"Un quarto di luna irradiava una luce bassa e malata sulle lapidi di marmo..."
Da "Una ragnatela di vene pulsanti" di William Scott Home
Lasciati i cavalli ricoperti di pacciame all'ombra di un superbo tasso, uscii dal carro dopo aver preso pala e piccone, e sguazzai tra le molli rive d'erba gialle fino a una breccia nella pericolante palizzata di pietra di quel regno in sfacelo. Un quarto di luna irradiava una luce bassa e malata sulle lapidi di marmo, e screziava le erbacce calpestate che le assediavano con la loro lebbra pallida e umidiccia. Soltanto le imponenti ombre che si raccoglievano intorno ai tronchi delle vecchie querce e dei vecchi faggi sfuggivano alla sua infezione, e io mi ci infilai sotto. Ma lì, dove le foglie cadute non avevano ricevuto una sola goccia di pioggia rigenerante, seguii i miei passi facendole scrocchiare come denti fragili.
Mi fermai e mi guardai intorno con cautela. Ho molti fratelli che non mi fa mai piacere incontrare: la nostra è una vocazione sacrosanta ma molto particolare... Poteva essere l'umida quiete della notte a tentarli, ma quella attenzione diffusa che mi pulsa sotto le vene mi convinse che ero solo. Passando tra i rami intrecciati di abeti e di elci, mi infilai tra i muri contigui di due antichi mausolei devastati dal tempo, e accesi una candela per dare un'occhiata alla strana pianta che avevo con me. Colui che me l'aveva data l'aveva disegnata a memoria, dato che conosceva ogni singola pietra di quel cimitero. Eppure le sue proporzioni e giustapposizioni erano talmente esatte, che trasalii nel riconoscere nelle sue linee precise quel posto che mi risultava familiare come se lo vedessi dall'alto.
Malgrado la facilità con cui sarei potuto arrivare alla tomba, lui mi aveva detto che aveva segnato un'entrata precisa e particolare, e che la ricompensa dipendeva dalla mia obbedienza alle sue indicazioni. Perciò - essendo la mia meta l'angolo nord-est, il settore più abbandonato e deserto di quel cimitero, le cui messi, per uno come me, erano le più esigue, e poiché le segnaletiche che mi offriva mi erano in gran parte note anche se scritte in maniera peculiarmente diversa - feci ricorso un'altra volta alle sue indicazioni precise, quasi a soffocare il battito cardiaco della parte sinistra del mio petto.
Andai avanti, girando intorno alla lapide sprofondata di William Mattix (ogni apprendistato lascia le sue cicatrici), e al sepolcro divenuto il santuario del poeta Joseph Ray, la cui statua alata era piegata sulla pesante porta.
La complessità della chiusura di quella porta, la robustezza delle pareti, e la costosa struttura in ferro dell'urna erano state del tutto inutili, ma il suo volto veniva messo ancora in risalto dagli occhi adoranti di pallidi bevitori famosi... di sicuro un monito per coloro che ci disprezzano.
I rovi di spine e le fitte erbacce rallentarono il mio passaggio attraverso la piccola città di lapidi che ospitava l'intera stirpe dei Brilliot, ma feci attenzione a dirigermi subito verso quel tumulo senza nome che era stato nascosto mezzo secolo prima da grossi cespugli di rose, che ormai erano diventati aridi arbusti malati.
Non ero mai passato in buona parte di quelle stradine che si snodavano dietro il tumulo. Ogni tanto una pietra di lastricato luccicava tra le zolle, e molte lapidi e cripte, anziché essere ricoperte dai licheni, erano soffocate da ciuffi d'erba penzolanti. Quando vi passai in mezzo, mi parvero così uniformemente nascoste dal terreno, che non fui più sicuro di riconoscerle: ero sommerso da un mare anonimo di orgoglio morente, già assorbito dalla tollerante revisione del tempo della terra.
La porta di uno dei mausolei si era rotta da diverso tempo, ed era talmente piegata verso l'interno da aver lasciato accumulare diversi palmi di terra contro il muro. Soltanto i ragni rispettavano l'interdizione.
Entrai dentro per consultare nuovamente la pianta. L'atmosfera stagnante che mi avvolse non appena vi misi piede, era conturbante: la paura è un farfugliamento da bambini per quelli di noi che traggono vita dalla morte, ma non quando il suo caldo alito ci affronta da entrambi i lati.
Quando la candela cominciò a guizzare sulle pietre, per prima cosa esaminai le dimensioni di quella tomba, spoglia come le mie dita. Era immensa: dall'esterno non l'avevo notato, perché le estremità erano state completamente sepolte dalla terra filtrata tra le giunture delle pietre. Le mensole di marmo accanto alla porta, vicino a me, erano vuote, e quelle al limite della luce sdegnavano i propri sigilli di granito. La terra aveva riempito la tomba dappertutto, e l'erba muffita ricopriva il pavimento.
Ricordando improvvisamente che quella era una caratteristica dell'edificio che cercavo, consultai la pianta, e questa mi fornì la conferma. Non so perché, quella scoperta mi provocò uno shock. Spensi automaticamente la candela come se temessi di essere scoperto, agghiacciato più allora, in quel luogo di fredde lacrime, che dalla notte autunnale.
Ma l'immaginazione e la resurrezione non possono stare faccia a faccia. Appesi il mio pesante cappotto alla porta semiaperta e, dopo aver espunto la fievole luce dei vivi, accesi la lanterna lasciandola bassa.
Le bare in fondo alla cripta parevano riposare indisturbate, e arrivavano fino al soffitto nervato, perché la muffa aveva incrostato uniformemente anche loro. Alla fine, c'era un muro di pietra che giungeva all'altezza della vita, oltre il quale appariva un'analoga quantità di terriccio. Con l'ultimo muro del mausoleo, che chiudeva il lato in fondo, cessava completamente la muratura, e la terra diventava tutt'uno con l'esterno. Quanto alla strombatura delle pareti consacrate, c'era spazio all'incirca per una dozzina di bare, sebbene non ci fossero lapidi che le contrassegnassero. Ma era lì che dovevo scavare.
Strane ombre saltarono fuori dalle bare e poi si ritirarono davanti alla luce ondeggiante. Una sudorazione troppo copiosa, per essere dovuta unicamente alla strettezza del luogo, mi imperlava le mani e la fronte. Tuttavia mi misi all'opera come un macellaio davanti al ceppo, o come un mugnaio alla ruota, con la pelle nuova dell'alba dolce sulle gote.
Mi era stato assicurato che c'erano soltanto due bare nel parterre rialzato. Quella che cercavo si trovava a una certa distanza dal muro di mezzo, addossata a quello interno, a circa due metri dalla parete di destra.
Non avevo riso quando mi avevano fornito quei particolari, sapendo che ciò che cercavo in quegli angusti confini non poteva essere privo di ossa, perché ai tempi gloriosi di coloro che avevano riempito quella camera con i propri resti, nessun cane, per quanto amato, poteva dividere la tomba di famiglia.
Mi curvai sulla terra, costretto ad appiattirmi contro il muro. Con un miscuglio di forti sensazioni, sentii i piedi sprofondare fino alla caviglia nell'umido humus, fermandosi soltanto perché avevano raggiunto l'altra bara. Solamente un sottile strato di fango la teneva nell'appropriata matrice della morte.
Seguendo i suoi contorni, tastai il suolo sottostante, e udii un clangore metallico. Essendo le normali precauzioni insignificanti in una tomba così antica e dimenticata, mi limitai a spalare la terra a casaccio e, in pochi minuti, portai alla luce un piccolo oggetto...