorfosi. Quei vestiti eleganti, quella ricca giacca ricamata, facevano di me una persona completamente diversa. Lo spirito del mio costume entrava nella mia pelle.
Feci qualche passo su e giù per la stanza, per acquistare scioltezza di movimenti. Clarimonde mi osservava, soddisfatta dell'opera sua: "Bene, ora basta con le bambinate, Romualdo carissimo. Dobbiamo andare lontano: è tempo di incamminarci, se vogliamo arrivare". Mi tese quindi la mano e mi trascinò con lei. Tutte le porte si aprivano al suo solo apparire.
Fuori trovammo Margaritone, il cupo scudiero che mi aveva fatto la prima volta da guida. Reggeva per la briglia tre cavalli neri, uno per ciascuno di noi. Quei cavalli dovevano certo essere nati da giumente fecondate dal vento, perché correvano più veloci del turbine, e la Luna, che s'era levata al momento della nostra partenza per illuminarci, girava nel cielo come una ruota staccata da un carro: la vedevamo saltare d'albero in albero, come affannata per tenerci dietro.
Da quella notte in poi, la mia natura si sdoppiò: c'erano in me due uomini, di cui uno era ignoto all'altro. A volte, mi credevo un prete che ogni sera pensava d'essere un giovin signore; altre volte, un giovin signore che sognava d'essere un prete. Non riuscivo più a distinguere il sonno dalla veglia, né sapevo dove cominciasse la realtà e dove finisse l'illusione.
Il giovin signore vanesio e libertino si faceva beffe del prete, il prete detestava la condotta dissoluta del giovin signore; due spirali incastrate l'una nell'altra, senza tuttavia mai toccarsi, rappresenterebbero bene l'immagine di quella vita bicefala che era diventata la mia. Malgrado la stranezza della situazione, non credo tuttavia d'aver mai sfiorato la pazzia, neppure per un istante. Ho sempre conservato la percezione precisa delle mie due esistenze. C'era soltanto un fatto assurdo che non riuscivo a spiegarmi: il sentimento cioè di uno stesso "io" che conviveva in due uomini così differenti.
C'era poi la circostanza che io ero, o credevo di essere, a Venezia. Ancor oggi non so ben distinguere quanto vi fosse di realtà e quanto di illusione nella mi bizzarra avventura. Abitavamo in un lussuoso palazzo di marmo sul Canal Grande, ricco di statue e d'affreschi, con due Tiziano dell'epoca migliore esposti nella camera da letto di Clarimonde. Avevamo a disposizione una gondola e un barcaiolo ciascuno, la nostra sala da musica e il nostro poeta personale.
Conducevo la vita d'un principe, e mi davo da fare come se appartenessi alla famiglia di uno dei dodici Apostoli o dei quattro Evangelisti. Frequentavo la miglior società: figli di papà, magari rovinati, attrici, scrocconi, parassiti e spadaccini.
Tuttavia, malgrado i costumi dissoluti di tutti, restai sempre fedele a Clarimonde. Averla, era come godere di venti amanti diverse, come possedere tutte le donne, tanto lei era mobile, mutevole, multiforme: un vero camaleonte. Con lei, compivo tutte le infedeltà che avrei potuto compiere con altre, capace com'era di assumere completamente il carattere, l'andatura e il tipo di bellezza di qualsiasi donna mi avesse colpito.
Sarei stato del tutto felice, senza quel maledetto incubo che mi tornava ogni notte, e mi faceva credere d'essere un pretino di campagna che stava a macerarsi e a far penitenza per i suoi stravizi diurni. Rassicurato dall'abitudine di stare con Clarimonde, neppure pensavo più al modo singolare in cui ci eravamo conosciuti. Tuttavia, di tanto in tanto, le parole dell'Abate Serapione mi tornavano in mente, angosciandomi.
Da quache tempo la salute di Clarimonde era meno perfetta. La sua carnagione diventava ogni giorno più pallida: i medici nulla capivano della sua malattia, e non sapevano che fare. Prescrissero qualche medicina inutile e non tornarono più.
Ma lei continuava a impallidire a vista d'occhio, e la sua pelle era sempre più fredda. Era ormai bianca e smorta come in quella notte fatale, nel castello sconosciuto. Mi disperavo nel vederla deperire così. Commossa dal mio dolore, lei mi sorrideva dolcemente con l'espressione melanconica di chi sa di dover presto morire.
Una mattina, stavo facendo colazione accanto al suo letto, per non lasciarla sola nemmeno un minuto. Mentre tagliavo un frutto, mi procurai per caso al dito una ferita abbastanza profonda. Il sangue ne uscì subito fuori in un rivolo rosso e qualche goccia sprizzò su Clarimonde. I suoi occhi subito brillarono, e il suo volto si atteggiò ad un'espressione di gioia selvaggia, che non avevo mai visto.
Saltò giù dal letto con agilità ferina, come un gatto o una scimmia, e si precipitò sul mio dito, mettendosi a succhiarlo con indicibile voluttà. Suggeva il sangue a piccoli sorsi, lentamente e preziosamente come un buongustaio che assapori il miglior vino di Xères. I suoi occhi erano socchiusi, e la sua pupilla era diventata oblunga. Ogni tanto s'interrompeva per baciarmi la mano, poi ricomincava a premere le sue labbra sulle labbra della ferita, per cercare di estrarne qualche altra goccia purpurea.
Quando vide, infine, che il sangue non sarebbe più uscito, si alzò con gli occhi umidi e brillanti, più rosea dell'aurora di maggio, il viso ricomposto, la mano umida e calda: insomma, più bella che mai e in forma perfetta.
"Non morirò più. Non morirò più!", gridò, pazza di gioia, avvinghiandosi al mio collo. "La mia vita è nella tua, e tutto quel che è mio viene da te. Poche gocce del tuo ricco e nobile sangue, più prezioso di qualsiasi elisir, mi hanno restituito la vita."
Questo evento mi lasciò a lungo pensieroso, suscitando in me i più strani pensieri su Clarimonde. Quella sera stessa, appena il sonno mi ricondusse nel mio presbiterio, rividi l'Abate Serapione, più serio e preoccupato che mai. Mi osservò attentamente e mi disse: "Non contento di perdere l'anima, ora vuoi perdere anche il tuo corpo. Sciagurato, sei caduto in un'orribile trappola."
Il tono con cui pronunciò queste poche parole mi colpì vivamente, ma l'impressione non durò a lungo.
Una sera, però, in uno specchio di cui lei non aveva calcolato la posizione traditrice, vidi che Clarimonde mi stava versando una polverina nella coppa di vino aromatizzato che usava offrirmi sempre alla fine del pasto.
Presi la coppa, finsi di portarla alle labbra, e poi la posai su un mobile, come se avessi l'intenzione di finirla in seguito. Ma, appena la bella mi voltò le spalle, ne versai rapidamente il contenuto sotto il tavolo. Andai poi nella mia camera e mi stesi sul letto, deciso però a non dormire per rendermi conto di quello che sarebbe successo.
Non dovetti attendere molto. Clarimonde entrò in camicia di notte e, liberatasene, si sdraiò vicino a me nel letto. Si accertò che stessi veramente dormendo, poi mi denudò un braccio e, togliendosi dai capelli uno spillone d'oro, cominciò a mormorare sotto voce: "Una gocciolina, solo una gocciolina, un puntino scarlatto sul mio spillone! Povero amore mio, berrò il tuo bel sangue, così vigoroso. Dormi, bimbo mio, non ti farò male, prenderò della tua vita solo quel che basta per non estinguere la mia. Se non t'amassi tanto, potrei servirmi delle vene di qualche altro amante; ma da quando ti conosco chiunque altro mi ripugna. Che bel braccio, rotondo, bianco. Non so decidermi a pungere questa bella, piccola vena, amore mio."
E, mentre parlava, piangeva, e io sentivo le lacrime cadermi sulla pelle. Infine si decise, praticò una piccola incisione con la spilla, e si mise a succhiare il sangue che ne sprizzava. Appena ne ebbe sorbita qualche goccia, il timore d'esaurirmi la spinse a mettermi un cerottino, dopo aver medicato la ferita con un unguento che la cicatrizzò immediatamente.
Non potevo avere più dubbi, l'Abate Serapione aveva visto giusto. Tuttavia, malgrado l'acquisita certezza, non potevo fare a meno di amare Clarimonde, e le avrei dato volentieri tutto il mio sangue pur di prolungare la sua esistenza artificiale.
D'altra parte, non avevo nemmeno una gran paura. A quell'epoca avevo vene copiose, che non si sarebbero certo esaurite tanto presto, e non stavo a mercanteggiare la mia vita goccia a goccia. Mi sarei anche volentieri aperto da solo le vene e le avrei detto: "Bevi". Ma volevo evitare di alludere al narcotico e alla scena dello spillone, per non turbare il nostro accordo che continuava perfetto. 
Solo i miei scrupoli di prete continuavano a tormentarmi, e non sapevo quali nuove penitenze inventare per vincere e mortificare la mia carne. Per evitare di cadere in balìa di quelle penose visioni, mi costringevo a non dormire; mi tenevo le palpebre aperte con le dita, e rimanevo in piedi, appoggiato alla parete, lottando con tutte le forze contro il sonno.
Ma la sabbia dell'assopimento mi bruciava gli occhi ben presto e, vedendo ogni lotta inutile, lasciavo cadere le braccia per lo scoramento e la stanchezza, mentre di nuovo la corrente mi trascinava verso le perfide rive della mia vita da dissoluto. Serapione mi faceva le esortazioni più vive, e mi rimproverava della mia ignavia e del mio scarso fervore.
Un giorno in cui ero più turbato del solito, mi disse: "Per liberarti dell'ossessione che ti travaglia non c'è che un rimedio e, benché sia estremo, converrà adottarlo. Io so dove Clarimonde è sepolta. Bisogna disseppellirla, in modo che tu veda quale sia in realtà l'oggetto delle tue insane passioni. Non sarai più tentato di perdere l'anima immortale per un immondo cadavere, roso dai vermi, vicino a dissolversi in polvere. Tornerai certamente in te, dopo questa esperienza."
Io ero così esaurito da quella doppia vita che acconsentii. Volevo sapere una volta per tutte chi, tra il prete e il giovin signore, era la vittima dell'illusione. Ero deciso a far perire, a vantaggio dell'uno o dell'altro, uno dei due uomini che vivevano in me; altrimenti, ad annientarli entrambi, perché una vita simile non poteva continuare.
L'Abate Serapione si munì di un badile, una leva e una lanterna, e a mezzanotte ci trovammo al cimitero di ***, di cui conosceva perfettamente la disposizione. Dopo aver illuminato parecchie lapidi con la lanterna, finalmente giungemmo a una pietra seminascosta dalle erbe, divorata dal muschio e dalle piante parassite, su cui si leggeva ancora un inizio di iscrizione:

Qui giace Clarimonde
la più bella delle donne
che, quando visse...

"Eccola", disse Serapione e, posata a terra la lanterna, inserì la leva nella fessura terminale della lapide, e cominciò a sollevarla. Il marmo cedette, e lui cominciò a lavorare col badile. Io lo guardavo fare, cupo e silenzioso come la notte. Quanto a lui, curvo sulla sua macabra operazione, era in un bagno di sudore, ansimava, e il suo respiro spezzato pareva il rantolo di un agonizzante.
Era uno strano spettacolo: chi ci avesse visti, ci avrebbe preso per profanatori o ladri di tombe, piuttosto che per due preti. Lo zelo di Serapione aveva qualcosa di duro e selvaggio, che lo rendeva più simile a un demone che a un apostolo, e il suo volto dai rudi tratti severi, profondamente marcati dal riflesso della lanterna, non aveva nulla di rassicurante.
Sentivo un sudore di ghiaccio colarmi lungo le membra, i capelli mi si drizzavano in testa, nel fondo di me stesso vedevo l'atto dell'austero Serapione come un abominevole sacrilegio, e avrei voluto che dalle nubi oscure che rotolavano su di noi scaturisse un fulmine per ridurlo in cenere. I gufi, appollaiati sui cipressi, turbati dal bagliore della lanterna, venivano a battere pesantemente contro il vetro le loro ali polverose, emettendo lugubri gemiti. Le volpi guaivano in lontananza, e mille suoni sinistri laceravano il silenzio.
Infine, il badile di Serapione urtò la bara, e le assi risuonarono con un rumore secco e sonoro, lo spaventoso rumore sordo che esce dal nulla quando lo si sfiora. Serapione alzò il coperchio, e vidi Clarimonde, bianca come il marmo, a mani giunte.
Il candido sudario l'avvolgeva con un unico drappeggio. Una goccia vermiglia sembrava una rosa sull'angolo della sua pallida bocca.
Serapione nel vederla fu scosso da un'ira paurosa: "Eccoti qui, demone, lurida cortigiana, succhiatrice di sangue e d'oro."
Asperse d'acqua benedetta il corpo e la bara, e con l'aspersorio tracciò un segno di croce. La povera Clarimonde, appena spruzzata dalla santa annaffiatura, si disfece in polvere: non ne restò che una miscela informe di ceneri e ossa mezzo consumate.
"Ecco la tua amante, signor Romualdo. Ti dice ancora qualcosa di bello l'idea di fare una passeggiata al Lido, con questa bellezza?"
Chinai il capo. Qualcosa era finito, dentro di me. Tornai al presbiterio, e il giovane Romualdo, l'amante di Clarimonde, si divise dal povero prete, a cui per tanto tempo aveva tenuto una compagnia così singolare.
La notte seguente, vidi ancora un'ultima volta Clarimonde.
Mi disse: "Sciagurato, che hai fatto? Perché hai ascoltato quel prete imbecille? Non eri forse abbastanza felice con me? Che t'avevo fatto di male per darti il diritto di violare così la mia povera tomba, mettendo a nudo le miserie del mio niente? Ogni legame tra le nostre anime e i nostri corpi è ormai spezzato per sempre. Mi rimpiangerai."
Svanì quindi nell'aria come nebbia, e non la rividi mai più. Purtroppo, con le sue ultime parole aveva detto il vero. L'ho rimpianta più di una volta e la rimpiango ancora. Ho acquisito ormai la pace dell'anima, ma a ben caro prezzo: l'amore di Dio non è stato poi eccessivo per sostituire il suo.
Ecco, Padre. questa è la storia della mia giovinezza. Non guardi mai nessuna femmina, e cammini sempre con gli occhi bassi: perché, per casto e tranquillo che lei si senta, un istante di distrazione è sufficiente per perdere l'eternità.

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