Introduzione al "Castello di Otranto" di Horace Walpole



Nel 1811 Walter Scott introducendo l'edizione Ballantyne del "Castle of Otranto", scriveva "Questo romanzo è stato giustamente riconosciuto non solo come il modello originale di un peculiare genere di composizione, ma come uno dei capolavori della nostra letteratura [...] Ma gli scopi di Walpole erano già difficili da raggiungere e più importanti, una volta raggiunti. Il suo obiettivo era tracciare un quadro dei costumi e della vita domestica dell'epoca feudale così come poteva essere stata, dipingendola inquieta e agitata dall'azione del meccanismo soprannaturale [...] Il remoto periodo [un imprecisato Medioevo], ricco di superstizioni, e l'arte con cui ha abbellito i suoi scenari gotici [...] l'intenzione dell'autore, dunque, non era solo di creare sorpresa e terrore, introducendo agenti soprannaturali, ma di vincere i sentimenti del lettore tanto da farli identificare per un attimo con quelli di un'età rozza che riteneva ogni strano racconto devotamente vero".
Giudizio, questo di Scott, forse eccessivo ma tutt'ora sostanzialmente ineccepibile: "The Castle of Otranto" è oggi considerato il capostipite del romanzo gotico, vale a dire il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna. In esso "si trovano riuniti per la prima volta tutti quei procedimenti, temi e personaggi che si combineranno per almeno due generazioni in decine di romanzi. Il gotico diverrà ben presto una moda (anche discutibile), un genere letterario popolare - con gli inevitabili difetti di un genere che nel giro di pochi decenni arriverà a inflazionarsi sensibilmente" (Nota di Lunaria: ma questo vale per qualsiasi cosa. Solitamente qualcosa ha successo, nascono epigoni e cloni che cavalcano l'onda fin tanto che la scena, per le troppe uscite, implode su se stessa - vedi fenomeni come "Twilight", "Tre metri sopra il cielo", "Cento colpi di spazzola...", o musicalmente, il gran trend del Nu Metal, poi imploso su stesso verso il 2004 e oggigiorno del tutto sparito)
Da Clara Reeve alla Radcliffe (la mia preferita. Nota di Lunaria), da William Beckford a Charles R. Maturin fino a Poe, tutti, in varia misura, si troveranno a dover fare i conti con Walpole e le sue fantasie visionarie, con le misteriose, inquietanti corrispondenze da lui suggerite, inaugurando in tal modo un filone ben definito.

Nota di Lunaria: curiosamente, sono state proprio le donne a cimentarsi con il genere, spesso innovandolo. Vedi qui: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/le-scrittrici-della-narrativa-horror-la.html


La prima edizione, in 500 copie, del "Castle of Otranto" compare il 24 dicembre 1764, senza il nome dell'autore; "The Castle of Otranto. A Gothic story. Translated by William Marshal, Gent. from the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto"
Un'antica cronaca, dunque? Nella prefazione, il supposto traduttore non esita a informare i lettori che "L'opera qui presentata fu rinvenuta nella biblioteca di un'antica famiglia cattolica dell'Inghilterra del Nord..."
Walpole, incerto su come sarebbe stata accolta un'opera tanto nuova nella sua impostazione, e non volendo cadere nel ridicolo se avesse sbagliato, mandò nel mondo il suo "Castle of Otranto" come una traduzione dall'italiano. Pochi mesi dopo, incoraggiato dal successo ottenuto, Walpole pubblica una seconda edizione con una nuova prefazione: "Il favore con cui questo breve scritto è stato accolto dal pubblico rende necessario che l'autore spieghi i motivi che ne hanno ispirato la composizione. è bene che egli si scusi con i suoi lettori per aver proposto la propria opera sotto le mentite spoglie di traduttore (...) egli affidò la sua creazione all'imparziale giudizio del pubblico, deciso a lasciarla scomparire nell'oscurità, se rifiutata, e non intendendo reclamare la paternità di una simile bagatella..."
Effettivamente, "Il Castello di Otranto" è stato un tentativo di fondere due generi di romanzo, quello antico e moderno. Tra paesaggi notturni e cieli tempestosi, in un arsenale di elmi magici, quadri parlanti, giganti spettrali, su sfondi di stregata misteriosità degni di Salvator Rosa e Piranesi, i personaggi di Walpole si dibattono tra surreale e quotidiano, nei cinque capitoli (o per meglio dire, atti) del romanzo, ostentando una gestualità concitata un po' troppo da palcoscenico (nota di Lunaria: vedi i personaggi femminili, che svengono...), in un linguaggio ricco di arcaismi ed echi elisabettiani; si tenta - non senza stridori- di fondere il Medioevo con Shakespeare e Richardson.

Nota di Lunaria: infatti il "Castello di Otranto", al lettore moderno, potrà sembrare persino pedante. Probabilmente l'autore aveva progettato di impostarlo più come "testo teatrale" che non come racconto vero e proprio, perché è poco fluido e gli eventi si susseguono come appunto se fossero dei singoli atti teatrali, così come "le battute" dei personaggi, quando interloquiscono tra loro.

Riportando un'altra analisi:

"Il Castello di Otranto" è stato il primo, il libro che ha inaugurato il gotico e che ha spalancato le porte alla narrativa del soprannaturale. Certo, come scrisse una volta Lovecraft, bisogna obiettivamente riconoscere che non è affatto un capolavoro, eppure è indubitabilmente un cult book. In effetti fu immenso l'influsso esercitato da questo libretto su tutta la letteratura.

La storia del principe usurpatore Manfredi (*), perseguitato nella sua magione avita da un fantasma senza pace, raccoglie e concentra in sé tutti (o quasi) gli archetipi del genere gotico. C'è lo spettrale maniero con le sue lugubri segrete, gli umidi corridoi e le sue ali abbandonate o in completo sfacelo. C'è l'Italia evocata come paese esotico, culla di leggende e di misteri (**), c'è il protagonista malvagio, un tiranno usurpatore e senza scrupoli, c'è l'eroe pio, nobile, c'è l'eroina da salvare. C'è tutto un ricco apparato di marchingegni scenici, dagli arazzi che prendono vita allo stridore delle catene, luci misteriose che si accendono, cardini cigolanti, lamenti sinistri. Ci sono gli eventi meteorologici temporaleschi (lampi e tuoni a profusione), c'è il motivo della vita dopo la morte con un fantasma che ha tutti i tratti del gigantesco (***) : il fantasma di Walpole si mostra come un colossale spettro (per tanti aspetti, a posteriori, persino enormemente ridicolo) che a tratti fa apparire pezzi della sua immensa armatura, gettando il terrore tra gli abitanti del castello.




Non possiamo mentire, sostenendo che il romanzo è bello e stracolmo di suspense, perché non è affatto così. La storia è piuttosto lenta, inoltre alcuni elementi e stratagemmi narrativi risultano per noi, a oltre due secoli di distanza dalla pubblicazione, decisamente comici e strampalati. Per di più lo stile risente non solo dei suoi 229 anni di vita, ma anche di una certa impostazione precipitosa e melodrammaticità di toni. Eppure "Il Castello di Otranto" resta una lettura quasi obbligata per chi vuole conoscere le più profonde radici della letteratura del terrore.


(*) Nota di Lunaria: Gli appassionati di tragedie rivedranno in Manfredi i tratti tipici dei personaggi di Vittorio Alfieri e del suo concetto di tirannide.

(**) Anche Ann Radcliffe ambienta il suo capolavoro, "L'italiano o il confessionale dei penitenti neri" in Italia, a Napoli.

(***) Si ricordino lo Streben,  il Titanismo e il Sublime. Inoltre, si tenga presente che Walpole era amico di Thomas Gray.

Comunque, elementi horror e splatter erano già ravvisabili in alcune pagine di de Sade, vedasi "La Nouvelle Justine" (in versione integrale, possibilmente)

Così come anche in Vincenzo Monti apparivano fantasmi avvolti in sudari insanguinati, vedi l'"Aristodemo":

Aristodemo: "Ebben: sia questo adunque l'ultimo orror che dal mio labbro intendi. Come or vedi tu me, così vegg'io l'ombra sovente della figlia uccisa; ed, ahi, quanto tremenda!
Allor che tutte dormon le cose, ed io sol veglio e siedo al chiaror fioco di notturno lume; ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro starmi d'incontro,
ed occupar la porta minaccioso e gigante.
Egli è ravvolto in manto sepolcral, quel manto stesso onde Dirce [è il nome della figlia uccisa da Aristodemo, nota di Lunaria] coperta era quel giorno che passò nella tomba.
I suoi capelli, aggruppati nel sangue e nella polve, a rovescio gli cadono sul volto, e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido volgo altrove la fronte;
e me 'l riveggo seduto al fianco.
Mi riguarda fiso, ed imobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome e piovendone sangue, apre la veste, e squarciato m'addita, ahi vista! Il seno di nera tabe
[sangue] ancor stillante e brutto.
Io lo respingo; ed ei più fiero incalza, e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro traverso i fianchi e mi trascina a' piedi di quella tomba,
e "Qui t'apetto" grida, e ciò detto, sparisce."

o anche in qualche sonetto cinquecentesco di un autore come Luigi Tansillo, che per esempio in queste sue poesie vagheggiava un Sublime quasi estatico per le rovine:

Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)

(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti


"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."

Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.


Qui di seguito, qualche stralcio dell'opera


(Titolo originale: "The Castle of Otranto, a Gothic Story")

Capitolo Primo

Manfredi, principe di Otranto, aveva un figlio e una figlia: quest'ultima, una vergine di rara bellezza, aveva diciotto anni e si chiamava Matilda. Corrado, il figlio, di tre anni più giovane, era un fanciullo pallido e malaticcio, di natura tutt'altro che promettente; eppure era il prediletto del principe, che non aveva mai mostrato alcun segno d'affetto per Matilda. Manfredi aveva combinato per suo figlio un matrimonio con Isabella, figlia del marchese di Vicenza, la quale era già stata consegnata dai suoi tutori nelle mani di Manfredi, così che le nozze potessero venir celebrate non appena la salute cagionevole di Corrado lo avesse permesso. L'impazienza di Manfredi riguardo alla cerimonia era stata notata dai familiari e dai vicini. I familiari, in verità, timorosi del carattere severo del principe, non osavano dar voce alle proprie supposizioni circa questa sua urgenza. La moglie Ippolita, un'amabile gentildonna, si arrischiava a volte ad accennare ai pericoli di un così precoce matrimonio per il loro unico figlio, considerandone la giovane età e la debolezza del suo corpo; ma non ricevette mai altra risposta se non di biasimo per la sua stessa sterilità, poichè ella aveva dato al principe un solo erede. Gli affittuari e i sudditi erano meno cauti nei loro ragionamenti: essi attribuivano queste nozze affrettate al terrore del principe di vedere compiuta un'antica profezia, che si diceva fosse stata pronunziata, ovvero Che il Castello e la signoria di Otranto sarebbero stati perduti dall'attuale famiglia, allorché il vero padrone diverrà troppo grande per abitarvi. Era difficile venire a capo di questa profezia, e ancora meno facile comprendere cosa avesse a che fare con il matrimonio in questione. Ma quei misteri, o contraddizioni, non impedirono al popolo di rimanere attaccato alle proprie credenze.
Lo sposalizio del giovane Corrado venne fissato per il giorno del suo compleanno. Gli ospiti erano riuniti nella cappella del castello, e ogni cosa era pronta per l'inizio del divino ufficio, ma Corrado ancora non compariva. Manfredi, insofferente del minimo ritardo, non avendo scorto il figlio ritirarsi, inviò uno dei suoi attendenti a cercare il giovane principe. Il servo non stette via neppure il tempo necessario per attraversare la corte antistante l'appartamento di Corrado e tornò correndo, senza fiato e sconvolto, gli occhi spalancati e la schiuma alla bocca. Non parlava, ma indicava il cortile. L'assemblea fu presa dal terrore e dallo stupore. La principessa Ippolita, senza comprendere cosa fosse accaduto, ma ansiosa per il figlio, svenne. Manfredi, meno preoccupato che incollerito per il procrastinarsi delle nozze, nonché per il folle contegno del domestico, domandò imperioso cosa dunque stesse succedendo. L'uomo non rispose, ma continuò a indicare il cortile; infine, dopo che numerose domande gli vennero rivolte, gridò: "Oh, l'elmo! L'elmo!". Nel frattempo qualcuno degli ospiti era corso nel cortile, donde si udiva un confuso vociare, e urla di orrore e sorpresa. Manfredi, che cominciava a preoccuparsi non vedendo comparire il figlio, si mosse egli stesso per appurare che
cosa avesse cagionato quella strana confusione.
Matilda rimase indietro, curando di assistere sua madre; Isabella restò con lei per lo stesso motivo, e per evitare di mostrare la propria impazienza nei confronti dello sposo, per il quale, invero, non aveva concepito grande affetto.
La prima cosa che Manfredi vide fu un gruppo di servi che tentavano di sollevare un oggetto che gli apparve come una montagna di fosche piume. Rimase a fissarla senza credere ai suoi occhi.
"Cosa state facendo?" gridò Manfredi adirato. "Dov'è mio figlio?"
Un profluvio di voci rispose: "Oh, mio signore! Il principe, il principe! L'elmo!". Scosso dalle grida lamentevoli e timoroso non sapeva bene di cosa, avanzò affrettatamente. Ma quale spettacolo per gli occhi di un padre! Scorse suo figlio squartato e quasi sepolto sotto un enorme elmo, cento volte più grande di qualunque casco mai destinato a essere umano, e ricoperto da una quantità altrettanto enorme di piume nere.
L'orrore della scena, l'ignoranza di tutti circa il modo in cui tale sciagura fosse capitata, e soprattutto lo straordinario fenomeno di cui egli stesso era testimone, tolsero la parola al principe. Egli fissò gli occhi su quel che invano desiderava fosse null'altro che una visione, ma sembrava meno intento a riflettere sulla perdita del figlio, che non assorto in contemplazione dello straordinario oggetto che l'aveva cagionata.
Toccò ed esaminò l'elmo fatale; né i resti laceri e sanguinanti del giovane principe poterono stornare lo sguardo di Manfredi dal portento che si ergeva dinanzi a lui. Tutti coloro che avevano conosciuto la sua speciale predilezione per il giovane Corrado rimasero tanti sorpresi per l'insensibilità del loro principe, quanto sbalorditi essi stessi dal miracolo dell'elmo. Trasportarono il cadavere sfigurato nella sala, pur senza riceverne l'ordine da Manfredi. Parimenti, egli non mostrò alcun riguardo per le dame che erano rimaste nella cappella. Al contrario, non pensando minimamente alle infelici principesse, sua moglie e sua figlia, le prime parole che pronunziò furono: "Prendetevi cura della signora Isabella".
I domestici, senza avvedersi della stranezza di quel comando, furono indotti dal loro affetto per la padrona a considerarlo come specialmente rivolto alla condizione di quest'ultima, e si affrettarono a soccorrerla. L'accompagnarono alla sua stanza più morta che viva, indifferente a tutte le strane circostanze udite, fuorché alla morte del figlio. Matilda, la quale amava sua madre alla follia, represse il proprio dolore e stupore e non pensò che ad assistere e confortare l'afflitta genitrice. Isabella, che veniva trattata da Ippolita come una figlia, e che ne ricambiava la tenerezza con pari ubbidienza e affetto, era non meno piena di attenzioni per la principessa; al contempo curava di condividere e di alleggerire il peso del dolore che vedeva soppresso a fatica in Matilda, per la quale aveva concepito un cordiale sentimento d'amicizia. Del resto la sua propria condizione non poteva fare a meno di occupare i suoi pensieri. Non era affatto preoccupata per la morte del giovane Corrado, non provava che commiserazione per lui, e non le spiaceva di trovarsi liberata da una vita coniugale che non prometteva felicità, né da parte dello sposo a lei destinato, né da quella dell'austero Manfredi: il quale, sebbene l'avesse fatta oggetto di grande indulgenza, riempiva il suo animo di terrore per l'immotivato rigore con cui usava trattare delle adorabili principesse quali Ippolita e Matilda.
Mentre le donne accompagnavano la madre affranta al suo letto, Manfredi rimase nel cortile, osservando l'infausto elmo, incurante della folla che la singolarità dell'evento gli aveva radunato intorno. Le brevi frasi che pronunciò servirono unicamente a informarsi se c'era qualcuno che sapeva donde fosse mai venuto l'elmo. Nessuno poté fornirgli la minima indicazione. Comunque giacché sembrava essere quello l'unico oggetto della sua curiosità, presto lo divenne anche per il resto degli spettatori, le cui congetture erano tanto assurde e improbabili quanto la catastrofe stessa era senza precedenti. In mezzo alle tante insensate supposizioni, un giovane contadino, che il clamore aveva attirato al castello da un villaggio vicino, osservò che l'elmo miracoloso era del tutto simile a quello della statua di marmo nero di Alfonso il Buono, uno dei principi antenati, nella chiesa di san Nicola. "Furfante! Che dici?", gridò Manfredi, scuotendosi dalla sua indolenza in una tempesta d'ira, e afferrando il giovane per il bavero; "Come osi pronunciare una simile perfidia? Pagherai con la vita". Gli spettatori, per i quali il motivo della furia del principe era altrettanto incomprensibile quanto tutto il resto, non sapevano come spiegarsi questa nuova circostanza. Il giovane contadino era egli stesso ancor più stupito, non capacitandosi di come aveva potuto offendere il principe: ma riprendendosi, con grazia e umiltà insieme si divincolò dalla stretta di Manfredi, e poi, con un'ubbidienza che rivelava più gelosia della propria innocenza che non spavento, egli chiese con rispetto di cosa fosse colpevole. Manfredi, irritato dal vigore, per quanto impiegato con decenza, col quale il giovane si era liberato dalla sua stretta, più di quanto non fosse placato dalla sua sottomissione, ordinò ai suoi attendenti di afferrarlo, e, non fosse stato trattenuto dagli amici che egli aveva invitato alle nozze, avrebbe pugnalato il contadino mentre ancora era sorretto da quelli.
Durante l'alterco alcuni degli spettatori erano corsi alla grande chiesa che sorgeva nei pressi del castello, e ritornarono a bocca spalancata, annunziando che dalla statua di Alfonso mancava l'elmo. Manfredi, udita la notizia, divenne assolutamente furioso: e, come se cercasse un soggetto su cui sfogare la tempesta che gli ruggiva dentro, si scagliò nuovamente contro il giovane contadino, urlando: "Furfante! Mostro! Stregone! Sei tu che hai ammazzato mio figlio!". La folla, che pure cercava un oggetto alla sua portata su cui poter riversare i confusi ragionamenti di poc'anzi, afferrò le parole dalle labbra del padrone, e ripeté a mo' di eco: "Sì, sì, è lui: ha rubato lui l'elmo dalla tomba del buon Alfonso, e ci ha spaccato il cranio del nostro giovane principe", senza considerare l'enorme sproporzione tra l'elmo di marmo che si trovava nella chiesa, e quello d'acciaio troneggiante dinanzi ai loro occhi; e senza avvedersi di come fosse impossibile per un giovane, apparentemente sotto i venti anni, bradire un pezzo d'armatura dal peso tanto prodigioso.
La stravaganza di tali esclamazioni fece tornare in sé Manfredi. Eppure, sia che fosse stato contrariato dalla osservazione del contadino riguardo la somiglianza tra i due elmi e dalla susseguente scoperta della scomparsa di quello della chiesa, sia che desiderasse mettere a tacere ulteriori dicerie al fondo di una tale impertinente supposizione, con voce grave dichiarò che il giovane era certamente un negromante, e che fino a quando la chiesa non avesse preso atto dell'affare egli avrebbe tenuto il mago, che era stato così scoperto, prigioniero sotto l'elmo. Comandò ai suoi attendenti di sollevare l'elmo, e di spingere il giovane sotto di esso, stabilendo che lo si sarebbe tenuto lì senza cibo, dal quale la sua stessa arte infernale l'avrebbe provvisto.
Invano il giovane protestò contro l'assurda sentenza; invano gli amici di Manfredi tentarono di dissuaderlo dalla decisione crudele e infondata. La maggioranza era ammirata dalla risoluzione presa dal loro signore, che secondo la loro comprensione aveva un'apparenza di somma giustizia, poiché il mago sarebbe stato punito per mezzo dello stesso strumento col quale aveva commesso il reato. Né provarono alcuna remora riguardo alla probabile morte d'inedia del giovane, giacché credevano fermamente che questi fosse in grado di procurarsi facilmente del cibo ricorrendo alle sue diaboliche capacità.
Manfredi vide così che i suoi comandi venivano eseguiti persino di buon animo. E impartito a una guardia l'ordine rigoroso di evitare che alcuna pietanza fosse servita al prigioniero, congedò i suoi amici e attendenti, e si ritirò nella sua stanza, dopo aver chiuso a chiave i cancelli del castello, nel quale non permise a nessuno di trattenersi eccetto i domestici.
Nel frattempo, grazie alla cura e allo zelo delle giovani donzelle, la principessa Ippolita era rinvenuta, e nel trasporto del proprio dolore chiedeva ripetutamente notizie del suo signore, e voleva che i suoi attendenti si recassero a soccorrerlo; infine comandò a Matilda di lasciarla per far visita al padre e confortarlo. Matilda, che non gradiva l'incombenza di mostrare a Manfredi il proprio affetto, quando invece tremava per la sua severità, eseguì comunque gli ordini di Ippolita, che raccomandò teneramente a Isabella.


Altri approfondimenti: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/il-romanzo-nero-1-horace-walpole-e.html

Altro approfondimento tratto da


L'importanza del "Castello di Otranto" non deriva soltanto dall'eccezionale interesse dell'intreccio, ma dal suo essere il primo tentativo moderno di costruire una piacevole storia d'invenzione sulle basi dell'antico romanzo cavalleresco. Lo stato di oblio e discredito in cui queste venerabili leggende caddero cominciò fin dal regno della regina Elisabetta, durante il quale il mondo fatato di Spenser veniva apprezzato più per l'interpretazione mistica e allegorica che per il semplice, ovvio significato della rappresentazione cavalleresca.
Il teatro, che subito dopo fiorì, e le traduzioni degli innumerevoli romanzieri italiani, fornirono alle classi più alte il divertimento che i loro padri avevano tratto dalla lettura delle leggende di "Don Belianìs" e dello "Specchio della Cavalleria"; e i grossi tomi che furono il passatempo di nobili e principesse, ripuliti di tutti i fronzoli e condensati in compendi, furono banditi e relegati nelle cucine, nelle camerette dei bambini o nella migliore delle ipotesi, nelle librerie di antiquati manieri di campagna. Durante il regno di Carlo II, il gusto prevalente per la letteratura francese impose l'introduzione di noiosissimi in folio, le opere di Calprenède e Scudéry, una via di mezzo tra l'antico racconto cavalleresco e il romanzo moderno. Questa fusione fu così mal concepita che essi mantennero l'insopportabile prolissità delle opere cavalleresche in prosa, gli stessi resoconti dettagliati di combattimenti, ripetuti senza variazione alcuna, gli stessi innaturali e stravaganti colpi di scena, priva di quei ricchi, sublimi tocchi geniali e di quella forza immaginifica che spesso caratterizzava le opere precedenti; esibendo al contempo tutto il languore sentimentale e gli scontati intrighi amorosi del romanzo moderno, senza tuttavia ravvivarli con la varietà dei personaggi o con un'acuta analisi dei sentimenti e della realtà.
Tale insensata forma narrativa rimase in auge più a lungo di quanto ci si sarebbe aspettato solo perché queste opere venivano definite "di intrattenimento" e non c'era nulla che potesse prenderne il posto. Persino ai tempi dello "Spectator" "Clelia", "Cleopatra", "Grand Cyrus" erano i compagni segreti che il gentil sesso prediligeva. Ma tale gusto innaturale cominciò a venir meno all'inizio del Settecento; a metà del secolo era già completamente superato dalle opere di Le Sage, Richardson, Fielding e Smollett; e così lo stesso termine "romanzo cavalleresco", al giorno d'oggi tanto venerabile all'orecchio di antiquari e collezionisti di libri, era ormai pressoché dimenticato quando il "Castello di Otranto" fece la sua comparsa.
La peculiare situazione di Horace Walpole, il geniale autore di quest'opera, era tale da indurlo a prediligere quello che può essere definito "stile gotico", termine che egli contribuì non poco a salvare dalla pessima reputazione in cui era caduto, se si considera che prima dei suoi tempi veniva utilizzato correntemente per indicare qualsiasi cosa fosse in palese e completa opposizione alle regole del buon gusto.
Walpole era figlio di quel celebre ministro che tenne le redini del governo per due regni successivi, con un piglio così fermo e autoritario che il suo potere parve essere tutt'uno con i diritti della dinastia dei Brunswick.
In una situazione del genere, i suoi figli dovevano necessariamente condividere i privilegi ella corte, come accade ai familiari di chiunque goda del favore dello Stato. Al senso di importanza che tali privilegi gli conferirono va aggiunta l'antica abitudine di associare gli interessi di sir Robert Walpole, e gli affari privati della sua famiglia, a quella della famiglia reale d'Inghilterra, e ai mutamenti negli affari pubblici europei.
Non c'è da stupirsi, dunque, se l'animo di Horace Walpole, naturalmente incline a un certo amore per lo status e ad attribuire grande valore agli onori famigliari, sia stato confermato in questa sua disposizione dalle circostanze che sembravano legare a doppio filo il destino della sua casata a quello dei principi, aggiungendo ai blasoni dei Walpole, degli Shorter e dei Robsart, da cui egli discendeva, una dignità sconosciuta ai loro precedenti possessori.
Se mai Walpole sperò di raggiungere una posizione politica eminente utilizzando il nome della propria famiglia a suo vantaggio, la fine del potere del padre, e il cambiamento personale che ne derivò, suscitarono in lui il disgusto per la vita politica, consegnandolo presto a una solitudine letteraria.
Le materie di interesse dei suoi studi erano per la gran parte dettate dal suo modo di pensare e sentire, che agiva su un'immaginazione vivace e una mente acuta, attiva, penetrante, colma delle più diverse conoscenze.
I viaggi che avevano formato il suo gusto per le belle arti, ma soprattutto la sua antica predilezione per la genealogia e il rango avevano influenzato il suo studio di queste materie, connesso a quello della storia gotica e delle antichità.
Le occupazione personali di Walpole, così come i suoi studi, mostrano una predilezione per le antichità inglesi, predilezione all'epoca poco comune.
Egli amava, come disse uno scrittore satirico, "osservare giocattoli gotici attraverso specchi gotici"; se la casa di campagna di Strawberry Hill, che scelse come sua residenza, gradualmente s'ingrandì fino a diventare un castello feudale, con l'aggiunta di torri e torrette, gallerie e corridoi; e le volte ornate di greche, le pareti intagliate e le finestre traforate furono abbellite con blasoni, armature, scudi, lance da giostra e tutto l'armamentario della cavalleria.

Al giorno d'oggi lo stile architettonico gotico è molto diffuso e, in verità, utilizzato in maniera del tutto indiscriminata, al punto che ci si sorprende se la casa di campagna di un commerciante in pensione non esibisce finestre lanceolate, divise da colonnine di pietra e abbellite da vetri dipinti, una credenza a forma di coro di cattedrale e un porcile con la facciata presa in prestito da un'antica cappella.
Ma alla metà del Settecento, quando Walpole cominciò a sfoggiare esempi di stile gotico, e a mostrare come elementi presi da cattedrali e monumenti potessero essere inseriti in caminetti, soffitti, finestre e balaustrate, non lo fece per venire incontro ai dettami della moda del tempo, ma semplicemente seguì il proprio gusto, realizzando le sue visioni nella forma fantastica della villa da lui costruita.
La sua mente era così stipata di informazioni, accumulate studiando l'antichità medievale e ispirate, come egli stesso afferma, dalla forma fantastica della sua abitazione, che Walpole si risolse di dare al pubblico un esempio di stile gotico adattato alla letteratura moderna, come già aveva fatto applicandolo all'architettura moderna.
Come nel suo progetto di una moderna residenza gotica il nostro autore tentò scrupolosamente di conciliare i principi delle comodità, o lusso, moderne, con i ricchi, vari, complicati ornamenti e intarsi della cattedrale antica, allo stesso modo nel "Castello di Otranto" il suo obiettivo fu quello di unire il colpo di scena straordinario e il tono altisonante del mondo cavalleresco tipici del romanzo antico con l'accurata presentazione di caratteri umani e del contrasto di sentimenti e passioni come sono, o dovrebbero essere, delineati nel romanzo moderno.

Ma Walpole, non sapendo quale accoglienza avrebbe ricevuto un'opera tanto nuova nella sua concezione, e forse non volendo cadere nel ridicolo se avesse fallito, presentò "Il Castello di Otranto" al mondo come una traduzione dall'italiano. Non sembra che l'autenticità della narrazione fu mai messa in dubbio.

Il 30 dicembre 1764 Gray scrive a Walpole:

"Ho ricevuto il "Castello di Otranto" e vi porgo i miei ringraziamenti. Ha catturato la nostra attenzione, qui (cioè a Cambridge) e qualcuno di noi ha anche gridato di terrore; in generale, abbiamo tutti paura di andare a dormire, la notte. L'abbiamo presa per una traduzione, e diremmo che è una storia vera, non fosse per san Nicola"

Presto agli amici dell'autore fu consentito di spiare dietro il velo che egli aveva creduto fosse appropriato stendere; e nella seconda edizione, quel velo fu scostato del tutto grazie a una prefazione nella quale le intenzioni e la natura dell'opera sono brevemente commentate e spiegate. Dal passo seguente, tradotto da una lettera all'autore a Madame du Deffand, sembrerebbe che Walpole si fosse pentito di aver abbandonato la propria copertura; e, sensibile alle critiche, come la gran parte degli scrittori dilettanti, fu molto più addolorato per il disdegno di coloro i quali non apprezzarono il suo racconto, piuttosto che lusingato dall'approvazione degli ammiratori.

"Dunque hanno tradotto il mio "Castello di Otranto", probabilmente per metterne in ridicolo l'autore. Così sia. Tuttavia, vi prego di non tenere in alcun conto i loro dileggi. Che i critici facciano come credono: la cosa non mi crea alcun turbamento. Non ho scritto quest'opera per l'epoca presente, che non tollera niente all'infuori del freddo senso comune. Vi confesso, mia cara amica (e mi penserete più folle che mai) che questo è l'unico lavoro di cui io sia soddisfatto: ho dato libero corso alla mia immaginazione fino a infiammarmi con le visioni e i sentimenti che essa ha acceso.
L'ho composto a dispetto delle regole, dei critici e dei filosofi;
ed esso mi sembra di gran lunga il migliore proprio per questa ragione. Sono persino persuaso che, tra un po' di tempo, quando il gusto riprenderà il posto oggi occupato dalla filosofia, il mio povero Castello troverà degli ammiratori: in verità già ve ne sono alcuni tra di noi, dal momento che sto dando alle stampe la terza edizione. Non ve lo dico per mendicare la vostra approvazione.
Fin dall'inizio vi dissi che non avreste apprezzato il libro - la vostra immaginazione è di tutt'altro genere. Non mi dispiace che il traduttore abbia pubblicato la seconda prefazione; tuttavia ritengo che la prima si accordi meglio allo stile della narrazione.
Desideravo che fosse ritenuto antico, e quasi tutti lo credettero."

Tuttavia, se il plauso del pubblico fu attenuato da voci critiche in misura sufficiente da mettere in allarme l'autore, la continua richiesta di edizioni del "Castello di Otranto" mostrò in quale alta considerazione il romanzo fosse tenuto dall'opinione pubblica, e riuscì infine a riconciliare l'autore con il gusto della sua epoca.
Questo romanzo è stato giustamente ritenuto non solo il modello di un particolare genere compositivo, ma una delle opere esemplari della nostra letteratura di intrattenimento.
Alcune considerazioni sia sul libro stesso sia sul genere a cui esso appartiene sono state ritenute necessarie per introdurre questa edizione del "Castello di Otranto", che gli editori hanno cercato di realizzare con l'eleganza adeguata alla stima che essi nutrono per l'opera e il genio dello scrittore.
Sarebbe ingiusto nei confronti della memoria dell'autore asserire che tutto ciò a cui egli aspirava nel "Castello di Otranto" era "l'arte di provocare sorpresa e orrore", o in altre parole, il ricorso a quel segreto, riservato sentimento di amore per il meraviglioso e il soprannaturale, che alberga in un angolo recondito del cuore di tutti noi. Fosse stato questo l'unico suo scopo, i mezzi con cui avrebbe cercato di conseguirlo potrebbero essere giustamente definiti goffi e puerili.
Ma il fine di Walpole era molto più difficile da raggiungere.
Il suo obiettivo era quello di tratteggiare un quadro della vita domestica e dei costumi dell'epoca feudale il più possibile fedele, e dipingerlo movimentato e turbato dall'azione del meccanismo soprannaturale, quale poteva essere in quell'epoca la superstizione, ritenuta materia di devota credulità.
Le parti realistiche della narrazione sono congegnate in modo tale da fondersi con gli eventi meravigliosi; e, grazie alla forza di questa fusione, rendono tali speciosa miracula singolari e impressionanti, sebbene la nostra fredda razionalità li ritenga impossibili.
In verità, per produrre in una mente istruita anche la minima parte di quella sorpresa e paura che si fondano su eventi soprannaturali, la struttura e il tenore dell'intera storia devono armonizzarsi perfettamente con questa prima ragione d'interesse.
Colui al quale in gioventù sia accaduto di trascorrere la notte, solo, in una delle poche magioni antiche che la moda dei tempi moderni non ha ancora spogliato degli arredi originali, probabilmente avrà ben presente le gigantesche, assurde figure che si intravedono a malapena nella tappezzeria rovinata, il remoto clangore di porte distanti che sembrano isolarlo dalla società dei vivi, la profonda oscurità che avvolge gli alti soffitti decorati della stanza, le immagini fiocamente illuminate di antichi cavalieri, rinomati per il loro valore, e forse per i loro crimini, i vari e indistinti suoni che turbano la silenziosa desolazione di una magione semideserta; e, a coronare il tutto, quel sentimento che ci riporta all'epoca del potere feudale e della superstizione papale; costui avrà ben presente come tutto contribuisca a risvegliare una sensazione di timore soprannaturale, per non dire di terrore.
è in tali situazioni, quando la superstizione diventa contagiosa, che noi ascoltiamo con rispetto, quasi con spavento, le leggende che nella luce abbagliante del giorno e in mezzo ai suoni indistinti e alle immagini della quotidianità non sono che un innocuo svago.
Ora, sembra che lo scopo di Walpole fosse quello di ottenere, per mezzo della minuziosa accuratezza di una fiaba, tratteggiata con una particolare attenzione ai costumi del periodo in cui la scena era ambientata, quella stessa associazone mentale in grado di preparare il lettore a ricevere prodigi consoni al credo e ai sentimenti dei personaggi.
Il tirannico feudatario, la fanciulla addolorata, il rassegnato eppure dignitoso uomo di chiesa, il castello stesso, con il suo spiegamento di prigioni sotterranee, botole, cappelle, gallerie, duelli, processioni, cavalieri e combattimenti, in breve, la scena, gli attori e l'azione, per quanto siano realistici, si accompagnano ad aspetti ed eventi prodigiosi, e hanno sulla mente del lettore il medesimo effetto che l'aspetto e gli arazzi di una stanza quale abbiamo descritta può produrre in un ospite occasionale. Questo era un compito che, per essere eseguito, richiedeva non poca erudizione, una fantasia non ordinaria, una genialità non comune. 
L'associazione mentale di cui abbiamo parlato è di una natura particolarmente delicata, incline a indebolirsi e spezzarsi. è praticamente impossibile costruire una struttura gotica moderna in grado di impressionarci con i sentimenti che abbiamo provato a descrivere. Può essere grandiosa oppure tetra; può ispirare idee di magnificenza o malinconia: ma senz'altro non sarà in grado di causare quella sensazione di timore soprannaturale quale si prova nei saloni in cui riecheggiarono le grida di generazioni remote, e che furono calpestati da coloro che sono morti da tempo.
Eppure Horace Walpole è riuscito a raggiungere nella composizione ciò che, come architetto, deve aver valutato al di là delle possibilità della propria arte.
L'epoca remota e superstiziosa in cui la scena è ambientata, la maestria con la quale ha allestito le sue decorazioni gotiche, il tono sostenuto e, in generale, dignitoso dei costumi, ci predispongono a poco a poco ad accettare prodigi che, pure non potendo accadere in alcuna epoca, erano conformi alle credenze popolari nel periodo in cui l'azione si svolge.
Lo scopo dell'Autore, dunque, non era solo quello di provocare sorpresa e terrore introducendo un agente soprannaturale, ma di infiammare i sentimenti del lettore fino a quando, per un momento, si identificassero con quelli di un'epoca più rude, che "devotamente ritiene vera ogni storia strana".
La difficoltà di ottenere una tale accuratezza nella descrizione può essere facilmente valutata se si paragona il "Castello di Otranto" alle opere meno riuscite degli scrittori successivi; in queste ultime, nel tentativo di assumere il tono dell'antico mondo cavalleresco, accade sempre, a ogni capitolo, qualcosa di talmente incongruo che subito abbiamo l'impressione di una mascherata mal arrangiata, nella quale fantasmi, cavalieri erranti, maghi e fanciulle indossino costumi presi a nolo dallo stesso negozio in Tavistock Street.
Un particolare degno di nota distingue Walpole dai più illustri tra i suoi successori.
Il racconto romanzesco è di due generi: quello che, essendo di per se stesso verosimile, può essere considerato realistico in qualsiasi periodo; e quello che, sebbene ritenuto impossibile in epoche più illuminate, era tuttavia conforme alla credenze dei tempi antichi.
Il soggetto del "Castello di Otranto" appartiene al secondo genere.

La signora Radcliffe, un nome che non può essere citato senza il rispetto dovuto al genio,
è riuscita a creare un compromesso tra questi due diversi stili narrativi, fornendo, negli ultimi capitoli dei suoi libri, una spiegazione naturale ai prodigi che vi accadono.
Ogni evoluzione del romanzo gotico ha sollevato molte obiezioni, cosicché siamo anche noi inclini a preferire perché più semplice e d'effetto, la narrativa di Walpole, che racconta gli accadimenti soprannaturali così come li avrebbero vissuti e creduti nel XI o XII secolo.
Innanzitutto, il lettore si indigna nello scoprire di essere stato indotto con l'inganno a provare terrore per eventi che alla fine si rivelano determinati da cause banali; e l'interesse di una seconda lettura è completamente rovinata da quanto gli viene svelato alla fine della prima.
In secondo luogo, la precauzione di sollevare il nostro spirito dall'influenza di tale presunto terrore soprannaturale pare superflua in un'opera di finzione narrativa.
Infine, questi surrogati dell'agente soprannaturale sono spesso totalmente inverosimili, tanto quanto i meccanismi che sono chiamati a spiegare e a sostituire.
Il lettore, a cui è richiesto di credere ad un intervento del soprannaturale, capisce perfettamente cosa si vuole da lui; e, se si tratta di un lettore raffinato, si predispone all'atteggiamento mentale più adatto ad assecondare l'inganno preparato per intrattenerlo, sostenendo, per tutta la durata della lettura, le premesse da cui la favola dipende.
Ma se l'Autore volontariamente si impone di chiarire ogni evento fantastico che ha introdotto nel racconto, abbiamo il diritto di aspettarci che la spiegazione sia naturale, semplice, ingegnosa e completa. I lettori di questo genere di narrativa ricorderanno di certo casi in cui le spiegazioni di circostanze misteriose si sono dimostrate altrettanto, anzi, addirittura più incredibili che se fossero state giustificate dall'azione di un essere soprannaturale. Perché anche i più scettici devono ammettere che l'influenza di tali agenti è più plausibile di quanto non lo sia un effetto simile prodotto da una casa inadeguata. Ma non è necessario soffermarci ulteriormente su questo argomento, che è stato toccato solo per difendere il nostro Autore dall'accusa di aver congegnato la storia più goffamente di quanto la natura del racconto avrebbe richiesto.
L'audace asserzione della reale esistenza di fantasmi e apparizioni sembra accordarsi più naturalmente con i costumi dei tempi antichi e produce un effetto più potente sulla mente del lettore di qualsiasi tentativo di conciliare la credulità superstiziosa dell'epoca feudale con lo scetticismo filosofico della nostra, riconducendo quei prodigi all'azione di polveri esplosive, specchi sistemati ad arte, lanterne magiche, botole, trombe parlanti e altri simili congegni della fantasmagoria germanica.
Tuttavia  non si può negare che le caratteristiche dell'impianto soprannaturale del "Castello di Otranto" siano passibili di critiche. La sua azione e interferenza è troppo frequente e, nella mente del lettore, fa leva con troppa forza e costanza sulle stesse emozioni, con il rischio di diminuire la tensione della molla sulla quale dovrebbe agire. La paura che un moderno lettore di racconti fantastici può provare è molto indebolita dallo stile di vita e dall'educazione odierni. I nostri antenati erano in grado di meravigliarsi e spaventarsi perdendosi lungo i labirinti di un interminabile poema che raccontasse del mondo delle fate e di incantesimi, opera, fose, di un "poeta comune, la cui mente candida credeva ai magici portenti che egli cantava". (William Collins "Ode in the Popular Superstitions of the Highlands of Scotland", 1749)
Ma noi abbiamo costumi, sentimenti, credenze diversi e ciò che anche la mente più immaginifica al giorno d'oggi riesce a provare di fronte a un racconto fantastico non è che una fugace, seppur vivida, impressione.
Servendosi troppo frequentemente di prodigi, forse Walpole corse il grosso rischio di risvegliare la raison froide, quel freddo senso comune che giustamente egli considerava il peggior nemico dell'effetto che sperava di produrre.
Si deve inoltre aggiungere che gli eventi soprannaturali accadono in una fin troppo vivida luce del giorno, e sono delineati con un estremo grado di precisione e accuratezza.
Una misteriosa oscurità sembrerebbe senz'altro più adatta, per non dire essenziale, alla nostra idea di spiriti incorporei, e le gigantesche membra del fantasma di Alfonso, così come sono descritte dai domestici terrorizzati, sono in un certo senso troppo precise e corporee per essere in grado di produrre i sentimenti che la loro apparizione dovrebbe provocare. Tuttavia questo difetto, ammesso che lo sia, è più che compensato dal grande valore di molti degli avvenimenti meravigliosi del romanzo.
L'uscita dal ritratto dell'antenato di Manfredi, sebbene rasenti la bizzarria, è finemente introdotta, e interrompe un interessante dialogo creando un effetto straordinario. Abbiamo sentito dire che la figura animata avrebbe dovuto essere una statua piuttosto che un ritratto.
Il vantaggio del colore ci induce a preferire di gran lunga la scelta di Walpole alla soluzione proposta.
Solo a pochi di noi non è mai capitato di provare, durante l'infanzia, una sorta di terrore di fronte allo sguardo di un antico ritratto che sembrava fissarci da ogni angolazione. è forse un eccesso di pignoleria far notare (particolare al quale ci si aspettava che Walpole, fra tutti i narratori, prestasse attenzione) che al tempo in cui si svolge l'azione, l'XI secolo, il dipinto a figura intera non era ancora stato introdotto.
L'apparizione dello scheletro dell'eremita al principe di Vicenza è stata a lungo considerata un capolavoro dell'orrido; ma da qualche tempo anche la valle di Giosafatte difficilmente riuscirebbe a fornire tutte le ossa necessarie a una tale esibizione di spettri, cosicché questa sconsiderata e ripetuta imitazione ha, in certa misura, danneggiato l'effetto del modello originale.
Ciò che più colpisce nel "Castello di Otranto" è il modo in cui le diverse prodigiose apparizioni, l'una legata all'altra, e tutte legate al realizzarsi di un'antica profezia che annuncia la rovina del casato di Manfredi, ci preparano gradualmente alla catastrofe finale.
La visione al chiaro di luna di Alfonso, dilatata fino a raggiungere proporzioni immense, con gli sbalorditi spettatori in primo piano e le rovine del castello distrutto sullo sfondo, è descritta in maniera concisa e sublime. Non si conoscono altri passi di simile valore, all'infuori dell'apparizione di Fadzean in un'antica poesia scozzese. (1)
Quella parte del romanzo che si basa su passioni e azioni umane è condotta con il talento drammatico che più avanti sarà così notevole nella Madre Misteriosa.
I personaggi sono caratterizzati in modo più generico che individuale, ma questo in un certo senso rispondeva al disegno dell'autore, studiato per fornire una visione d'insieme della società e dei costumi nell'epoca che la sua immaginazione amava contemplare, piuttosto che le più minute sfumature e i tratti distintivi di un carattere in particolare. Ma i protagonisti del romanzo sono tratteggiati in modo strabiliante, con profili ben delineati, indicativi della natura e dell'epoca della storia. La tirannia feudale non fu forse mai meglio rappresentata di quanto avvenga nel personaggio di Manfredi.
Egli possiede il coraggio, l'abilità, la doppiezza, l'ambizione di un condottiero barbaro dei secoli bui, eppure con cenni di rimorso e sentimenti autentici che ci permettono di provare per lui simpatia quando il suo orgoglio viene calpestato e la sua stirpe estinta.
Il monaco pio e la paziente Ippolita contrastano nettamente questo principe egoista e tiranno. Teodoro è il giovane eroe di un racconto romantico, e Matilda ha una dolcezza notevole, più di quanta le eroine di solito posseggano.
Sebbene il personaggio di Isabella sia volutamente tenuto in disparte per far risaltare quello della figlia di Manfredi, pochi lettori si troveranno d'accordo con la rivelazione finale, ovvero che lei andrà in sposa a Teodoro. Questo rappresenta in certa misura un'eccezione alle regole della cavalleria; e, sebbene sia un accadimento naturale nella vita di tutti i giorni, rovina le illusioni magiche del romanzo. Sotto altri aspetti, a eccezione degli incidenti straordinari di un'epoca buia e burrascosa, la storia, per quel che riguarda il corso naturale degli eventi, è felicemente delineata, il suo procedere è uniforme, gli eventi interessanti e ben organizzati, e la conclusione grandiosa, tragica e commovente.

La lingua del "Castello di Otranto" è l'inglese puro, corretto, dei più classici modelli precedenti. Walpole rifiutò, per gusto e per principio, quei pesanti seppur potenti ausiliari che il dottor Johnson aveva mutuato dalla lingua latina, e che da allora si sono rivelati, ai molti sfortunati che hanno provato a usarli, difficili da maneggiare quanto i guantoni di Erice, "et pondus et ipsa huc illuc vinclorum immensa volumina versat"
La purezza della lingua di Walpole e la semplicità della sua narrazione, non ammettono neppure quel rigoglioso, florido, barocco paesaggio con il quale la signora Radcliffe spesso adornava, e molte volte appesantiva, i suoi romanzi.
La descrizione fine a se stessa non compare quasi mai nel "Castello di Otranto"; e se gli scrittori pensassero a quanto questa limitazione aiuti la narrazione sarebbero probabilmente tentati di eliminare quantomeno gli eccessi più appariscenti e prolissi di uno stile consono più alla poesia che alla prosa.
è al dialogo che Walpole riserva la sua forza; ed è notevole come, mentre fa muovere i personaggi mortali con tutta l'arte di un drammaturgo moderno, egli aderisca al tono altisonante del mondo cavalleresco, che caratterizza l'epoca dell'azione.
Questo risultato non è ottenuto infarcendo la narrazione e i dialoghi di termini che necessitano di un glossario, o per mezzo di una fraseologia antiquata, ma avendo cura di escludere tutto ciò che possa generare associazioni di tipo moderno. Nel primo caso, il suo romanzo sarebbe sembrato un abito moderno ridicolmente decorato con ornamenti antichi; nella sua forma attuale, egli ha conservato la struttura dell'armatura antica, ma non la ruggine e le ragnatele. A testimonianza di quanto appena affermato, ricordiamo il primo dialogo di Manfredi con il principe di Vicenza, in cui i costumi e il linguaggio del mondo cavalleresco sono finemente tratteggiati così come il turbamento di un colpevole che sa di essere e si confonde cercando di giustificarsi, anche di fronte a un accusatore muto. I personaggi dei domestici non sono stati considerati all'altezza del resto della storia. Ma riguardo a ciò l'autore ha già spiegato le proprie ragioni nella prima prefazione del libro.
Dobbiamo soltanto aggiungere che se Horace Walpole, pioniere di questo genere letterario, è stato superato da alcuni suoi epigoni nell'uso di descrizioni brillanti e forse, nell'arte di mantenere la mente del lettore in uno stato di febbrile e ansiosa suspense mediante una lunga e complicata narrazione, egli avrà sempre molti meriti, oltre a quello dell'originalità e dell'inventiva. Il plauso per la purezza e la precisione dello stile, per la felice fusione di elementi soprannaturali e interessi umani, per il tono dei costumi feudali e del linguaggio, sostenuti da personaggi delineati con chiarezza e ben differenziati, e per l'unità dell'azione, che alternza scene avvincenti a scene grandiose; il plauso, infine, che non può essere negato a chi sappia suscitare sentimenti quali la paura e la compassione: questo deve essere tributato all'autore del "Castello di Otranto".

(1) Questo spettro, il fantasma di un seguace assassinato per sospetto di tradimento, apparì a una persona del calibro di Wallace, l'eroe nazionale di Scozia, nell'antico castello di Gask-Hall.

Luigi Tansillo



Tratto da



Un autore che mi è piaciuto molto, nella sua descrizione dei paesaggi "Strane rupi, aspri monti, alte tremanti ruine..."

E freddo è il fonte, e chiare e crespe ha l'onde
e molli erbe verdeggian d'ogn'intorno (1),
e 'l platano coi rami e 'l salce, e l'orno
scaccian Febo (2), che il crin talor v'asconde:
e l'aura appena le più lievi fronde
scuote; sì dolce spira al bel soggiorno [...]

(1) Dappertutto, lungo le rive
(2) Il Sole


Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)

(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti


"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."

Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.



Edgar A. Poe: le poesie più belle e commento ai Racconti



Intraprendere un discorso su Poe senza essere condizionati dal ritratto "maudit" che ne è stato fatto non è impresa facile: a partire dai suoi contemporanei, da Baudelaire a Rimbaud e ai parnassiani francesi, per giungere alle innumerevoli versioni cinematografiche in cui spesso è  mischiato ai suoi allucinati personaggi, il poeta e narratore di Boston ha dovuto subire i riflessi di una reputazione che egli stesso ha contribuito ad avvalorare. Ed effettivamente, nella sua vita, troviamo gli spunti di molti temi che caratterizzano la sua opera: la sua infanzia travagliata, per esempio. L'uso pressoché costante della prima persona dell'"io narrante" è un segnale da non sottovalutare: lo scrittore-personaggio vive in solitudine il proprio dramma, tutt'al più alla presenza di un testimone che però risulterà muto e inutile ("Il crollo della casa di Usher"). Per questa sua filosofia, Poe risulta estraneo al generale clima di ottimismo così vivo negli Stati dell'Unione; egli non ha "fiducia nella perfettibilità umana o delle nozioni di uguaglianza, progresso e miglioramento". Poe cala invece in atmosfere da incubo al di là della storia e della geografia, i suoi pazzi e i suoi fantasmi.
I racconti, per indicazione dell'Autore stesso, si dividono in grotteschi e fantastici (o "dell'arabesco") più un gruppetto che potremmo dire polizieschi. Nei primi, Poe riprende alcuni dei modelli dell'umorismo americano: le estreme esagerazioni, il gioco di parole, la serietà che maschera la burla fino al "pauroso esagerato nell'orribile" che sfocia nel nero tipicamente inglese e tedesco. Ripercorrere le tappe storiche di questo genere letterario, da "Il Castello di Otranto"  (1764) di Walpole (http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/introduzione-al-castello-di-otranto-di.html), al "Monaco" di Lewis, al "Frankenstein" (1818) della Shelley, passando attraverso la produzione di Hoffmann per giungere ai precedenti americani, quali "Wieland" (1798) di Brown e i "Tales of a traveller" (1824) di Irving, può aiutarci ad inquadrare i racconti di Poe.

Ma certamente il carattere gotico della produzione europea è del tutto ignorato dal narratore americano: le sue storie sono di norma ambientate nel presente, o meglio, non sono databili e la paura nasce all'interno del personaggio, dalla sua mente, dalle sue allucinazioni piuttosto che da sollecitazioni esterne ("Il cuore rivelatore"). E questa paura viene analizzata talmente a fondo che altri sentimenti sono assolutamente secondari. Queste figure si muovono in una sorta di trance da terrore, che rappresenta in molti casi l'inizio della fine ("Il crollo della casa Usher") ma anche l'unica forma di conoscenza a disposizione dell'uomo ("Una discesa nel Maelstrom")




 LE POESIE PIù BELLE

"Spiriti dei morti"

I

La tua anima si troverà da sola
tra i bui pensieri di una grigia lapide.
Non ci sarà nessuno, in tanta follia,
a carpire il tuo segreto in quell'ora.


II

Starai in silenzio in quella solitudine
che non è desolazione, perché allora
ritroverai gli spiriti dei morti
che nella vita ti furono davanti,
ti attornieranno, ed il loro volere
oscurerà il tuo: starai in silenzio.


III

Si acciglierà la notte - benché limpida -
e le stelle non guarderanno giù,
dai loro altissimi troni nel cielo,
dando una luce di speranza agli uomini.

[...]


Testo originale:

"Spirits of the Dead"

I

Thy soul shall find itself alone
'Mid dark thoughts of the gray tomb-stone -
not oone, of alla the crowd, to pry
into shine hour of secrecy


II

Be silent in that solitude,
which is not loneliness - for then
the spirits of the dead who stood
in life before thee are again
in death around thee - and their will
shall overshadow thee: be still.


III

The night - tho' clear - shall frown -
and the stars shall look not down,
from their high thrones in the heaven,
with light like Hope to mortals given -

[...]



"La stella della sera"

Si era in piena estate,
a notte fonda, e pallide
le stelle nelle orbite
brillavano alla luce
più chiara della fredda
luna, dominatrice
dei pianeti - essa in cielo,
i suoi raggi sul mare.
Fissai per un poco
il suo freddo sorriso
- ah, freddo, troppo freddo era per me!
Passò, come un sudario,
una nube lanosa,
ed io a te mi volsi, a te, altera
mia stella della terra,
al tuo lume lontano,
ed il tuo raggio a me era più caro:
perché m'empie di gioia
la parte tanto altera
che tu svolgi nel cielo quando è notte,
ed io amo di più
il tuo fuoco distante
che quella assai più fredda, umile luce.


Testo originale:

"Evening star"

'Twas noontide of summer,
and mid-time of night;
and stars, in their orbits,
shone pale, thro' the light
of the brighter, cold moon,
'mid planets her slaves,
herself in the heavens,
her beam on the waves.
I gaz'd awhile on her cold smile;
too cold - too cold for me -
there pass'd, as a shroud,
a fleecy cloud,
and I turn'd away to thee,
proud Evening Star,
in the glory afar,
and dearer thy beam shall be;
for joy to my heart
is the proud part
thous bearest in Heav'n at night,
and more I admire
thy distant fire,
than that colder, lowly light.


"La terra delle fate"

Valli piene di nebbia, fiumi d'ombra,
boschi simili a nubi, le cui forme
rimangono indistinte per le lacrime
che gocciolano attorno, dappertutto.
Enormi lune sorgono e tramontano
ancora, ancora, ancora,
ogni istante nel corso della notte,
cambiando sempre posizione, sempre,
e spengono la luce delle stelle
col fiato delle loro facce pallide.
Verso la mezzanotte, sul quadrante
lunare, ma più lieve delle altre
(d'una specie che, ad un esame,
fu trovata esser la migliore),
scende giù, sempre più giù, fino a quando
il suo centro si posa sulla vetta
di una montagna, come una corona,
mentre la sua ampia circonferenza
leggermente, con morbidi drappeggi,
si stende sopra i borghi, sui castelli,
dovunque essi si trovino,
e sopra strani boschi, sopra il mare,
sui fantasmi volanti,
su ogni cosa che dorme,
e tutte le ricopre
in un labirinto di luce. E allora
com'è profonda, ah, com'è profonda
la passione di quel loro sonno!
Al mattino si destano
e il velo lunare torna in cielo
con le tempeste che soffiano impetuose,
come quasi ogni cosa,
o come un giallo albatro.
Non si servono più di quella luna
come facevan prima, vale a dire
come una tenda, una tenda inconsueta:
ma poi in un temporale
si sciolgono i suoi atomi,
e le farfalle che a cercare il cielo
si alzano dalla terra, e poi riscendono
(creature insoddisfatte!),
sulle ali tremolanti ne riportano
solamente una goccia.


Testo originale:

"Fairy-Land"

Dim vaes - and shadowy floods -
and cloudy-looking woods,
whose forms we can't discover
for the tears that drip all over.
Huge moons there wax and wane
again - again - again -
every moment of the night -
forever changing places -
and they put out the star-light
with the breath from their pale faces.
About twelve by the moon-dial
one more filmy than the rest,
(a kind which, upon trial,
they have found to be the best)
comes down - still down - and down
with its centre on the crown
of a mountain's eminence,
while its wide circumference
in easy drapery falls
over hamlets, over halls,
wherever they may be -
o'er the strange woods - o'er the sea -
over spirits on the wing -
over every drowsy thing -
and buries them up quite
in a labyrinth of light -
and then, how deep! - O, deep!
Is the passion of their sleep.
In the morning they arise,
and their moony covering
is soaring in the skies,
with the tempests as they toss,
like - almost any thing -
or a yellow Albatross.
They use that moon no more
for the same end as before -
videlicet a tent -
which I think extravagant:
its atomies, however,
into a shower dissever,
of which those butterflies,
of Earth, who seek the skies,
and so come down again
(never contented things!)
have brought a specimen
upon their quivering wings.


"Israfel"

[...] Lassù, tutta tremante,
in alto, al suo apogeo,
la luna innamorata
arrossisce d'amore
e il suo rosso bagliore
indugia ad ascoltare
nel cielo, con le Plèiadi,
le sette stelle rapide.


Testo originale:

"Israfel"

[...] Tottering above
in her highest noon,
the enamoured moon
blushes with love,
while, to listen, the red levin
(with the rapid Pleiads, even,
which were seven),
pauses in Heaven


"La dama addormentata"

è mezzanotte, ed io sto qui, immobile,
sotto la mistica luna di giugno.
Un oppiato vapore rugiadoso
si esala fioco dall'orlo dorato
e grondando leggero, goccia a goccia,
sulla quieta vetta della montagna,
poi discende piano piano [...]
Il rosmarino si piega sulla tomba.
[...] Dorme la dama! Oh, possa il suo sonno
esser profondo come è pertinace.
La tenga il cielo in sua sacra custodia! [...]
Prego Dio ch'ella possa riposare
per sempre, gli occhi chiusi, mentre passano
pallidi spettri accanto a lei, sfiorandola.

Dorme, l'amore mio! Possa il suo sonno
esser profondo come è duraturo!
Striscino lievi attorno a lei i vermi,
laggiù nella foresta antica e oscura,
un'alta tomba possa aprirsi a lei,
un sepolcro che spesso abbia richiuso
i suoi fluttuanti, alati cortinaggi
neri, quasi in trionfo, sugli stemmi
alle esequie della sua stirpe nobile.
Una tomba remota e solitaria [...]


Testo originale:

"The sleeper"

At midnight, in the month of June,
I stand beneath the mystic moon.
An opiate vapour, dewy, dim,
exhales from out her golden rim,
and, softly dripping, drop by drop,
upon the quiet mountain top [...]
The rosemary nods upon the grave.
[...]
The Lady sleeps! Oh, may her sleep,
which is enduring, so be deep!
Heaven have her in its sacred keep! [...]
I pray to God that she may lie
forever with unopened eye,
while the pale sheeted ghosts go by!
My love, she sleeps! Oh, may her sleep,
as it is lasting, so be deep!
Soft may the worms about her creep!
Far in the forest, dim and old,
for her may some tall vault unfold -
some vault that oft hath flung its black
and winged pannels fluttering back,
triumphant o'er the crested palls,
of her grand family funerals -
some sepulchre, remote, alone,
against whose portal she hath thrown,
in childhood, many an idle stone -
some tomb from out whose sounding door
she ne'er shall force an echo more,
[...] It was the dead who groaned within.


"La Valle dell'Inquietudine"

[...] Ah, il vento non scuote quegli alberi
che palpitano come le onde gelide
sulle brumose rive delle Ebridi!
Ah, il vento non sospinge quelle nubi
che strisciano affannose nell'azzurro
irrequieto, dal mattino alla sera,
sulle viole che crescono a miriadi,
in forme così simili a occhi umani,
e sui gigli che ondeggiano piangendo
sopra una tomba senza neanche il nome!
Ondeggiano: e dalle cime fragranti
cadono gocce di una rugiada eterna.
Piangono: lungo i delicati steli
scendono gemme di perenni lacrime.


Testo originale:

"The Valley Of Unrest"

[...] Ah, by no wind those clouds are drive,
that rustle through the unquiet Heaven
uneasily, from morn till even,
over the violets there that wave
and weep above a nameless grave!
They wave: from out their fragrant tops
eternal dews come down in drops.
They weep: from off their delicate stems
perennial tears descend in gems.


"La città nel mare"

[...] Ma una luce dal livido mare
raggiunge silenziosa le torrette,
luccica sui pinnacoli lontani,
su cupole e guglie, su sale regali,
su templi, su mura babiloniche,
su ombrosi pergolati abbandonati
con l'edera scolpita e fiori in pietra,
su innumerevoli, stupendi altari
dai fregi a ghirlanda ove s'intrecciano
la vite, la viola e la violetta.

Rassegnate sotto il cielo ristagnano
acque pervase di malinconia.
Ombre e torrette qui tanto si confondono
che tutto sembra sospeso nell'aria,
mentre da un'alta torre della città
la Morte gigantesca guarda giù. [...]


Testo originale:

"The city in the sea"

[...] But light from out the lurid sea
streams up the turrets silently -
Gleams up the pinnacles far and free
up domes - up spires - up kingly halls -
up fanes - up Babylon-like walls -
up shadowy long-forgotten bowers
of sculptured ivy and stone flowers -
up many and many a marvellous shrine
whose wreathed friezes intertwine
the viol, the violet, and the vine.

Resignedly beneath the sky
the melancholy waters lie.
So blend the turrets and shadows there
that all seem pendulous in air,
while from a proud tower in the town
Death looks gigantically down. [...]


"Peana"

Come si leggerà  il rito funebre?
Come si intonerà il solenne canto,
il requiem per la donna più graziosa
che mai sia morta ancora così giovane? [...]


Testo originale:

"A Paean"

How shall the burial rite be read?
The solemn song be sung?
The requiem for the loveliest dead,
that ever died so young? [...]


"Il verme vincitore"

Ecco infine una serata di gala
dopo gli ultimi anni desolati!
Angeli innumerevoli, avvolti
in veli, sopraffatti dalle lacrime,
siedono in un teatro per vedere
un dramma di speranze e di paure,
mentre l'orchestra sospira irregolare
la musica delle sfere.


Testo originale:

"The conqueror worms"

Lo! 'tiss a gala night
within the lonesome latter years!
An angel throng, bewinged, bedight
in veils, and drowned in tears,
sit in a theatre, to see
a play of hopes and fears,
while the orchestra breathes fitfully
the music of the spheres.


"Lenore"

Là, nella triste bara rigida, giace l'amor tuo,
Lenore!
Vieni, sia letto il rito funebre, sia intonato
il mesto inno!
Alla fanciulla più regale che sia mai morta,
un lamento,
un canto a lei che, morta giovane, doppiamente
è morta, ahimè!


Testo originale:

"Lenore"

See! on yon drear and rigid bier low lies thy
love, Lenore!
Come, let the burial rite be read - the funeral
song be sung!
An anthem for the queenliest dead that ever
died so young -
A dirge for her, the doubly dead in that she died
so young!


"Terra di sogno"

Valli profonde, acque senza fine,
antri, voragini, boschi titanici
e forme che nessuno può distinguere
per le gocce che cadono d'intorno,
monti che si sfaldano e finiscono
perennemente in mari senza rive.
Mari che anelanti si sollevano
senza posa verso cieli di fuoco.

Laghi che si stendono infiniti,
con le loro acque solitarie
- solitarie e morte - calme acque -
calme e gelide al biancore del giglio
che si piega, oscillando, su di esse.

Presso i laghi che così si stendono,
con le loro acque solitarie
- solitarie e morte - tristi acque -
tristi e gelide al biancore del giglio
che si piega, oscillando, su di esse;
presso le montagne, presso il fiume
che mormora sommesso, eternamente;
presso le grige foreste e le paludi
dove dimorano rospi e ramarri;
presso gli stagni e i lugubri laghetti
abitati dagli orridi vampiri;
presso ogni luogo impuro, maledetto,
nei più malinconici recessi;
là il viandante incontra con sgomento
gli spettri del passato, le memorie,
ombre che avvolte nel loro sudario
gemono e trasalgono sfiorandolo,
ombre di amici in bianche vesti, resi
da tempo, in agonia, alla Terra e al Cielo.


Testo originale:

"Dream-Land"

Bottomless vales and boundless floods,
and chasms, and caves, and Titan woods,
with forms that no man can discover
for the dews that drip all over;
mountains toppling evermore
into seas without a shore;
seas that restlessly aspire,
surging, unto skies of fire;
lakes that endlessly outspread
their lone waters - lone and dead -
their still waters - still and chilly
with the snows of the lolling lily.

By the lakes that thus outspread
their lone waters, lone and dead,
their sad waters, sad and chilly
with the snows of the lolling lily,
by the mountains - near the river
murmuring lowly, murmuring ever,
by the grey woods - by the swamp
where the toad and the newt encamp,
by the dismal tarns and pools
where dwell the Ghouls,
by each spot the most unholy
in each nook most melancholy
there the traveller meets aghast
sheeted Memories of the Past -
shrouded forms that start and sigh
as they pass the wanderer by
white-robed forms of friends long given,
in agony, to the Earth and Heaven.


"A Elena"

Ti vidi una volta, una volta sola, anni fa:
non dirò quanti - comunque non molti.
Era una notte di luglio, e dalla luna piena
che, come la tua anima, elevandosi
cercava un ripido sentiero per il cielo,
scese con quiete, afa e sonnolenza,
come un velo di seta argentata, un chiarore
sui visi sollevati di un migliaio di rose,
che abbellivano un giardino incantato
dove il vento osava penetrare solo in punta
di piedi.
Scese sui visi sollevati delle rose,
che ricambiarono quell'amorosa luce
con le loro anime odorose, in un'estasi di morte.
Scese sui visi sollevati delle rose,
che sorrisero e morirono in quel piccolo giardino,
incantati da te, dalla poesia della tua presenza.

Eri vestita di bianco, china su una sponda di viole,
ed io ti vidi, mentre il tenero chiarore della luna
scendeva sui visi sollevati delle rose,
e anche sul tuo, ahimè, sollevato e dolente! [...]


Testo originale:

"To Helen"

I saw once - once only - years ago:
I must not say how many - but not many.
It was a July midnight; and from out
a full-orbed moon, that, like shine own soul,
soaring,
sought a precipitate pathway up through heaven.
There fell a silvery-silken veil of light,
with quietude, and sultriness, and slumber,
upon the upturn'd faces of a thousand
roses that grew in an enchanted garden,
where no wind dared to stir, unless on tiptoe -
fell on the upturn'd faces of these roses,
that gave out, in return for the love-light,
their odorous souls in an ecstatic death -
fell on the upturn'd faces of these roses
that smiled and died in this parterre, enchanted
by thee, and by the poetry on thy presence.

Clad all in white, upon a violet bank
I saw thee half reclining; while the moon
fell on the upturn'd faces of the roses,
and on shine own, upturn'd - alas, in sorrow! [...]


Per un commento al Corvo, vedi: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/commento-ad-edgar-poe-per-la-poesia-il.html
Per la morte di Virginia: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/poe-e-la-morte-di-virginia.html
Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/10/jonathan-latimer-e-poe.html



Un approfondimento sulle traduzioni italiane di E.A.Poe 
dal minuto 54:25 in poi 

ALTRO APPROFONDIMENTI, info tratte da 


Era difficile, il 13 aprile 1844, trovare nelle edicole di New York una copia del "New York Sun": in poche ore il giornale era andato a ruba, esaurendo tutta la tiratura. La causa di questo straordinario successo di vendita era un vistoso annuncio pubblicato sulla prima pagina che attirava immediatamente l'attenzione dei lettori e diceva testualmente queste parole: "STRAORDINARIE NOTIZIE! Per espresso, via Norfolk".
Il colpo del New York Sun non fu né il primo né l'ultimo gesto compiuto da Poe per mettersi in mostra. Ma il suo desiderio di fama, così vivo e bruciante da diventare morboso, non fu mai soddisfatto: strano destino per un uomo il cui primo ricordo cosciente era il suono degli applausi. Era nato il 19 gennaio 1809, tra le quinte di un palcoscenico. Suo padre e sua madre erano attori e soprattutto la madre, Elizabeth Arnold, era conosciuta e acclamata. Benché morisse quando Edgar era piccolo, la sua bellezza e la sua bravura lasciarono un ricordo incancellabile nell'animo del figlio. David Poe, il padre, era invece un alcolizzato e trasmise al figlio il vizio che lo avrebbe stroncato. Rimasto orfano, Edgar fu accolto nella famiglia di un ricco commerciante di Richmond, in Virginia: il signor John Allan, di cui assunse il cognome, pur senza essere stato adottato. Edgar crebbe nella convinzione che tutto gli fosse permesso: disponeva di tutto il denaro che voleva e si abbandonava a ogni sorta di stravaganze, pur di farsi notare.  Ancora non sapeva quali provi lo attendevano nella vita.
Nonostante faccia di tutto per rendersi popolare, il giovane Poe non riesce a "sfondare": l'elegante, orgogliosa società aristocratica di Richmond non vuole accettarlo nei suoi ranghi. Questo rifiuto lo ferisce e gli scava un solco profondo nell'animo: d'ora in poi ci saranno due Edgar: uno che si sente superiore, ambizioso, l'altro che si sente respinto e fallito. Essi si combatteranno tutta la vita dentro di lui: mentre la parte migliore lo spingerà ad impegnarsi, la parte peggiore lo trascinerà nella disperazione e nell'annegare nell'alcool le sue delusioni. La sua condotta si fa sempre più disordinata fino a che viene espulso dall'università; nel 1827 fugge di casa. Inizialmente per tirare avanti si arruola nell'esercito, ma quando sta per diventare ufficiale il "demone del fallimento" entra in azione: Poe commette una serie di gravi mancanze che gli causano l'espulsione; proprio quando sta per avere successo, precipita in basso; rompe tutte le sue amicizie e si fa respingere dalle donne che ama. Successivamente riesce ad entrare come redattore  in un giornale ma quando riesce a farsi apprezzare dai lettori con i suoi racconti del mistero, lascia tutto. Nel 1836 sposa la giovanissima cugina Virginia; riesce a guadagnare abbastanza bene con i suoi racconti polizieschi e questo periodo dura dal 1840 al 1842. Poi cade di nuovo nel baratro dell'alcool e della miseria. Il suo sogno, la creazione di una sua rivista, lo "Stylus" fallisce. Va a New York, collabora a vari giornali, nel 1845 fa uscire il poemetto "Il Corvo" e il secondo volume dei suoi racconti; nel 1847 Virginia muore di tisi. Poe è minato dall'alcool, inizia a girovagare. Muore il 3 ottobre 1849 in una corsia d'ospedale.

L'Opera e l'Arte di Poe

La fama di Poe è legata soprattutto ai "Racconti del Mistero" e "Gordon Pym", la storia di un marinaio imbarcato per un viaggio senza ritorno, che simboleggia la vita secondo Poe: un disperato viaggio verso la morte.
Fra le poesie vanno ricordati il poemetto "Il Corvo"; "Annabel Lee" è una delle poche opere in cui Poe si esprime in tono dolcemente malinconico senza ricorrere a immagini fosche e disperate.





 
 

Commento ad Edgar A. Poe per la poesia ''Il Corvo'

Info tratte da


 "La morte di una bella donna è senza dubbio l'argomento più poetico del mondo", scrive E.A.Poe nella sua "Filosofia della composizione", in cui si propone di spiegare premesse, modalità ed esiti di un processo creativo di tipo poetico.

Per approfondimenti sulla morte di Virginia, vedi: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/poe-e-la-morte-di-virginia.html
vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/10/jonathan-latimer-e-poe.html 

A rendere più concreto e credibile il suo discorso, lo scrittore si sofferma su un poemetto, "Il corvo", con il quale intende dar conto di un'attività che fonda la propria efficacia sulla volontà e sul calcolo. Dovendo commuovere il lettore, eccitarne l'immaginazione e l'emozione, nasce l'idea di materializzare un tono, un'atmosfera, un'indeterminata bellezza, in immagini precise, inserendole in una scenografia e sceneggiatura. Considerato che come scrive il poeta, "La malinconia... è il più legittimo tra tutti i toni poetici" e che la bellezza di una donna morta prematuramente è quanto di più malinconico ci possa essere, immaginare un quadro che rappresenti la pena e il rimpianto di un giovane innamorato, chiuso nella sua scura stanza in una tempestosa notte d'inverno (1), diventa quasi una scelta obbligata. Ed è proprio la necessità di procedere in modo calcolato a richiedere l'ideazione di uno stato di suspense, cioè di un'attesa piena di timore e di ansia metafisica, e la creazione di un personaggio bizzarro, di una specie di naturale simbolo del male cui il giovane si sforza di attribuire il ruolo di messaggero dell'ignoto (2): un corvo capace di parlare, ma non di spingersi oltre un ripetuto "Nevermore" (Mai più). Entrato nella stanza, il nerissimo uccello va ad appollaiarsi sopra un candido busto di Pallade (3), da dove risponde alle diverse domande dell'innamorato con la sua invariabile sentenza "Nevermore", come a rimarcare, in modo meccanico ma chiaro, la definitività della perdita e dell'angoscia, l'inesorabilità della vita e della morte. (4)

Baudelaire, grande estimatore di Poe, ebbe a scrivere che "la sua poesia, profonda e lamentevole, è tuttavia elaborata, pura, corretta e brillante come un gioiello di cristallo". Come ha rilevato Wellek, per Poe "La fantasia non è creativa... la fantasia è sempre una capacità di combinazione". Dunque, alla pura accensione fantastico-emotiva Poe associa l'intervento dell'intelletto nella sua funzione ordinatrice e aggregatrice: "Creare è combinare in modo attento, paziente e comprensivo", chiarisce egli stesso. E la poesia non è altro che "creazione ritmica di bellezza". Ma giacché al ruolo della ragione e al fine della bellezza si congiunge un universo di orrori, deliri, ombre e ossessioni, non si può fare a meno di sentire nel poeta americano l'originaria incandescenza di un magma finito con il solidificasi in roccia. L'eccitazione nervosa, l'inclinazione onirica, il gusto dell'orrido, dello stagnante, dello squallido, del contrasto fra splendore cristallino e oscurità asfittica fanno di Poe un poeta dagli effetti persino superiori a quelli previsti dalla sua programmazione retorica. Al suo senso acuto dell'innocenza e della purezza si sovrappone sempre il doloroso presagio, o il trionfo della morte. Egli, in preda all'ossessione, all'incubo, al tormento, schiavo del limite, sente in sé l'istinto per qualcosa di misticamente superiore. La poesia, come la musica, non offre che "visioni brevi e indeterminate delle gioie divine ed estatiche", che appartengono ad un'altra dimensione, impossibile da penetrare nella vita terrena. L'uomo è perseguitato dall'idea (e dalla concretezza) del disfacimento, della fine, della morte. Questo lo affligge, questo è il suo orrore. Mari immobili, valli inquiete, ombre minacciose, silenzi angosciosi, presenze diaboliche, cadaveri, sudari, vermi, occupano la scena poetica, ponendo la loro macabra ipoteca sulla realtà. (Nota di Lunaria: temi frequenti soprattutto nella poesia barocca del '600) L'esistenza è inquieta, attraversata da brividi di paura, avvolta nel mistero. Razionalismo e misticismo, insieme, sostengono l'estrema rivolta del poeta di fronte alla potenza dell'ignoto e della morte. Ma nel tentativo egli presagisce già lo scacco finale, come dietro un viso incantevole scorge già il teschio. Non gli rimane che la voluttà dell'arte, la melodia del verso, a conforto della pena: la creazione contro la corruzione.

(1) Una fosca mezzanotte meditavo stanco, fiacco/sopra certi strani libri di un sapere ormai/obliato./Sonnecchiavo a testa china/quando udii un lieve battere/[...] Mi ricordo molto bene quel dicembre desolato/il camino proiettava ombre a terra, come/spettri
(2) O profeta, dissi, figlio del maligno, uccello/ o demone/che ti mandi il tentatore o ti porti la tempesta...
(3) Spalancai le imposte...ed ecco, con un forte battere d'ali/entra un Corvo maestoso/...sopra un busto di Minerva, nella stanza, sulla/porta,/si posò e niente più
(4) Certo tutti converranno che nessun mortale mai/ ebbe in sorte di vedere un uccello sulla porta,/un uccello o un'altra bestia sopra il busto, sulla/porta,/ con un tal nome, Mai più/ Ma quel Corvo, appollaiato sulla placida/scultura,/disse solo due parole, come se in/quell'espressione/riversasse tutta l'anima. Tacque, poi, non mosse/piuma




Per un commento critico ai racconti e alle altre poesie, vedi: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/edgar-poe-le-poesie-piu-belle.html




Un approfondimento sulle traduzioni italiane di E.A.Poe 
dal minuto 54:25 in poi