I fotogrammi più belli tratti dal "Macbeth" di Polanski e Kurzel















































Commento tratto da:


Macbeth fu pubblicato per la prima volta nell'in-folio del 1623; il testo è uno dei più brevi dell'opera di Shakespeare e ciò ha fatto supporre che esso abbia subito del tagli, alcuni dei quali forse dovuti a motivi di censura. Tuttavia tale ipotesi non sembra molto convincente mentre è assai probabile che il testo proprio per la sua brevità, abbia subito delle interpolazioni. Dubbi sono stati avanzati sull'autenticità di ben dieci scene ma la critica è ora concorde nell'indicare come spurie soltanto la quinta scena del terzo atto in cui compare Ecate, e parte della prima scena del quarto atto (la ricomparsa di Ecate e la danza delle streghe). A motivi stilistici e strutturali si aggiunga il fatto che in entrambe le scene sono usate canzoni tratte da "The Witch", dramma di Middleton scritto tra il 1606 e 1616, alcuni anni dopo il "Macbeth".

Scritto dopo "Othello" e "King Lear", "Macbeth" conclude la grande fase tragica di Shakespeare. "Macbeth" si apre tra tuoni e lampi con la comparsa delle streghe e si chiude col capo mozzato di Macbeth portato in scena dal suo uccisore, in un susseguirsi di delitti, narrazioni di eventi innaturali e fatti sinistri, apparizioni fantastiche. Gran parte dell'azione si svolge di notte, con la complicità delle tenebre che Macbeth invoca a nascondere i suoi stessi desideri prima ancora che i suoi misfatti.
L'elemento soprannaturale, reso ancor più pauroso dalla tenebra che l'avvolge, non solo dovette esercitare un orrido fascino sul pubblico del Seicento e poi giù giù fino ai romantici e a Verdi, ma rappresenta tuttora il segno caratterizzante della tragedia.
Con il nero della notte, l'altro colore dominante di Macbeth è il rosso del sangue. La tragedia gronda di sangue, dall'ingresso del capitano sanguinante nella seconda scena sino alla testa mozzata del finale: al sangue degli uccisi, che si raggruma su mani e pugnali, si aggiunge quello delle immagini, tra le più agghiaccianti della poesia di Shakespeare, come quando Macbeth si domanda se basterà tutto l'oceano a lavare la sua mano o come quando valuta, quasi con distacco, la situazione in cui è venuto a trovarsi:

"Tanto in là ho camminato nel sangue
che fermarmi e tornare sarebbe fatica
più aspra che il procedere" (III. 4. 135-7)

Il sangue, vero o immaginato, nei fatti o nelle parole, è costantemente davanti agli spettatori di questa tragedia, che Jan Kott ha definito la tragedia dell'assassinio, laddove altri l'hanno definita la tragedia del male, della dannazione, dell'ambizione, della paura; nel "Macbeth" la storia è mostrata come un incubo, è ridotta ad un unico aspetto e ad un'unica primordiale distinzione: quelli che uccidono e quelli che vengono uccisi.

Il tema di fondo, nel "Macbeth", è l'indagine della condizione e della natura dell'uomo, sia pure in rapporto al problema del potere e del suo esercizio.
Tale indagine passa attraverso le figure di Macbeth e di Lady Macbeth, che giganteggiano nella tragedia schiacciando quasi gli altri numerosi personaggi.
Si è già detto del fascino esercitato dal soprannaturale e dalla tenebra, e l'altro elemento di fascino è dato dall'impatto sinistro dei due protagonisti, grandi nella loro infamia. La mostrosità dei due protagonisti è indubbia, al punto che si è cercato di dimostrare, rapportando le sue tremende invocazioni alla cultura dell'epoca, che Lady Macbeth è praticamente demonizzata.

Accettare la loro infamia non significa però ridurli alla definizione che ne dà Malcolm nel finale, macellaio lui e simile a un diavolo lei. Non sono personaggi monolitici, ma sono percorsi da contraddizioni e incertezze, che né li giustificano, né dovrebbero suscitare pietà, ma che conferiscono loro quella grandezza tragica cui si manifesta la sublime capacità di Shakespeare di indagare nell'animo umano.

Sin dalla prima comparsa Lady Macbeth si presenta come una donna animata da una inflessibile e malvagia determinazione: è lei che convince il marito ad uccidere Duncan vincendone le incertezze.

Terribili sono le sue parole:  "cancellate il mio sesso... sbarrate ogni accesso al rimorso... succhiate il mio latte in cambio di fiele"; ed è lei, dopo l'assassinio, a tranquilizzare Macbeth e a gestire la scena della scoperta dell'omicidio. Ma poi c'è la scena del sonnambulismo, nel quinto atto: le poche frasi pronunciate da Lady Macbeth, in cui si mescolano le parole della determinazione e l'ossessione del sangue sono state oggetto di chiose e ipotesi appassionate, a volte a sostegno di un suo pentimento, nel tentativo di spiegarne la suggestione profonda. Oggi è facile interpretarle come la manifestazione del lavorio dell'inconscio.

Il personaggio di Macbeth segue invece un percorso del tutto diverso. All'inizio della tragedia è presentato come un guerriero valoroso, nobile, che però in seguito alla profezia delle streghe, cede alla tentazione.

è tormentato dal dubbio, caccia i suoi malvagi pensieri ("Se la sorte mi vuole re, può coronarmi, la sorte: senza ch'io faccia un gesto") ma essi ritornano prepotentemente quando Malcolm è nominato erede al trono. Tuttavia non riesce ancora a decidersi, nonostante gli incitamenti di Lady Macbeth; ma poi, quando la moglie gli suggerisce quanto sia facile dare alle guardie la colpa dell'assassinio di Duncan, si risolve ad uccidere il vecchio re: l'ambizione diventa a quel punto lo sprone sufficiente.

La scena del banchetto con l'apparizione del fantasma di Banquo (*) è il momento centrale del "Macbeth".
Lo è materialmente, dividendo in due parti quasi uguali la tragedia, lo è emotivamente, lo è concettualmente. Lo è pure rispetto al rafforzamento della volontà sanguinaria del protagonista: dopo aver sperimentato il terrore dell'irrazionale è ormai "pronto a udire il peggio e con i mezzi peggiori".
Macbeth sprofonda sempre di più nell'infamia senza che per questo venga meno la presa che egli esercita su di noi. Forse perché riusciamo ancora a scorgere in lui un barlume di umanità, come quando urla a Macduff di andarsene perché sulla sua anima già troppo pesa il sangue dei suoi? Forse anche per questo, ma soprattutto perché è umana la sua infamia, perché Shakespeare ci mette di fronte e ingigantisce in questo personaggio gli abissi in cui può precipitare l'animo umano quando dà ascolto nel modo peggiore alla parte peggiore di sé.

Quando Macbeth, in uno dei passi più famosi del teatro shakespeariano, dice che la vita è una storia "narrata da un idiota, colma di suoni e di furia, senza significato" non soltanto dice che la sua vita è senza significato a causa dei suoi crimini, ma lui, assassino sanguinario, costringe noi, miti spettatori, a riflettere sul senso della nostra vita. E forse a dubitarne.


(*) Nota di Lunaria: espediente, quello del fantasma, adottato anche da Vincenzo Monti:

Aristodemo: "Ebben: sia questo adunque l'ultimo orror che dal mio labbro intendi. Come or vedi tu me, così vegg'io l'ombra sovente della figlia uccisa; ed, ahi, quanto tremenda!
Allor che tutte dormon le cose, ed io sol veglio e siedo al chiaror fioco di notturno lume; ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro starmi d'incontro,
ed occupar la porta minaccioso e gigante.
Egli è ravvolto in manto sepolcral, quel manto stesso onde Dirce [è il nome della figlia uccisa da Aristodemo, nota di Lunaria] coperta era quel giorno che passò nella tomba.
I suoi capelli, aggruppati nel sangue e nella polve, a rovescio gli cadono sul volto, e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido volgo altrove la fronte;
e me'l riveggo seduto al fianco.
Mi riguarda fiso, ed imobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome e piovendone sangue, apre la veste, e squarciato m'addita, ahi vista! Il seno di nera tabe
[= sangue] ancor stillante e brutto.
Io lo respingo; ed ei più fiero incalza, e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro traverso i fianchi e mi trascina a' piedi di quella tomba,
e "Qui t'apetto" grida, e ciò detto, sparisce."

Gonippo: "Inorridisco. O sia vero il portento o sia d'afflitta malinconica mente opra ed inganno, ti compiango, mio re. Molto patirne certo tu dèi; ma disperarsi poi debolezza saria. Salda costanza d'ogni disastro è vincitrice. Il tempo, la lontananza dileguar potranno de' tuoi spirti il tumulto e la tristezza. Questi luoghi abbandona, ove nudrito da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo la Grecia tutta, visitiam cittadi, vediamone i costumi. In cento modi t'occuperai, ti distrarrai...Che pensi? Oimè! Che tenti, sconsigliato?"