L'Arpa di Binnorie


dalla ballata popolare scozzese "Le due sorelle" o "Binnorie"

tratta da


Erano due sorelle, due giovani principesse, e vivevano in un castello nei pressi del mare. Un fiume si gettava nel mare, e seguendo il suo corso si giungeva a una gora nascosta dal verde delle rive, che alimentava un mulino. Un dirupo nei pressi del castello scendeva al fiume in un intreccio di alberi, felci e cespugli, e dall'alto del dirupo si scorgeva il mare e il porto in cui entravano le navi.
Giunto, per la maggiore delle sorelle, il tempo di pensare alle nozze, il padre scelse per lei il primogenito di un ricco gentiluomo del vicinato. La ragazza accettò perché tale era la volontà del padre, ma quando vide il giovane guerriero che veniva al castello a offrirle il suo amore, perse per lui la ragione e il cuore.
Lui le offrì anelli d'oro e rubini e spille di perle; e le offrì il suo guanto come pegno di fedeltà. La bella Ellen custodiva quel guanto come il più prezioso dei doni.
Il padre offrì un gran banchetto per annunciare le nozze della figlia, e la sorella più giovane, in visita dalla madrina, tornò al castello per prendervi parte.
Cinghiali allo spiedo, pasticci di lepre, cervi arrostiti, pavoni, pernici, accompagnati dalle bevande più squisite: nulla era stato trascurato perché il banchetto fosse grasso e festoso come richiedeva la lieta occasione; la tavola era ornata di verdi ghirlande di fronde e i migliori cantori del paese rallegravano gli ospiti cantando le lodi dei due giovani e inneggiando al cibo e all'amore.
La sorella maggiore sedeva accanto al padre e la sorella più giovane accanto alla madre; il giovane guerriero sedeva innanzi alla sua promessa.
La sorella maggiore era alta e bella, e vi era grazia e nobiltà nel suo portamento, ma la sorella più giovane non aveva rivali e i più abili cantori non avrebbero saputo rendere giustizia alla sua bellezza. Il cavaliere levava alta la coppa per brindare alla bellezza della sua promessa, ma il suo sguardo andava alla sorella più giovane.
Quando le due principesse e le loro donne uscirono nei giardini per giocare alla palla, il cavaliere si unì a loro, e, mentre la sorella maggiore correva lontano per inseguire la palla, lui sorprese la sorella più giovane sotto un albero e le rubò un bacio.
La sorella maggiore, correndo verso il centro del giardino con la palla in mano e nell'altra il bastone per colpirla, vide che la più giovane aveva il viso singolarmente acceso e gli occhi luminosi e si disse che doveva essere l'animazione del gioco a darle quella luce allo sguardo.
Quando, alla sera, la sorella più giovane usciva nei giardini, la bella Ellen si diceva che voleva ammirare i fiori al crepuscolo; se la sentiva sospirare, pensava fosse nostalgia per la madrina.
Ma quando nello scrigno della sorella trovò un guanto tagliato a metà, un guanto simile a quello che le aveva donato sir William come pegno di fedeltà e di amore, seppe di non potersi più ingannare e la collera e la gelosia le si gonfiarono nel petto fino a farle scoppiare il cuore.
Sir William non la guardava, non aveva occhi che per la sorella, e la gelosia crebbe in lei di giorno in giorno e la gelosia le apprese l'odio, e l'odio, la dissimulazione.

Era un mattino chiaro e luminoso quello in cui corse lietamente dalla sorella e le disse: "Ricordi come andavamo un tempo al dirupo di Binnorie per guardare le navi di nostro padre entrare nel porto? Vieni, il mattino è chiaro, e io mi sento giovane e felice. Andiamo come andavamo un tempo alla rupe di Binnorie a guardare le navi di nostro padre entrare nel porto".
Uscirono insieme tenendosi per mano. Il mattino era chiaro e luminoso, il mare calmo, e dall'orizzonte le belle vele bianche tagliavano la linea del cielo. La sorella più giovane salì su una rupe per guardare le navi che dall'orizzonte si avvicinavano al porto, e la sorella maggiore le si fece alle spalle, l'afferrò per la vita e la precipitò dalla rupe.
Cadde nel fiume che correva verso la gora di Binnorie, e la sorella maggiore scese correndo dal dirupo alle rive del fiume.
"Dammi la tua mano, sorella", cominciò allora a pregarla la più giovane mentre la corrente del fiume la trascinava. "Darò a te tutte le terre che dovevano essere mie".
"Le tue terre saranno mie quando sarai morta nella gora di Binnorie."
"Afferrami per la vita, sorella; darò a te il mio oro e la mia bella cintura."
"Avrò il tuo oro e la tua bella cintura quando sarai morta nella gora di Binnorie."
"Salva la mia vita sorella; rinuncerò per sempre all'amore."
"Non ti darò la mano e non salverò la tua vita, perché la tua bellezza mi ha privato per sempre dell'amore."
Certa che nulla potesse ormai salvare la sorella, la bella Ellen tornò al castello del padre.

La corrente trascinava la sorella più giovane verso la gora di Binnorie; a volte ondeggiava alla superficie, a volte precipitava sotto le fredde acque del fiume che la trascinavano verso la gora del mulino di Binnorie.

Il figlio del mugnaio uscì sulle rive della gora e gridò al padre: "Ferma, ferma la ruota del mulino: una sirena o un candido cigno corre sulle acque di Binnorie."
Il mugnaio fermò la ruota, ma quando la corrente del fiume portò il suo corpo sulle rive, la giovane principessa era annegata.

Camminava lungo le rive del fiume un suonatore d'arpa, il migliore di tutto il paese, che avrebbe suonato alle nozze della bella Ellen; camminava lungo le ripide rive del fiume che scorreva al fondo del dirupo di Binnorie.
Le rive scendevano al fiume cupe di umida erba e di muschio all'ombra degli alberi e dei cespugli, ma il fiume scorreva tra i sassi candido per i raggi del sole che filtravano obliqui attraverso i rami e le foglie degli alberi più leggeri; questi sfioravano l'acqua con le radici, e potevano congiungere all'orizzonte le due rive in una luminosa arcata.
Il suonatore d'arpa camminava lungo le rive del fiume dimentico della realtà che lo circondava, assorto in un lontano ricordo che si ridestava dolorosamente in lui, ignaro dei riflessi dei rami sulla candida superficie delle acque, dei sassi infissi nella umida terra rossa.
Soltanto un tronco esile che dal fianco ombroso della gora si piegava sul fiume, giungendo a sfiorarne la riva opposta, fermò il suo cammino e lo costrinse ad alzare lo sguardo.
Sull'erba cupa delle rive, oltre l'albero piegato sulle acque del fiume, il suonatore d'arpa vide la splendida, pallida creatura che giaceva come una sirena addormentata: oro e perle si intrecciavano tra i suoi capelli, un'alta cintura d'oro le cingeva la vita, e le dita erano nascoste dall'oro degli anelli, ma la bella creatura era annegata, e nulla avrebbe potuto salvarla.


Il suonatore d'arpa si inginocchiò accanto a lei, sollevò la bionda capigliatura, sparsa sulla cupa erba della gora, che scintillò al sole viva e lucente più che l'oro e le perle che la ornavano; piangendo per la fanciulla annegata, liberò i capelli di lei impigliati tra i rami dell'albero, spezzò un ramo sottile e con il ramo e i capelli della principessa annegata costruì un'arpa dalle corde lucenti.
Proseguì per la sua strada e giunse al castello dove tutti sedevano a banchetto senza attendere il ritorno della giovane principessa, poiché questa, aveva mentito la bella Ellen, era partita per tornare dalla madrina. Il suonatore depose accanto a sé l'arpa dalle corde lucenti e prese a cantare accompagnandosi con il suo vecchio strumento.
Ora la musica era lieta, ora triste; cantava del crepuscolo di primavera e delle calde sere d'estate, del tempo in cui il mondo e la vita si fermano nel denso silenzio del mezzogiorno e in un istante si sente vibrare l'eternità, e delle notti in cui l'ansia di vita sembra divorare ogni istante futuro; cantava del'amore che nasce e dell'amore che muore, della vita e della morte e della vita che non cessa di battere nel cuore di chi ha amato.
La bella Ellen sedeva accanto a sir William, l'uomo incostante che le aveva rubato la ragione e il cuore, e sir William sedeva in silenzio, e il suo cuore era triste perché ricordava la bionda principessa a cui aveva rubato un bacio.
Il suo cuore era triste e la sua pena divenne tale da fargli scoppiare il petto quando il suonatore d'arpa prese a cantare di un suo amore perduto, una creatura luminosa come il mattino che egli aveva amato e perduto da molti, molti anni.
"Ma ho creduto di rivederla", disse con un sospiro "mentre camminavo lungo le rive del fiume, ai piedi del dirupo di Binnorie", e riprese a toccare le corde dello strumento in una melodia nuova che nasceva in quell'istante sotto le sue dita:

Nella gora di Binnorie, ai piedi della rupe
le bianche acque del fiume scorrono forti e cupe.
Sulle rive, tra i sassi, la fanciulla riposa
chiara più del mattino, fresca più della rosa;
ma il lume della vita fugge ormai dal suo viso
e sulle labbra pallide è spento ogni sorriso,
nella gora di Binnorie, sulle rive del fiume,
della fanciulla morta non arde il dolce lume.
Taccia ormai la mia arpa, né più le corde io tocchi
che la pena del cuore nel silenzio trabocchi.

Il suonatore d'arpa abbandonò in grembo lo strumento, e lo sguardo di quanti l'ascoltavano si velava di commozione, ma il viso della bella Ellen era pallido come quello della sorella morta.
Nell'istante in cui le ultime vibrazioni si perdevano nell'aria, l'arpa dalle corde lucenti che il suonatore aveva deposto accanto a sé si sollevo come se una mano invisibile la reggesse, e le corde presero a vibrare, e quella mano invisibile ne traeva una musica aspra e dolente, e una voce lontana cantò nell'improvviso, silenzioso terrore che si distese sulla sala del banchetto.

Mia madre avrà per sempre una spina nel cuore,
l'animo di mio padre è chiuso nel dolore.
Ma accanto al cavaliere che la fede ha smarrita
siede la bella Ellen che mi ha tolto la vita.

Con un ultimo suono, aspro e prolungato come un lamento, l'arpa si spezzò e ricadde a terra muta.

Introduzione alla Pittura di Friedrich e al Sublime Cristiano Panico e Panteistico

Tratto da


La pittura di paesaggio anteriore e contemporanea a Friedrich era ferma nel riprendere le tipologie di quella olandese del '600. Pur rifacendosi a modelli seicenteschi di pittori come Philips Koninck e Meindert Hobbema, specialmente nel taglio prospettico dilatato e nell'indagine meticolosa degli elementi naturali, Friedrich perviene a un'interpretazione nuova: attribuisce al rapporto uomo-natura una valore sentimentale: la partecipazione commossa del soggetto, il senso dell'infinito e del mistero, che conduce con sé simboli, evocazioni, allegorie. Sovente è la natura stessa a fare da protagonista, sia per l'assenza dell'uomo, sia perché anche quando è presente esso si fonde con la natura in un tutt'uno che celebra l'Assoluto. Da pittore romantico Friedrich ritrae paesaggi che, nella loro bellezza trasfigurata assumono un timbro quasi irreale. Talvolta rientrano nella categoria del "Sublime": il sentimento del Sublime nasce dal senso di sproporzione scaturito a contatto con i fenomeni naturali che non possono essere assoggettati al dominio dell'uomo: su di loro lo sguardo dell'artista si deposita, passando attraverso il filtro della malinconia e dell'elegia. Talvolta sono inondati di luce e variano con il variare dello stato d'animo del pittore.
Essi sono sempre il teatro nel quale si riflette una presenza superiore che è dentro e oltre la natura stessa: la presenza di Dio che si manifesta sotto le speci di un crescente lunare o della croce di cristo (Nota di Lunaria: in realtà, il Sublime è più pagano che cristiano; difatti la Contemplazione Estasiata della Natura può portare al panteismo e quindi a divinizzare gli elementi naturali: Il Dio Sole, la Dea Luna, la Dea dell'Acqua, la Dea della Terra, la Dea del Grano, il Dio del tuono ecc.: la Natura diventa epifania del Divino, e di un Divino sessuato: maschile e femminile, e in effetti lo stesso cristianesimo di Friedrich è intriso di uno spiritualismo panico: querce, pini, abeti, vette non rimandano al nazareno, bensì agli Dei e alle Dee pagane, adorate nelle querce, nei pini, sulle vette, nelle rocce...)
L'imponenza del mare, del cielo, delle distese pianeggianti, dei monti, spesso viene sottolineata dalla posizione di spalle delle figure isolate, in rapporto con l'Infinito, che non dialogano con lo spettatore, ma nelle quali lo spettatore può immedesimarsi.

Friedrich è un pittore propriamente romantico: sia per la sua idea di paesaggio, sia per come vuole registrare i sentimenti, sia per il senso malinconico che riveste gli stupendi scenari naturali che egli ritrae, sia per la ripresa di elementi legati al medioevo cristiano, come le cattedrali diroccate, le abbazie e solitarie figure di monaci. Il mondo di Friedrich è quello del Romanticismo Tedesco, ma il pittore oltrepassa gli accenti tumultuosi del movimento settecentesco dello Sturm and Drang e li traduce in una concezione della vita e della natura che è dominata da dio e da cristo: il cristo della crocifissione e quello della resurrezione.
Il cristianesimo che troviamo in Friedrich è molto radicato nella cultura tedesca ed è affermato nelle riflessioni di un estetico di ispirazione misticheggiante come Wilhelm Heinrich Wackenroder e di Novalis, che nei suoi "Canti Spirituali" dava forma poetica a uno sconforto esistenziale, alla nostalgia e alla rappacificazione dell'uomo in dio, determinata dalla redenzione di cristo. La nostalgia è l'elemento che lo fa sentire attratto verso l'Essere Infinito. Per Novalis la vita è come il cammino di un viandante solitario che deve percorrere il tragitto necessario alla propria umana realizzazione. Il tema del Viandante è celebrato anche da un musicista come Franz Schubert che compone un lieder e una fantasia per pianoforte intitolati "Wanderer" ("Il viandante"). Non a caso, anche Friedrich tratta il tema: "Viandante sul mare di nebbia".


Emblema del sentire romantico, l'opera rappresenta un viandante solitario che giunto alla sommità di un picco roccioso contempla una sconfinata veduta, i cui contorni sono avvolti e trasfigurati dalla nebbia; la posizione di spalle proietta immediatamente lo spettatore nella stessa contemplazione. L'uomo sta di fronte all'infinito come innanzi a qualcosa di assolutamente inaccessibile, ma ad un tempo ne è affascinato.


Con la scelta di ritrarre la giovane moglie, Caroline Bommer, come "modella" nei suoi quadri, i dipinti di Friedrich acquistano una tensione verso l'Infinito, la contemplazione della Natura, la meditazione sul termine della vita terrena, lo stupore di fronte alla resurrezione sono introdotti dalla delicata figura della moglie, isolata o che accompagna affettuosamente il marito: scaturisce un tono poetico più intimo, un sentimento di pace pervaso da sereno affetto.

Nel 1817 O.H. von Loeben scriveva che "nelle opere di Friedrich vediamo i paesaggi diventare contemplazione della vita interiore".

"Wanderer" (Il Viandante) 1816

Testo Poetico: Georg Philip Schmidt
Musica: Franz Schubert

Vengo dalla montagna,
la vallata è piena di nebbia, il mare mugghia,
cammino in silenzio, il cuore è gonfio di tristezza
sospirando, non smetto di domandare: dove?

Il sole mi appare così freddo,
il fiore appassito, la vita così carica d'anni,
e ciò che mormorano non è che un'eco vana,
ovunque sono straniero.

Dove sei patria mia amata?
Inseguita, sentita e mai trovata?
Patria, Patria ove la speranza risplende,
Patria, ove fioriscono le rose.

Dove i miei amici camminano,
dove i miei morti resuscitano,
Patria che la mia stessa lingua parla,
O Patria, dove sei?

Cammino, in silenzio, il cuore è gonfio di tristezza,
non smetto di domandare, sospirando: dove?
Una voce di morte in un sussurro mi risponde:
"Dove non sei, lì è la felicità".



Il corteo di confratelli accompagnano un corpo a sepoltura. Dal primo piano cosparso di lapidi e croci sepolcrali, s'innalzano verso il cielo con accentuato verticalismo e rigorosa simmetria le imponenti vestigia del passato: i tronchi spogli delle querce e al centro le rovine di un'abbazia gotica che si ispira ai ruderi di Eldena, nelle vicinanze di Greifswald.









è ancora l'incombente presenza della morte a riempire tutto lo spazio del quadro attraverso il fitto ramificarsi della quercia, simbolo ricorrente della tradizione eroico-pagana. Il tema è ulteriormente ribadito all'interno della composizione dalla spoglia altura, che l'iscrizione sul retro identifica in un'antica tomba unna. Gli stessi corvi annunciano sventura. Alle buie tonalità del primo piano subentrano i limpidi chiarori del cielo, sul quale in controluce si ritaglia l'articolato disegno dei rami.



Il lento digradare dei piani è interrotto dal profilo del monte Milleschauer a sud di Teplitz.



In primo piano si impone un picco roccioso con il crocifisso. Dietro, il paesaggio si dilata oltre lo spazio infinito del mare di nebbia e del cielo rischiarato dall'aurora. La netta linea dell'orizzonte è superata soltanto dall'esile croce. cristo, con le braccia aperte, è il signore di quell'immensa vastità. A lui tende la faticosa ascensione dei due viandanti: la donna, aggrappata al legno con una mano, tende l'altra all'uomo che ancora deve compiere gli ultimi passi.





Due stampelle sono state abbandonate sulla nave dal giovane, ora raccolto in preghiera. Gli abeti sono l'unico elemento di vita in una natura sepolta dalla neve. Una chiesa gotica appare tra le nebbie.



 

Sulla cima di un picco roccioso in ombra si staglia il crocifisso. La sua posizione conduce il nostro sguardo alla sorgente nascosta della luce: l'immagine del padre eterno che vivifica ogni cosa. Gli alberi simboleggiano la speranza del cristiano.






Il tema della morte pare unire in un comune destino, l'uomo e la natura. Sul terreno sepolto dalla neve sorgono tra querce maestose, ma completamente spoglie e nodose, simbolo di una concezione della vita eroico-pagana. Le querce sembrano vigilare la tomba unna, monumentum di un valoroso popolo antico. Si intrecciano così due interessi tipicamente romantici: il senso della caducità e il recupero dei momenti gloriosi della storia.


La scansione dei piani incita all'ascesa: al cammino fisico si associa quello spirituale, come suggeriscono i rimandi simbolici: i pericoli della vita terrena destinata alla morte (i dirupi e i tronchi rinsecchiti e sradicati), la forza delle fede e l'energia della speranza (la roccia e l'abete), la perfetta eternità di dio (il ghiaccio perenne in cima)






è impossibile che dipingendo questo dipinto nella mente di Friedrich non fosse affiorato il ricordo dell'episodio più tragico della sua vita. Aveva 13 anni quando, pattinando, il ghiaccio si ruppe sotto di lui; fu salvato dal fratello Johann che morì annegato al posto suo.
La massa scheggiata dei ghiacci s'innalza come una cattedrale. Lo spunto di questo dipinto venne offerto a Friedrich da un fatto di cronaca: il fallimento di una spedizione al Polo nel 1820, con il conseguente naufragio di una nave.



Aggiungo anche:





E per fare un po' di pubblicità a una pittrice ingiustamente dimenticata da noi italiani, aggiungo anche Rosa Mezzera http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/rosa-mezzera-le-cascate-di-tivoli-1810.html







Per un approfondimento sulla Pittura Inglese, vedi: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/08/introduzione-al-romanticismo-inglese-in.html

http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/12/introduzione-al-romanticismo-e-alle-sue.html

Vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/09/il-paesaggio-ottocentesco-lombardo-e-il.html


Nikolaj Rajnov "La Canzone della Vergine"

Tratto da


Nato il 1°gennaio 1889, Nikolaj Rajnov comincia a pubblicare molto giovane. Nel 1908 si appassiona alla teosofia e alle religioni orientali. Il suo primo libro, "Leggende Bogomile" (1912) ha un successo immediato. Scoppiata la guerra balcanica, l'Autore dovrà aspettare il 1918 per poter pubblicare di nuovo. Muore il 2 maggio 1954.

Nella terza leggenda scelta del ciclo delle "Leggende Bogomile" (1912) non c'è azione, non ci sono avvenimenti. è solo un canto alla Vergine, visto anch'essa come incarnazione del principio duale: a un tempo Madre di Dio e oggetto d'amore eterno, eterna, sublime meretrice. Simbolo polimorfo, incarna una delle più produttive intuizioni rajnoviane, quella dell'identità di tutte le religioni, della loro fondamentale equivalenza, quasi una somiglianza genetica, una radice comune che trasmigra, si trasmette per contatto, si ritrova, travasa per osmosi. E il bogomilismo è in qualche modo all'incrocio di questi differenti influssi, a sua volta trasmettitore e propagatore.
In un paese come la Bulgaria, in cui la parola "decadentismo" entra in una letteratura nel 1899, e soltanto come termine usato per informare di quanto avviene in Occidente; in cui le prime composizioni simboliste sono della fine degli anni dieci del secolo: "Insonnie" di Javorov (1907) e "Regina Mortua" di Trajanov (1908) l'inafferabile Vergine di Nikolaj Rajnov, sinuosa ambigua e distante, è soprattutto l'inquietante donna decadente, portatrice di passione divorante, che annienta e distrugge.


Rosata stella del giorno - benedetta sia la Vergine che nasce dalle onde lucenti e sparge capelli sul mare! Impercettibile è il suo fascino e l'armonia delle sue sembianze trafigge il cuore come spada a doppio filo. In Lei si raduna ogni incanto poiché è Madre e Vergine: Essa è meraviglia ed enigma alla mente, ma al cuore consolazione ed estasi. Se accarezza il forte, la sua potenza si scioglie come cera al sole. Se getta uno sguardo da madre al debole, esso accumula la forza di un gigante. Ognuno è fanciullo dinnanzi a Lei, e Lei è Madre di ogni cosa viva. Essa ha generato le anime che vivono sulla terra.
La luce La avvolge. E gli uomini, contemplando il Suo splendore, ne hanno i cuori confusi, le mani tremanti, e nell'anima loro nasce l'amore.
Ha portato l'Uomo Eterno nel suo ventre, e dal Suo cuore scaturisce l'amore per l'universo. Chiunque onori la Dea dell'Amore, onora Lei. E il bimbo, che si stringe con le mani tiepide a sua madre, e il ragazzo che va incontro alla sua amata con il cuore in subbuglio, e lo sposo che bacia la sposa e il vecchio che accarezza il nipote che gli passa accanto, tutti onorano Lei, la Stella del Mattino.
Il Suo cuore è mondo di ogni macchia, e come neve purissima è bianca l'anima della Vergine Celeste.
è il tremito più intimo di ogni cosa creata, e respira. è il fiore della primavera, geme nella foglia gialla dell'autunno, lotta con il cielo nelle tempeste di neve invernali, si immerge nel profondo azzurro del sereno cielo invernale.
Il vento diffonde il Suo sussurro e il fulmine sparge tempestoso lo splendore dei Sui capelli d'oro.
è rete luminosa, intessuta di luce: nel tremito di ogni foglia d'alloro resta l'eco della Sua canzone.
Nei Suoi capelli ride la fiamma di stelle cadenti e langue il fragore di mondi frantumati.
Sulla Sua fronte scivolano i cerchi di tutte le costellazioni, e la tenebra si sussegue alla luce, poi di nuovo un incendio di fuoco cinge gli spazi dove germogliano fiammelle e cominciano ad attorcersi dita di fuoco di un'enorme mano.
I Suoi occhi si spalancano sull'uomo come due abissi capovolti, come cieli oscuri, come pericolosi precipizi sospesi sull'anima. Uno si chiama Destino. L'altro Mistero. E insieme il loro nome è Morte o Amore. Enorme calice colmo di fuoco è la Sua bocca: chi è baciato, muore di desiderio. Perché nella sua anima ribollono bramosie ardenti, e lui diventa schiavo, e la sua anima cade come un sudario, calpestato da piedi altrui.
Le Sue mani sono due cinture di fuoco a stringere la vita del mondo; belle come serpi e mortali come un abbraccio. Perché la bellezza porta la morte, e veleno dorme in ogni bacio. Le Sue mani si tendono sull'anima come due bianche lenzuola, sotto cui puoi perderti, ma puoi anche morire.
è la Dominatrice dell'eterno Mistero, da cui nasce Colui Che ha generato il mondo.
è alloro dalle foglie fiammeggianti, rami infuocati e fiori di fulmine. è luce all'alba e crepuscolo della sera. Genera il nero Giorno e la bianca Notte dell'anima umana. è il terribile "forse che" di ogni fede e il chiaro "può darsi" di ogni disperazione.
Suo è il Primo Giorno. Sua è l'Ultima Notte.
è Amore, Fatica e Saggezza.
Per colui che non sa, il Suo nome è semplice: Donna.
Ma per il saggio, che è vissuto mille volte, il Suo nome è tanto complesso che nessuna bocca è in grado di pronunciarlo per intero.

... E ogni cosa viva La benedice, e ogni cosa serve Lei.
Cammina per l'oscura antichità dei secoli e attraverso la nebbia del tempo giunge fino a noi.
è l'Euritmia universale a cui aspirano gli artisti, e l'Armonia luminosa che inseguono musicisti e cantanti.
Molte sono le sue trasfigurazioni. Molti sono i canti con cui la Sua anima vola fino a noi, fino ai mortali.
Istar, Derketo, Lakshimi, Anahita, Astarte, Iside, Afrodite, Venere (1): dappertutto adorano Lei coloro che profondamente amano e inseguono nell'amore una vita palpitante o una morte ardente.
Guardiana della Verginità. Essa ha un tempio in cui perennemente arde l'inestinguibile Fiamma dell'Amore. E là volano le anime delle inquiete e dei desiderosi, e là le anime bruciano le loro ali, e là le anime s'inceneriscono, per non tornare indietro.
Essa è il rogo eterno su cui brucia l'anima del mondo.
Per colui che non sa, il Suo nome è semplice: Donna.
Ma per il veggente che ha vissuto mille vite, il Suo nome è tanto indecifrabile, che nessuna bocca è in grado di pronunciarlo.

.... A volte Essa è nuda, nuda completamente, e tutti rimangono accecati dal fulgore latteo della Sua figura.
E a volte è velata di tessuto di stelle, e invano si arrovellano i maghi a sollevare il lembo del Suo velo.

... E anche ora, Essa fende accanto a noi le onde, e sopra la smeraldina cresta delle acque, ognuno può scorgere il corpo nudo della Beltà, che nasce dalla schiuma vergine.
  

(1) Istar è il nome della divinità centrale femminile assiro-babilonese, Dea della fertilità e dell'amore fertile.
Derketo è il nome greco di Atargatis, raffigurata con la falce lunare e con i raggi solari aureolati attorno alla testa.
Lakshimi: nella mitologia indiana, una delle spose di Vishnu.
Anahita: L'Immacolata, la "Grande Regina", antica divinità iranica delle piogge, della fertilità e dell'amore. Nella mitologia armena, nota come Anachit.
Astarte, divinità semitica, venerata in tutto il mondo orientale. Il suo culto, che celebrava la fertilità e la riproduzione, aveva aspetti erotici e orgiastici. Nei suoi templi veniva praticata la prostituzione sacra.
Iside: è la maggiore divinità dell'antico Egitto, sorella sposa di Osiride e madre di Horus.
Afrodite: divinità greca dell'amore e della fecondità.
Venere: nella mitologia romana, Dea dell'amore e della bellezza femminile.




Le Poesie di Vittoria Aganoor Pompilij



Nota di Lunaria: avevo già trattato questa brava poetessa, anni fa, avendola conosciuta nel 2004 . Ripubblico lo scritto, aggiornandolo con ulteriori approfondimenti e con una nuova grafica. E spero davvero che sia occasione per conoscere questa poetessa, così misconosciuta. Senza nulla togliere ai Grandi del '900 (i Pascoli, i d'Annunzio ecc.) sarebbe troppo chiedere alla scuola italiana di inserire una poesia anche di Vittoria Aganoor Pompilj, nelle ore scolastiche nelle quali si studia (e poco) la nostra poesia?


Tratto da


Di antica famiglia armena, nacque a Padova nel 1855. Nella città veneta conobbe Giacomo Zanella, che seguì i suoi primi passi di poetessa. Successivamente ebbe contatti con Enrico Nencioni a Napoli e un intenso rapporto amichevole, come attesta il suo epistolario, con Domenico Gnoli. Il suo primo libro, nonostante la precocità della sua vena poetica, apparve solo nel 1900, col titolo "Leggenda Eterna". L'anno seguente si sposò con un nobile perugino deputato, che ne aveva ammirato i versi. Nel 1908 uscì il suo secondo volume "Nuove liriche" e nel 1910 morì a Roma. Poco dopo il marito si tolse la vita. Le "Poesie complete" vennero pubblicate, postume, nel 1912. Poetessa assai colta, lettrice dell'opera di autori stranieri e italiani, si caratterizzò per un certo eclettismo e per una fisionomia costantemente in bilico tra classicismo e sensibilità decadente, nella quale prevalse, sulla confessione e sul diario sentimentale, un senso, a volte astratto, di incomunicabilità  e ambiguità.

"Finalmente"

Dunque domani! Il bosco esulta al mite
sole. Ho da dirvi tante cose, tante
cose! Vi condurrò sotto le piante
alte, con me; solo con me! Venite!
Forse... - chi sa? - non vi potrò parlare
subito. Forse, finalmente sola
con voi, cercherò invano una parola.
Ebbene! Noi staremo ad ascoltare.
Staremo ad ascoltare i mormoranti
rami, nello spavento dell'ebbrezza;
senza uno sguardo, senza una carezza,
pallidi in volto come agonizzanti.


"Pioggia"

Piovea; per le finestre spalancate
a quella tregua d'ostinati ardori
salìano dal giardin fresche folate
d'erbe risorte e di risorti fiori.
S'acchetava il tumulto dei colori
sotto il vel delle gocciole implorate;
e intorno ai pioppi, ai frassini, agli allori
beveano ingorde le zolle assetate.
"Esser pianta, esser foglia, essere stelo
e nell'angoscia dell'ardor (pensavo)
così largo ristoro avere dal cielo!"
Sul davanzal protesa io gli arboscelli,
i fiori, l'erbe, guardavo, guardavo...
e mi battea la pioggia sui capelli.


"Pagina di diario"

Giorno limpido e triste! Ho dentro l'anima
un'insolita voce che si lagna
d'un male ignoto. Come una sonnambula
io guardo il cielo, guardo la campagna
e il decrepito sole e la decrepita
terra, e qui noto e fermo questa mia
ora di vita: aggiorna; i campi ridono,
ma d'un sorriso di melanconia.
La famiglia dell'erbe e delle piccole
piante, dal gelo mattutin ferita,
china, in atteggiamenti melanconici
par che alle zolle mormori: "è finita!"
e una foglia, sospesa a un'invisibile
fibra, tentenna senza vento, e dire
sembra al suo triste ramo, con monotono
ritmo: "io non voglio, io non voglio morire!"
Molto quest'autunnale ora somiglia
la stanca anima mia, dove se splende
qualche raggio di gioia, è il melanconico
addio d'un vecchio sole che s'arrende
vinto, all'inverno. Ma sospesa al tenue
filo d'un sogno, un'ultima, appassita
speranza, come quella foglia palpita
e protesta se anchio penso: "è finita."


"Magie Lunari" (*)

Fosche rupi, dal tempo incise e rotte
tragicamente, intorno ad una fanghiglia
d'acque morte, sogguardan nella notte
sorger la luminosa meraviglia
che ascenderà tra poco alta sui gioghi.
Guardan, sentendo attingerle il portento
che muterà le vette orride in roghi
sacri, e gli stagni in puri occhi d'argento.

"O Morti!..."

I passanti s'indugiano ai cancelli
spiando delle verdi ombre i segreti;
ma son l'ombre deserte, e i muschi e l'erbe
parassite che allignan sugli avelli (1)
veston la villa (2) immersa tra gli abeti.
Io, qui seduta sotto il porticato
dove sovente al vespero veniva
il padre mio, guardo, e mi credo un'ombra,
l'ombra di un lontanissimo passato
che solo ha forma di persona viva.
S'affaccia della luna il bianco viso
tra pianta e pianta, ma la vaga scorta
dei sogni più non è con lei; somiglia
un teschio adesso e con beffardo riso
sembra dirmi: "Non vedi? anchio son morta!"
Ecco l'Ave, la squilla ch'egli (3) udìa,
lo stesso suono... e tornano dell'ore
lontane le memorie: i giorni lieti,
le dolci sere; un'intima agonia
evocatrice che dilania il core.
O morti, dite una parola, dite
una parola!... Con l'orecchio io tendo
tutta l'anima mia... Passa una nube
e l'erba trema... oh certo voi m'udite,
mi parlate... e son io che non v'intendo.


(1) I sepolcri
(2) La villa paterna, dove l'autrice ritorno dopo la morte dei suoi cari
(3) Il padre, Edoardo Aganoor.


"Dialogo"

Noi parliamo, ma so io
quel che pensate
veramente? E voi sapete
quello ch'io penso?
Van le parole e un sottile
velo di riso
spesso ne maschera il senso.
Noi parliamo... Ma d'un'altra
voce voi di certo
udite il suono; d'un altro
accento io pure
credo ascoltare la strana
eco... Ad entrambi
parlano due sepolture.
Noi ridiamo anche, ridiamo
forte, e la gioia
brilla negli occhi al baleno
vivo d'un motto
fine. In che abisso del core
chi dunque intanto
scoppia in un pianto dirotto?
A lui ridiceva quell'ultimo
sguardo: "Perché non credi?
Perché mentirei? Tutta l'anima
in questi occhi non vedi?
Rimani! non far ch'io difendermi
debba alle stolte accuse!"
Così le pupille pregavano,
ma il labbro non si schiuse.


"Dopo la pioggia"

Le nubi ripiegano l'ale
al fresco alitar di Levante;
sottili tra l'erbe e le piante
oscillano ponti d'opale.
Laggiù non più livido e fosco
color di melmose maremme
ma fra le radure del bosco
il lago (1) sfavilla di gemme.
Risorgi, o mio spirito; imìta
il fior delle roride (2) aiuole
già prono dal nembo. La vita
è bella; v'è ancora del sole!


(1) Il Trasimeno
(2) Rugiadose



(*) Nota di Lunaria: in questa poesia è molto evidente il riferimento al Romanticismo Cimeteriale inglese alla Gray/Parnell, ma anche, al sonetto cinquecentesco di Luigi Tansillo.

Lo riporto qui

Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)

(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti






Wilhelm H. Wackenroder (1814)

 Tratto da



Due amanti, avidi di abbandonarsi interamente ai prodigi della solitudine notturna, risalivano quella notte con una leggera imbarcazione il fiume che scorreva davanti alla caverna del santo. Il raggio penetrante della luna rischiarava le loro anime fin nelle più intime profondità e le liberava dalla loro oscurità. Essi sentivano le loro emozioni più sottili sciogliersi ed unirsi per vogare in un flusso senza rive. Dall'imbarcazione si levavano verso gli spazi del cielo le onde d'una musica eterea. Oboi soavi e non so quali altri incantevoli strumenti esalavano un universo di fluttuanti sonorità, e in tale ondeggiamento sonoro si sentiva risalire questo canto:

Brezze soavi, voi scivolate sui prati e le morbide acque.
Raggi lunari, voi tessete giacigli d'amore per gli amanti
Con quale dolcezza di miele si riflette la tua volta
O Cielo!
L'amore illumina le stelle nel firmamento di stelle pieno
niente può squarciare i veli all'infuori dell'amore
caldo come l'estate.
E sotto un soffio che si distende sorridono acque e cielo.
Già il chiaro di luna stende sui fiori la sua sonnolenza.
Fra strani profumi la palma cantando oscilla
e la musica del sonno annuncia l'Amore senza pari.


(Da "Il meraviglioso racconto orientale del santo ignudo", 1814)




Elementi gotici nella letteratura del Settecento e Ottocento (4) Alessandro Sauli


Tratto da


Nella seconda metà dell'Ottocento fa la sua comparsa una narrativa (davvero popolare e d'appendice) basata su modelli europei e in specie su quello francese; che talora persista o meno il travestimento storico non importa, ciò che conta è il fatto che molti autori nostrani, vi si dedichino.
Spopola il filone inesauribile dei cosiddetti "misteri", inaugurato da Sue con i già rammentati "Misteri di Parigi".
Innumerevoli le imitazioni francesi e italiane: i "misteri" erano il quadro ideale per mostrare i bassifondi più pericolosi, gli ospedali, le carceri, tutti quei luoghi cittadini da incubo dove la povera gente era immersa nella malattia e nel crimine, nelle più sordide condizioni. Le grandi, ma anche le non grandissime città d'Italia (compresa Firenze) si mutano in teatri del vizio, del morbo, della paura, della rapina, dello stupro e dell'omicidio (Nota di Lunaria: tutti argomenti analizzati anche nel filone cinematografico "poliziottesco" - vedi la mia analisi al riguardo sul celebre cult movie "Milano odia: la polizia non può sparare")
In questo panorama sono facilmente riscontrabili le situazioni fantastiche o ammiccanti in tale direzione.

Ne "I misteri di Milano" di Alessandro Sauli


col titolo "Un'anima in pena" si racconta un episodio puramente soprannaturale: ne sono spettatori i personaggi del conte di Castelsanto e de suo segretario inglese Wil.
Castelsanto  è l'incarnazione di una innegabile poetica fantastica:

" [...] io, non solo credo, ma amo le apparizioni. Gli è un gusto come un altro. Vi hanno taluni che vanno scioccamente pazzi per gli spettacoli fantasmagorici: quanto a me preferisco a quest'infantile gioco d'ottica un uscio che cigola cupamente sugli arpioni, sospinto da una mano invisibile, all'ultimo tocco della mezzanotte, per dare il passo a uno spettro... un vero spettro, di cui udite il rumore, lento, misurato de' passi, e il sordo fruscio sul pavimento del bianco lenzuolo che gli si svolge in pieghe ondeggianti sulle spalle ossee, come un manto regale - il che - lo dico senza affettazione o spavalderia - veduto al chiaro di luna, è d'un effetto meraviglioso"

Ed egli ammette l'origine della sua bizzarra passione come dovuta ad alcuni scrittori-cardine del genere:

"Io amo gli spettri, ripetè il siciliano; se ciò è un'eccentricità, incolpatene Hoffmann, Poe e Anna Radcliffe, che hanno rinvigorito in me la naturale tendenza allo strano, al fantastico, al soprannaturale. Inoltre, io partecipo un po' della natura del gufo - amo le rovine, la torre crollante d'un castello feudale, o la vasta e fredda sala d'un palazzo di un palazzo disabitato. Ecco perché preferisco Siena a Firenze, Genova a Torino, Venezia a Milano, e quella catapecchia, metà baronale e metà borghese del palazzo Fabiani, alle splendide nicchie di un appartamento moderno"

In quest'ultimo edificio di cui si parla, Castelsanto prende un appartamento in affitto proprio perché ritenuto stregato da un'apparizione. C'è veramente un fantasma, che la notte verga con mano invisibile su un plico di fogli bianchi le proprie tormentate memorie.

Una volta tradotti in Francia da Baudelaire nel 1858 arriva la prima versione italiana di "Racconti" di Edgar Allan Poe: il grande successo farà sì che la sua opera si diffonda per moltissime edizioni e per vari editori. La Scapigliatura non tarderà a celebrarlo come maestro. Così la letteratura dell'orrore ha mosso i suoi primi passi in Italia...

Nota di Lunaria: e finalmente, siamo arrivati a questo


ovvero alla Scapigliatura, con il mio adorato Tarchetti e la sua Fosca:


e tanti altri autori.

Perché è verissimo che cd come questi


si formano su questa letteratura


Vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/il-romanzo-nero-1-horace-walpole-e.html

ma è anche vero che la nostra Italia, anche se limitatamente, ha sviluppato una sua via al Gotico e non mancano, anche in autori insospettabili, come il Monti, alcuni passaggi cimiteriali e gotici, perfetti come lyrics per qualsiasi band Symphonic Black Metal...

Le mie preferenze vanno ovviamente a Tarchetti


che ha celebrato in modo tragico e melodrammatico tutte le ragazze dai lunghissimi capelli corvini, come la sottoscritta ^-^