Nel 1811 Walter Scott introducendo l'edizione Ballantyne del "Castle of Otranto", scriveva "Questo romanzo è stato giustamente riconosciuto non solo come il modello originale di un peculiare genere di composizione, ma come uno dei capolavori della nostra letteratura [...] Ma gli scopi di Walpole erano già difficili da raggiungere e più importanti, una volta raggiunti. Il suo obiettivo era tracciare un quadro dei costumi e della vita domestica dell'epoca feudale così come poteva essere stata, dipingendola inquieta e agitata dall'azione del meccanismo soprannaturale [...] Il remoto periodo [un imprecisato Medioevo], ricco di superstizioni, e l'arte con cui ha abbellito i suoi scenari gotici [...] l'intenzione dell'autore, dunque, non era solo di creare sorpresa e terrore, introducendo agenti soprannaturali, ma di vincere i sentimenti del lettore tanto da farli identificare per un attimo con quelli di un'età rozza che riteneva ogni strano racconto devotamente vero".
Giudizio, questo di Scott, forse eccessivo ma tutt'ora sostanzialmente ineccepibile: "The Castle of Otranto" è oggi considerato il capostipite del romanzo gotico, vale a dire il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna. In esso "si trovano riuniti per la prima volta tutti quei procedimenti, temi e personaggi che si combineranno per almeno due generazioni in decine di romanzi. Il gotico diverrà ben presto una moda (anche discutibile), un genere letterario popolare - con gli inevitabili difetti di un genere che nel giro di pochi decenni arriverà a inflazionarsi sensibilmente" (Nota di Lunaria: ma questo vale per qualsiasi cosa. Solitamente qualcosa ha successo, nascono epigoni e cloni che cavalcano l'onda fin tanto che la scena, per le troppe uscite, implode su se stessa - vedi fenomeni come "Twilight", "Tre metri sopra il cielo", "Cento colpi di spazzola...", o musicalmente, il gran trend del Nu Metal, poi imploso su stesso verso il 2004 e oggigiorno del tutto sparito)
Da Clara Reeve alla Radcliffe (la mia preferita. Nota di Lunaria), da William Beckford a Charles R. Maturin fino a Poe, tutti, in varia misura, si troveranno a dover fare i conti con Walpole e le sue fantasie visionarie, con le misteriose, inquietanti corrispondenze da lui suggerite, inaugurando in tal modo un filone ben definito.
Nota di Lunaria: curiosamente, sono state proprio le donne a cimentarsi con il genere, spesso innovandolo. Vedi qui: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/le-scrittrici-della-narrativa-horror-la.html
La prima edizione, in 500 copie, del "Castle of Otranto" compare il 24 dicembre 1764, senza il nome dell'autore; "The Castle of Otranto. A Gothic story. Translated by William Marshal, Gent. from the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto"
Un'antica cronaca, dunque? Nella prefazione, il supposto traduttore non esita a informare i lettori che "L'opera qui presentata fu rinvenuta nella biblioteca di un'antica famiglia cattolica dell'Inghilterra del Nord..."
Walpole, incerto su come sarebbe stata accolta un'opera tanto nuova nella sua impostazione, e non volendo cadere nel ridicolo se avesse sbagliato, mandò nel mondo il suo "Castle of Otranto" come una traduzione dall'italiano. Pochi mesi dopo, incoraggiato dal successo ottenuto, Walpole pubblica una seconda edizione con una nuova prefazione: "Il favore con cui questo breve scritto è stato accolto dal pubblico rende necessario che l'autore spieghi i motivi che ne hanno ispirato la composizione. è bene che egli si scusi con i suoi lettori per aver proposto la propria opera sotto le mentite spoglie di traduttore (...) egli affidò la sua creazione all'imparziale giudizio del pubblico, deciso a lasciarla scomparire nell'oscurità, se rifiutata, e non intendendo reclamare la paternità di una simile bagatella..."
Effettivamente, "Il Castello di Otranto" è stato un tentativo di fondere due generi di romanzo, quello antico e moderno. Tra paesaggi notturni e cieli tempestosi, in un arsenale di elmi magici, quadri parlanti, giganti spettrali, su sfondi di stregata misteriosità degni di Salvator Rosa e Piranesi, i personaggi di Walpole si dibattono tra surreale e quotidiano, nei cinque capitoli (o per meglio dire, atti) del romanzo, ostentando una gestualità concitata un po' troppo da palcoscenico (nota di Lunaria: vedi i personaggi femminili, che svengono...), in un linguaggio ricco di arcaismi ed echi elisabettiani; si tenta - non senza stridori- di fondere il Medioevo con Shakespeare e Richardson.
Nota di Lunaria: infatti il "Castello di Otranto", al lettore moderno, potrà sembrare persino pedante. Probabilmente l'autore aveva progettato di impostarlo più come "testo teatrale" che non come racconto vero e proprio, perché è poco fluido e gli eventi si susseguono come appunto se fossero dei singoli atti teatrali, così come "le battute" dei personaggi, quando interloquiscono tra loro.
Riportando un'altra analisi:
"Il Castello di Otranto" è stato il primo, il libro che ha inaugurato il gotico e che ha spalancato le porte alla narrativa del soprannaturale. Certo, come scrisse una volta Lovecraft, bisogna obiettivamente riconoscere che non è affatto un capolavoro, eppure è indubitabilmente un cult book. In effetti fu immenso l'influsso esercitato da questo libretto su tutta la letteratura.
La storia del principe usurpatore Manfredi (*), perseguitato nella sua magione avita da un fantasma senza pace, raccoglie e concentra in sé tutti (o quasi) gli archetipi del genere gotico. C'è lo spettrale maniero con le sue lugubri segrete, gli umidi corridoi e le sue ali abbandonate o in completo sfacelo. C'è l'Italia evocata come paese esotico, culla di leggende e di misteri (**), c'è il protagonista malvagio, un tiranno usurpatore e senza scrupoli, c'è l'eroe pio, nobile, c'è l'eroina da salvare. C'è tutto un ricco apparato di marchingegni scenici, dagli arazzi che prendono vita allo stridore delle catene, luci misteriose che si accendono, cardini cigolanti, lamenti sinistri. Ci sono gli eventi meteorologici temporaleschi (lampi e tuoni a profusione), c'è il motivo della vita dopo la morte con un fantasma che ha tutti i tratti del gigantesco (***) : il fantasma di Walpole si mostra come un colossale spettro (per tanti aspetti, a posteriori, persino enormemente ridicolo) che a tratti fa apparire pezzi della sua immensa armatura, gettando il terrore tra gli abitanti del castello.
Non possiamo mentire, sostenendo che il romanzo è bello e stracolmo di suspense, perché non è affatto così. La storia è piuttosto lenta, inoltre alcuni elementi e stratagemmi narrativi risultano per noi, a oltre due secoli di distanza dalla pubblicazione, decisamente comici e strampalati. Per di più lo stile risente non solo dei suoi 229 anni di vita, ma anche di una certa impostazione precipitosa e melodrammaticità di toni. Eppure "Il Castello di Otranto" resta una lettura quasi obbligata per chi vuole conoscere le più profonde radici della letteratura del terrore.
(*) Nota di Lunaria: Gli appassionati di tragedie rivedranno in Manfredi i tratti tipici dei personaggi di Vittorio Alfieri e del suo concetto di tirannide.
(**) Anche Ann Radcliffe ambienta il suo capolavoro, "L'italiano o il confessionale dei penitenti neri" in Italia, a Napoli.
(***) Si ricordino lo Streben, il Titanismo e il Sublime. Inoltre, si tenga presente che Walpole era amico di Thomas Gray.
Comunque, elementi horror e splatter erano già ravvisabili in alcune pagine di de Sade, vedasi "La Nouvelle Justine" (in versione integrale, possibilmente)
Così come anche in Vincenzo Monti apparivano fantasmi avvolti in sudari insanguinati, vedi l'"Aristodemo":
Aristodemo: "Ebben: sia questo adunque l'ultimo orror che dal mio labbro intendi. Come or vedi tu me, così vegg'io l'ombra sovente della figlia uccisa; ed, ahi, quanto tremenda!
Allor che tutte dormon le cose, ed io sol veglio e siedo al chiaror fioco di notturno lume; ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro starmi d'incontro,
ed occupar la porta minaccioso e gigante.
Egli è ravvolto in manto sepolcral, quel manto stesso onde Dirce [è il nome della figlia uccisa da Aristodemo, nota di Lunaria] coperta era quel giorno che passò nella tomba.
I suoi capelli, aggruppati nel sangue e nella polve, a rovescio gli cadono sul volto, e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido volgo altrove la fronte;
e me 'l riveggo seduto al fianco.
Mi riguarda fiso, ed imobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome e piovendone sangue, apre la veste, e squarciato m'addita, ahi vista! Il seno di nera tabe
[sangue] ancor stillante e brutto.
Io lo respingo; ed ei più fiero incalza, e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro traverso i fianchi e mi trascina a' piedi di quella tomba,
e "Qui t'apetto" grida, e ciò detto, sparisce."
o anche in qualche sonetto cinquecentesco di un autore come Luigi Tansillo, che per esempio in queste sue poesie vagheggiava un Sublime quasi estatico per le rovine:
Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)
(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti
"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."
Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.
Qui di seguito, qualche stralcio dell'opera
(Titolo originale: "The Castle of Otranto, a Gothic Story")
Capitolo Primo
Manfredi, principe di Otranto, aveva un figlio e una figlia: quest'ultima, una vergine di rara bellezza, aveva diciotto anni e si chiamava Matilda. Corrado, il figlio, di tre anni più giovane, era un fanciullo pallido e malaticcio, di natura tutt'altro che promettente; eppure era il prediletto del principe, che non aveva mai mostrato alcun segno d'affetto per Matilda. Manfredi aveva combinato per suo figlio un matrimonio con Isabella, figlia del marchese di Vicenza, la quale era già stata consegnata dai suoi tutori nelle mani di Manfredi, così che le nozze potessero venir celebrate non appena la salute cagionevole di Corrado lo avesse permesso. L'impazienza di Manfredi riguardo alla cerimonia era stata notata dai familiari e dai vicini. I familiari, in verità, timorosi del carattere severo del principe, non osavano dar voce alle proprie supposizioni circa questa sua urgenza. La moglie Ippolita, un'amabile gentildonna, si arrischiava a volte ad accennare ai pericoli di un così precoce matrimonio per il loro unico figlio, considerandone la giovane età e la debolezza del suo corpo; ma non ricevette mai altra risposta se non di biasimo per la sua stessa sterilità, poichè ella aveva dato al principe un solo erede. Gli affittuari e i sudditi erano meno cauti nei loro ragionamenti: essi attribuivano queste nozze affrettate al terrore del principe di vedere compiuta un'antica profezia, che si diceva fosse stata pronunziata, ovvero Che il Castello e la signoria di Otranto sarebbero stati perduti dall'attuale famiglia, allorché il vero padrone diverrà troppo grande per abitarvi. Era difficile venire a capo di questa profezia, e ancora meno facile comprendere cosa avesse a che fare con il matrimonio in questione. Ma quei misteri, o contraddizioni, non impedirono al popolo di rimanere attaccato alle proprie credenze.
Lo sposalizio del giovane Corrado venne fissato per il giorno del suo compleanno. Gli ospiti erano riuniti nella cappella del castello, e ogni cosa era pronta per l'inizio del divino ufficio, ma Corrado ancora non compariva. Manfredi, insofferente del minimo ritardo, non avendo scorto il figlio ritirarsi, inviò uno dei suoi attendenti a cercare il giovane principe. Il servo non stette via neppure il tempo necessario per attraversare la corte antistante l'appartamento di Corrado e tornò correndo, senza fiato e sconvolto, gli occhi spalancati e la schiuma alla bocca. Non parlava, ma indicava il cortile. L'assemblea fu presa dal terrore e dallo stupore. La principessa Ippolita, senza comprendere cosa fosse accaduto, ma ansiosa per il figlio, svenne. Manfredi, meno preoccupato che incollerito per il procrastinarsi delle nozze, nonché per il folle contegno del domestico, domandò imperioso cosa dunque stesse succedendo. L'uomo non rispose, ma continuò a indicare il cortile; infine, dopo che numerose domande gli vennero rivolte, gridò: "Oh, l'elmo! L'elmo!". Nel frattempo qualcuno degli ospiti era corso nel cortile, donde si udiva un confuso vociare, e urla di orrore e sorpresa. Manfredi, che cominciava a preoccuparsi non vedendo comparire il figlio, si mosse egli stesso per appurare che
cosa avesse cagionato quella strana confusione.
Matilda rimase indietro, curando di assistere sua madre; Isabella restò con lei per lo stesso motivo, e per evitare di mostrare la propria impazienza nei confronti dello sposo, per il quale, invero, non aveva concepito grande affetto.
La prima cosa che Manfredi vide fu un gruppo di servi che tentavano di sollevare un oggetto che gli apparve come una montagna di fosche piume. Rimase a fissarla senza credere ai suoi occhi.
"Cosa state facendo?" gridò Manfredi adirato. "Dov'è mio figlio?"
Un profluvio di voci rispose: "Oh, mio signore! Il principe, il principe! L'elmo!". Scosso dalle grida lamentevoli e timoroso non sapeva bene di cosa, avanzò affrettatamente. Ma quale spettacolo per gli occhi di un padre! Scorse suo figlio squartato e quasi sepolto sotto un enorme elmo, cento volte più grande di qualunque casco mai destinato a essere umano, e ricoperto da una quantità altrettanto enorme di piume nere.
L'orrore della scena, l'ignoranza di tutti circa il modo in cui tale sciagura fosse capitata, e soprattutto lo straordinario fenomeno di cui egli stesso era testimone, tolsero la parola al principe. Egli fissò gli occhi su quel che invano desiderava fosse null'altro che una visione, ma sembrava meno intento a riflettere sulla perdita del figlio, che non assorto in contemplazione dello straordinario oggetto che l'aveva cagionata.
Toccò ed esaminò l'elmo fatale; né i resti laceri e sanguinanti del giovane principe poterono stornare lo sguardo di Manfredi dal portento che si ergeva dinanzi a lui. Tutti coloro che avevano conosciuto la sua speciale predilezione per il giovane Corrado rimasero tanti sorpresi per l'insensibilità del loro principe, quanto sbalorditi essi stessi dal miracolo dell'elmo. Trasportarono il cadavere sfigurato nella sala, pur senza riceverne l'ordine da Manfredi. Parimenti, egli non mostrò alcun riguardo per le dame che erano rimaste nella cappella. Al contrario, non pensando minimamente alle infelici principesse, sua moglie e sua figlia, le prime parole che pronunziò furono: "Prendetevi cura della signora Isabella".
I domestici, senza avvedersi della stranezza di quel comando, furono indotti dal loro affetto per la padrona a considerarlo come specialmente rivolto alla condizione di quest'ultima, e si affrettarono a soccorrerla. L'accompagnarono alla sua stanza più morta che viva, indifferente a tutte le strane circostanze udite, fuorché alla morte del figlio. Matilda, la quale amava sua madre alla follia, represse il proprio dolore e stupore e non pensò che ad assistere e confortare l'afflitta genitrice. Isabella, che veniva trattata da Ippolita come una figlia, e che ne ricambiava la tenerezza con pari ubbidienza e affetto, era non meno piena di attenzioni per la principessa; al contempo curava di condividere e di alleggerire il peso del dolore che vedeva soppresso a fatica in Matilda, per la quale aveva concepito un cordiale sentimento d'amicizia. Del resto la sua propria condizione non poteva fare a meno di occupare i suoi pensieri. Non era affatto preoccupata per la morte del giovane Corrado, non provava che commiserazione per lui, e non le spiaceva di trovarsi liberata da una vita coniugale che non prometteva felicità, né da parte dello sposo a lei destinato, né da quella dell'austero Manfredi: il quale, sebbene l'avesse fatta oggetto di grande indulgenza, riempiva il suo animo di terrore per l'immotivato rigore con cui usava trattare delle adorabili principesse quali Ippolita e Matilda.
Mentre le donne accompagnavano la madre affranta al suo letto, Manfredi rimase nel cortile, osservando l'infausto elmo, incurante della folla che la singolarità dell'evento gli aveva radunato intorno. Le brevi frasi che pronunciò servirono unicamente a informarsi se c'era qualcuno che sapeva donde fosse mai venuto l'elmo. Nessuno poté fornirgli la minima indicazione. Comunque giacché sembrava essere quello l'unico oggetto della sua curiosità, presto lo divenne anche per il resto degli spettatori, le cui congetture erano tanto assurde e improbabili quanto la catastrofe stessa era senza precedenti. In mezzo alle tante insensate supposizioni, un giovane contadino, che il clamore aveva attirato al castello da un villaggio vicino, osservò che l'elmo miracoloso era del tutto simile a quello della statua di marmo nero di Alfonso il Buono, uno dei principi antenati, nella chiesa di san Nicola. "Furfante! Che dici?", gridò Manfredi, scuotendosi dalla sua indolenza in una tempesta d'ira, e afferrando il giovane per il bavero; "Come osi pronunciare una simile perfidia? Pagherai con la vita". Gli spettatori, per i quali il motivo della furia del principe era altrettanto incomprensibile quanto tutto il resto, non sapevano come spiegarsi questa nuova circostanza. Il giovane contadino era egli stesso ancor più stupito, non capacitandosi di come aveva potuto offendere il principe: ma riprendendosi, con grazia e umiltà insieme si divincolò dalla stretta di Manfredi, e poi, con un'ubbidienza che rivelava più gelosia della propria innocenza che non spavento, egli chiese con rispetto di cosa fosse colpevole. Manfredi, irritato dal vigore, per quanto impiegato con decenza, col quale il giovane si era liberato dalla sua stretta, più di quanto non fosse placato dalla sua sottomissione, ordinò ai suoi attendenti di afferrarlo, e, non fosse stato trattenuto dagli amici che egli aveva invitato alle nozze, avrebbe pugnalato il contadino mentre ancora era sorretto da quelli.
Durante l'alterco alcuni degli spettatori erano corsi alla grande chiesa che sorgeva nei pressi del castello, e ritornarono a bocca spalancata, annunziando che dalla statua di Alfonso mancava l'elmo. Manfredi, udita la notizia, divenne assolutamente furioso: e, come se cercasse un soggetto su cui sfogare la tempesta che gli ruggiva dentro, si scagliò nuovamente contro il giovane contadino, urlando: "Furfante! Mostro! Stregone! Sei tu che hai ammazzato mio figlio!". La folla, che pure cercava un oggetto alla sua portata su cui poter riversare i confusi ragionamenti di poc'anzi, afferrò le parole dalle labbra del padrone, e ripeté a mo' di eco: "Sì, sì, è lui: ha rubato lui l'elmo dalla tomba del buon Alfonso, e ci ha spaccato il cranio del nostro giovane principe", senza considerare l'enorme sproporzione tra l'elmo di marmo che si trovava nella chiesa, e quello d'acciaio troneggiante dinanzi ai loro occhi; e senza avvedersi di come fosse impossibile per un giovane, apparentemente sotto i venti anni, bradire un pezzo d'armatura dal peso tanto prodigioso.
La stravaganza di tali esclamazioni fece tornare in sé Manfredi. Eppure, sia che fosse stato contrariato dalla osservazione del contadino riguardo la somiglianza tra i due elmi e dalla susseguente scoperta della scomparsa di quello della chiesa, sia che desiderasse mettere a tacere ulteriori dicerie al fondo di una tale impertinente supposizione, con voce grave dichiarò che il giovane era certamente un negromante, e che fino a quando la chiesa non avesse preso atto dell'affare egli avrebbe tenuto il mago, che era stato così scoperto, prigioniero sotto l'elmo. Comandò ai suoi attendenti di sollevare l'elmo, e di spingere il giovane sotto di esso, stabilendo che lo si sarebbe tenuto lì senza cibo, dal quale la sua stessa arte infernale l'avrebbe provvisto.
Invano il giovane protestò contro l'assurda sentenza; invano gli amici di Manfredi tentarono di dissuaderlo dalla decisione crudele e infondata. La maggioranza era ammirata dalla risoluzione presa dal loro signore, che secondo la loro comprensione aveva un'apparenza di somma giustizia, poiché il mago sarebbe stato punito per mezzo dello stesso strumento col quale aveva commesso il reato. Né provarono alcuna remora riguardo alla probabile morte d'inedia del giovane, giacché credevano fermamente che questi fosse in grado di procurarsi facilmente del cibo ricorrendo alle sue diaboliche capacità.
Manfredi vide così che i suoi comandi venivano eseguiti persino di buon animo. E impartito a una guardia l'ordine rigoroso di evitare che alcuna pietanza fosse servita al prigioniero, congedò i suoi amici e attendenti, e si ritirò nella sua stanza, dopo aver chiuso a chiave i cancelli del castello, nel quale non permise a nessuno di trattenersi eccetto i domestici.
Nel frattempo, grazie alla cura e allo zelo delle giovani donzelle, la principessa Ippolita era rinvenuta, e nel trasporto del proprio dolore chiedeva ripetutamente notizie del suo signore, e voleva che i suoi attendenti si recassero a soccorrerlo; infine comandò a Matilda di lasciarla per far visita al padre e confortarlo. Matilda, che non gradiva l'incombenza di mostrare a Manfredi il proprio affetto, quando invece tremava per la sua severità, eseguì comunque gli ordini di Ippolita, che raccomandò teneramente a Isabella.
Altri approfondimenti: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/il-romanzo-nero-1-horace-walpole-e.html
Altro approfondimento tratto da
L'importanza del "Castello di Otranto" non deriva soltanto dall'eccezionale interesse dell'intreccio, ma dal suo essere il primo tentativo moderno di costruire una piacevole storia d'invenzione sulle basi dell'antico romanzo cavalleresco. Lo stato di oblio e discredito in cui queste venerabili leggende caddero cominciò fin dal regno della regina Elisabetta, durante il quale il mondo fatato di Spenser veniva apprezzato più per l'interpretazione mistica e allegorica che per il semplice, ovvio significato della rappresentazione cavalleresca.
Il teatro, che subito dopo fiorì, e le traduzioni degli innumerevoli romanzieri italiani, fornirono alle classi più alte il divertimento che i loro padri avevano tratto dalla lettura delle leggende di "Don Belianìs" e dello "Specchio della Cavalleria"; e i grossi tomi che furono il passatempo di nobili e principesse, ripuliti di tutti i fronzoli e condensati in compendi, furono banditi e relegati nelle cucine, nelle camerette dei bambini o nella migliore delle ipotesi, nelle librerie di antiquati manieri di campagna. Durante il regno di Carlo II, il gusto prevalente per la letteratura francese impose l'introduzione di noiosissimi in folio, le opere di Calprenède e Scudéry, una via di mezzo tra l'antico racconto cavalleresco e il romanzo moderno. Questa fusione fu così mal concepita che essi mantennero l'insopportabile prolissità delle opere cavalleresche in prosa, gli stessi resoconti dettagliati di combattimenti, ripetuti senza variazione alcuna, gli stessi innaturali e stravaganti colpi di scena, priva di quei ricchi, sublimi tocchi geniali e di quella forza immaginifica che spesso caratterizzava le opere precedenti; esibendo al contempo tutto il languore sentimentale e gli scontati intrighi amorosi del romanzo moderno, senza tuttavia ravvivarli con la varietà dei personaggi o con un'acuta analisi dei sentimenti e della realtà.
Tale insensata forma narrativa rimase in auge più a lungo di quanto ci si sarebbe aspettato solo perché queste opere venivano definite "di intrattenimento" e non c'era nulla che potesse prenderne il posto. Persino ai tempi dello "Spectator" "Clelia", "Cleopatra", "Grand Cyrus" erano i compagni segreti che il gentil sesso prediligeva. Ma tale gusto innaturale cominciò a venir meno all'inizio del Settecento; a metà del secolo era già completamente superato dalle opere di Le Sage, Richardson, Fielding e Smollett; e così lo stesso termine "romanzo cavalleresco", al giorno d'oggi tanto venerabile all'orecchio di antiquari e collezionisti di libri, era ormai pressoché dimenticato quando il "Castello di Otranto" fece la sua comparsa.
La peculiare situazione di Horace Walpole, il geniale autore di quest'opera, era tale da indurlo a prediligere quello che può essere definito "stile gotico", termine che egli contribuì non poco a salvare dalla pessima reputazione in cui era caduto, se si considera che prima dei suoi tempi veniva utilizzato correntemente per indicare qualsiasi cosa fosse in palese e completa opposizione alle regole del buon gusto.
Walpole era figlio di quel celebre ministro che tenne le redini del governo per due regni successivi, con un piglio così fermo e autoritario che il suo potere parve essere tutt'uno con i diritti della dinastia dei Brunswick.
In una situazione del genere, i suoi figli dovevano necessariamente condividere i privilegi ella corte, come accade ai familiari di chiunque goda del favore dello Stato. Al senso di importanza che tali privilegi gli conferirono va aggiunta l'antica abitudine di associare gli interessi di sir Robert Walpole, e gli affari privati della sua famiglia, a quella della famiglia reale d'Inghilterra, e ai mutamenti negli affari pubblici europei.
Non c'è da stupirsi, dunque, se l'animo di Horace Walpole, naturalmente incline a un certo amore per lo status e ad attribuire grande valore agli onori famigliari, sia stato confermato in questa sua disposizione dalle circostanze che sembravano legare a doppio filo il destino della sua casata a quello dei principi, aggiungendo ai blasoni dei Walpole, degli Shorter e dei Robsart, da cui egli discendeva, una dignità sconosciuta ai loro precedenti possessori.
Se mai Walpole sperò di raggiungere una posizione politica eminente utilizzando il nome della propria famiglia a suo vantaggio, la fine del potere del padre, e il cambiamento personale che ne derivò, suscitarono in lui il disgusto per la vita politica, consegnandolo presto a una solitudine letteraria.
Le materie di interesse dei suoi studi erano per la gran parte dettate dal suo modo di pensare e sentire, che agiva su un'immaginazione vivace e una mente acuta, attiva, penetrante, colma delle più diverse conoscenze.
I viaggi che avevano formato il suo gusto per le belle arti, ma soprattutto la sua antica predilezione per la genealogia e il rango avevano influenzato il suo studio di queste materie, connesso a quello della storia gotica e delle antichità.
Le occupazione personali di Walpole, così come i suoi studi, mostrano una predilezione per le antichità inglesi, predilezione all'epoca poco comune.
Egli amava, come disse uno scrittore satirico, "osservare giocattoli gotici attraverso specchi gotici"; se la casa di campagna di Strawberry Hill, che scelse come sua residenza, gradualmente s'ingrandì fino a diventare un castello feudale, con l'aggiunta di torri e torrette, gallerie e corridoi; e le volte ornate di greche, le pareti intagliate e le finestre traforate furono abbellite con blasoni, armature, scudi, lance da giostra e tutto l'armamentario della cavalleria.
Al giorno d'oggi lo stile architettonico gotico è molto diffuso e, in verità, utilizzato in maniera del tutto indiscriminata, al punto che ci si sorprende se la casa di campagna di un commerciante in pensione non esibisce finestre lanceolate, divise da colonnine di pietra e abbellite da vetri dipinti, una credenza a forma di coro di cattedrale e un porcile con la facciata presa in prestito da un'antica cappella.
Ma alla metà del Settecento, quando Walpole cominciò a sfoggiare esempi di stile gotico, e a mostrare come elementi presi da cattedrali e monumenti potessero essere inseriti in caminetti, soffitti, finestre e balaustrate, non lo fece per venire incontro ai dettami della moda del tempo, ma semplicemente seguì il proprio gusto, realizzando le sue visioni nella forma fantastica della villa da lui costruita.
La sua mente era così stipata di informazioni, accumulate studiando l'antichità medievale e ispirate, come egli stesso afferma, dalla forma fantastica della sua abitazione, che Walpole si risolse di dare al pubblico un esempio di stile gotico adattato alla letteratura moderna, come già aveva fatto applicandolo all'architettura moderna.
Come nel suo progetto di una moderna residenza gotica il nostro autore tentò scrupolosamente di conciliare i principi delle comodità, o lusso, moderne, con i ricchi, vari, complicati ornamenti e intarsi della cattedrale antica, allo stesso modo nel "Castello di Otranto" il suo obiettivo fu quello di unire il colpo di scena straordinario e il tono altisonante del mondo cavalleresco tipici del romanzo antico con l'accurata presentazione di caratteri umani e del contrasto di sentimenti e passioni come sono, o dovrebbero essere, delineati nel romanzo moderno.
Ma Walpole, non sapendo quale accoglienza avrebbe ricevuto un'opera tanto nuova nella sua concezione, e forse non volendo cadere nel ridicolo se avesse fallito, presentò "Il Castello di Otranto" al mondo come una traduzione dall'italiano. Non sembra che l'autenticità della narrazione fu mai messa in dubbio.
Il 30 dicembre 1764 Gray scrive a Walpole:
"Ho ricevuto il "Castello di Otranto" e vi porgo i miei ringraziamenti. Ha catturato la nostra attenzione, qui (cioè a Cambridge) e qualcuno di noi ha anche gridato di terrore; in generale, abbiamo tutti paura di andare a dormire, la notte. L'abbiamo presa per una traduzione, e diremmo che è una storia vera, non fosse per san Nicola"
Presto agli amici dell'autore fu consentito di spiare dietro il velo che egli aveva creduto fosse appropriato stendere; e nella seconda edizione, quel velo fu scostato del tutto grazie a una prefazione nella quale le intenzioni e la natura dell'opera sono brevemente commentate e spiegate. Dal passo seguente, tradotto da una lettera all'autore a Madame du Deffand, sembrerebbe che Walpole si fosse pentito di aver abbandonato la propria copertura; e, sensibile alle critiche, come la gran parte degli scrittori dilettanti, fu molto più addolorato per il disdegno di coloro i quali non apprezzarono il suo racconto, piuttosto che lusingato dall'approvazione degli ammiratori.
"Dunque hanno tradotto il mio "Castello di Otranto", probabilmente per metterne in ridicolo l'autore. Così sia. Tuttavia, vi prego di non tenere in alcun conto i loro dileggi. Che i critici facciano come credono: la cosa non mi crea alcun turbamento. Non ho scritto quest'opera per l'epoca presente, che non tollera niente all'infuori del freddo senso comune. Vi confesso, mia cara amica (e mi penserete più folle che mai) che questo è l'unico lavoro di cui io sia soddisfatto: ho dato libero corso alla mia immaginazione fino a infiammarmi con le visioni e i sentimenti che essa ha acceso.
L'ho composto a dispetto delle regole, dei critici e dei filosofi;
ed esso mi sembra di gran lunga il migliore proprio per questa ragione. Sono persino persuaso che, tra un po' di tempo, quando il gusto riprenderà il posto oggi occupato dalla filosofia, il mio povero Castello troverà degli ammiratori: in verità già ve ne sono alcuni tra di noi, dal momento che sto dando alle stampe la terza edizione. Non ve lo dico per mendicare la vostra approvazione.
Fin dall'inizio vi dissi che non avreste apprezzato il libro - la vostra immaginazione è di tutt'altro genere. Non mi dispiace che il traduttore abbia pubblicato la seconda prefazione; tuttavia ritengo che la prima si accordi meglio allo stile della narrazione.
Desideravo che fosse ritenuto antico, e quasi tutti lo credettero."
Tuttavia, se il plauso del pubblico fu attenuato da voci critiche in misura sufficiente da mettere in allarme l'autore, la continua richiesta di edizioni del "Castello di Otranto" mostrò in quale alta considerazione il romanzo fosse tenuto dall'opinione pubblica, e riuscì infine a riconciliare l'autore con il gusto della sua epoca.
Questo romanzo è stato giustamente ritenuto non solo il modello di un particolare genere compositivo, ma una delle opere esemplari della nostra letteratura di intrattenimento.
Alcune considerazioni sia sul libro stesso sia sul genere a cui esso appartiene sono state ritenute necessarie per introdurre questa edizione del "Castello di Otranto", che gli editori hanno cercato di realizzare con l'eleganza adeguata alla stima che essi nutrono per l'opera e il genio dello scrittore.
Sarebbe ingiusto nei confronti della memoria dell'autore asserire che tutto ciò a cui egli aspirava nel "Castello di Otranto" era "l'arte di provocare sorpresa e orrore", o in altre parole, il ricorso a quel segreto, riservato sentimento di amore per il meraviglioso e il soprannaturale, che alberga in un angolo recondito del cuore di tutti noi. Fosse stato questo l'unico suo scopo, i mezzi con cui avrebbe cercato di conseguirlo potrebbero essere giustamente definiti goffi e puerili.
Ma il fine di Walpole era molto più difficile da raggiungere.
Il suo obiettivo era quello di tratteggiare un quadro della vita domestica e dei costumi dell'epoca feudale il più possibile fedele, e dipingerlo movimentato e turbato dall'azione del meccanismo soprannaturale, quale poteva essere in quell'epoca la superstizione, ritenuta materia di devota credulità.
Le parti realistiche della narrazione sono congegnate in modo tale da fondersi con gli eventi meravigliosi; e, grazie alla forza di questa fusione, rendono tali speciosa miracula singolari e impressionanti, sebbene la nostra fredda razionalità li ritenga impossibili.
In verità, per produrre in una mente istruita anche la minima parte di quella sorpresa e paura che si fondano su eventi soprannaturali, la struttura e il tenore dell'intera storia devono armonizzarsi perfettamente con questa prima ragione d'interesse.
Colui al quale in gioventù sia accaduto di trascorrere la notte, solo, in una delle poche magioni antiche che la moda dei tempi moderni non ha ancora spogliato degli arredi originali, probabilmente avrà ben presente le gigantesche, assurde figure che si intravedono a malapena nella tappezzeria rovinata, il remoto clangore di porte distanti che sembrano isolarlo dalla società dei vivi, la profonda oscurità che avvolge gli alti soffitti decorati della stanza, le immagini fiocamente illuminate di antichi cavalieri, rinomati per il loro valore, e forse per i loro crimini, i vari e indistinti suoni che turbano la silenziosa desolazione di una magione semideserta; e, a coronare il tutto, quel sentimento che ci riporta all'epoca del potere feudale e della superstizione papale; costui avrà ben presente come tutto contribuisca a risvegliare una sensazione di timore soprannaturale, per non dire di terrore.
è in tali situazioni, quando la superstizione diventa contagiosa, che noi ascoltiamo con rispetto, quasi con spavento, le leggende che nella luce abbagliante del giorno e in mezzo ai suoni indistinti e alle immagini della quotidianità non sono che un innocuo svago.
Ora, sembra che lo scopo di Walpole fosse quello di ottenere, per mezzo della minuziosa accuratezza di una fiaba, tratteggiata con una particolare attenzione ai costumi del periodo in cui la scena era ambientata, quella stessa associazone mentale in grado di preparare il lettore a ricevere prodigi consoni al credo e ai sentimenti dei personaggi.
Il tirannico feudatario, la fanciulla addolorata, il rassegnato eppure dignitoso uomo di chiesa, il castello stesso, con il suo spiegamento di prigioni sotterranee, botole, cappelle, gallerie, duelli, processioni, cavalieri e combattimenti, in breve, la scena, gli attori e l'azione, per quanto siano realistici, si accompagnano ad aspetti ed eventi prodigiosi, e hanno sulla mente del lettore il medesimo effetto che l'aspetto e gli arazzi di una stanza quale abbiamo descritta può produrre in un ospite occasionale. Questo era un compito che, per essere eseguito, richiedeva non poca erudizione, una fantasia non ordinaria, una genialità non comune.
L'associazione mentale di cui abbiamo parlato è di una natura particolarmente delicata, incline a indebolirsi e spezzarsi. è praticamente impossibile costruire una struttura gotica moderna in grado di impressionarci con i sentimenti che abbiamo provato a descrivere. Può essere grandiosa oppure tetra; può ispirare idee di magnificenza o malinconia: ma senz'altro non sarà in grado di causare quella sensazione di timore soprannaturale quale si prova nei saloni in cui riecheggiarono le grida di generazioni remote, e che furono calpestati da coloro che sono morti da tempo.
Eppure Horace Walpole è riuscito a raggiungere nella composizione ciò che, come architetto, deve aver valutato al di là delle possibilità della propria arte.
L'epoca remota e superstiziosa in cui la scena è ambientata, la maestria con la quale ha allestito le sue decorazioni gotiche, il tono sostenuto e, in generale, dignitoso dei costumi, ci predispongono a poco a poco ad accettare prodigi che, pure non potendo accadere in alcuna epoca, erano conformi alle credenze popolari nel periodo in cui l'azione si svolge.
Lo scopo dell'Autore, dunque, non era solo quello di provocare sorpresa e terrore introducendo un agente soprannaturale, ma di infiammare i sentimenti del lettore fino a quando, per un momento, si identificassero con quelli di un'epoca più rude, che "devotamente ritiene vera ogni storia strana".
La difficoltà di ottenere una tale accuratezza nella descrizione può essere facilmente valutata se si paragona il "Castello di Otranto" alle opere meno riuscite degli scrittori successivi; in queste ultime, nel tentativo di assumere il tono dell'antico mondo cavalleresco, accade sempre, a ogni capitolo, qualcosa di talmente incongruo che subito abbiamo l'impressione di una mascherata mal arrangiata, nella quale fantasmi, cavalieri erranti, maghi e fanciulle indossino costumi presi a nolo dallo stesso negozio in Tavistock Street.
Un particolare degno di nota distingue Walpole dai più illustri tra i suoi successori.
Il racconto romanzesco è di due generi: quello che, essendo di per se stesso verosimile, può essere considerato realistico in qualsiasi periodo; e quello che, sebbene ritenuto impossibile in epoche più illuminate, era tuttavia conforme alla credenze dei tempi antichi.
Il soggetto del "Castello di Otranto" appartiene al secondo genere.
La signora Radcliffe, un nome che non può essere citato senza il rispetto dovuto al genio,
è riuscita a creare un compromesso tra questi due diversi stili narrativi, fornendo, negli ultimi capitoli dei suoi libri, una spiegazione naturale ai prodigi che vi accadono.
Ogni evoluzione del romanzo gotico ha sollevato molte obiezioni, cosicché siamo anche noi inclini a preferire perché più semplice e d'effetto, la narrativa di Walpole, che racconta gli accadimenti soprannaturali così come li avrebbero vissuti e creduti nel XI o XII secolo.
Innanzitutto, il lettore si indigna nello scoprire di essere stato indotto con l'inganno a provare terrore per eventi che alla fine si rivelano determinati da cause banali; e l'interesse di una seconda lettura è completamente rovinata da quanto gli viene svelato alla fine della prima.
In secondo luogo, la precauzione di sollevare il nostro spirito dall'influenza di tale presunto terrore soprannaturale pare superflua in un'opera di finzione narrativa.
Infine, questi surrogati dell'agente soprannaturale sono spesso totalmente inverosimili, tanto quanto i meccanismi che sono chiamati a spiegare e a sostituire.
Il lettore, a cui è richiesto di credere ad un intervento del soprannaturale, capisce perfettamente cosa si vuole da lui; e, se si tratta di un lettore raffinato, si predispone all'atteggiamento mentale più adatto ad assecondare l'inganno preparato per intrattenerlo, sostenendo, per tutta la durata della lettura, le premesse da cui la favola dipende.
Ma se l'Autore volontariamente si impone di chiarire ogni evento fantastico che ha introdotto nel racconto, abbiamo il diritto di aspettarci che la spiegazione sia naturale, semplice, ingegnosa e completa. I lettori di questo genere di narrativa ricorderanno di certo casi in cui le spiegazioni di circostanze misteriose si sono dimostrate altrettanto, anzi, addirittura più incredibili che se fossero state giustificate dall'azione di un essere soprannaturale. Perché anche i più scettici devono ammettere che l'influenza di tali agenti è più plausibile di quanto non lo sia un effetto simile prodotto da una casa inadeguata. Ma non è necessario soffermarci ulteriormente su questo argomento, che è stato toccato solo per difendere il nostro Autore dall'accusa di aver congegnato la storia più goffamente di quanto la natura del racconto avrebbe richiesto.
L'audace asserzione della reale esistenza di fantasmi e apparizioni sembra accordarsi più naturalmente con i costumi dei tempi antichi e produce un effetto più potente sulla mente del lettore di qualsiasi tentativo di conciliare la credulità superstiziosa dell'epoca feudale con lo scetticismo filosofico della nostra, riconducendo quei prodigi all'azione di polveri esplosive, specchi sistemati ad arte, lanterne magiche, botole, trombe parlanti e altri simili congegni della fantasmagoria germanica.
Tuttavia non si può negare che le caratteristiche dell'impianto soprannaturale del "Castello di Otranto" siano passibili di critiche. La sua azione e interferenza è troppo frequente e, nella mente del lettore, fa leva con troppa forza e costanza sulle stesse emozioni, con il rischio di diminuire la tensione della molla sulla quale dovrebbe agire. La paura che un moderno lettore di racconti fantastici può provare è molto indebolita dallo stile di vita e dall'educazione odierni. I nostri antenati erano in grado di meravigliarsi e spaventarsi perdendosi lungo i labirinti di un interminabile poema che raccontasse del mondo delle fate e di incantesimi, opera, fose, di un "poeta comune, la cui mente candida credeva ai magici portenti che egli cantava". (William Collins "Ode in the Popular Superstitions of the Highlands of Scotland", 1749)
Ma noi abbiamo costumi, sentimenti, credenze diversi e ciò che anche la mente più immaginifica al giorno d'oggi riesce a provare di fronte a un racconto fantastico non è che una fugace, seppur vivida, impressione.
Servendosi troppo frequentemente di prodigi, forse Walpole corse il grosso rischio di risvegliare la raison froide, quel freddo senso comune che giustamente egli considerava il peggior nemico dell'effetto che sperava di produrre.
Si deve inoltre aggiungere che gli eventi soprannaturali accadono in una fin troppo vivida luce del giorno, e sono delineati con un estremo grado di precisione e accuratezza.
Una misteriosa oscurità sembrerebbe senz'altro più adatta, per non dire essenziale, alla nostra idea di spiriti incorporei, e le gigantesche membra del fantasma di Alfonso, così come sono descritte dai domestici terrorizzati, sono in un certo senso troppo precise e corporee per essere in grado di produrre i sentimenti che la loro apparizione dovrebbe provocare. Tuttavia questo difetto, ammesso che lo sia, è più che compensato dal grande valore di molti degli avvenimenti meravigliosi del romanzo.
L'uscita dal ritratto dell'antenato di Manfredi, sebbene rasenti la bizzarria, è finemente introdotta, e interrompe un interessante dialogo creando un effetto straordinario. Abbiamo sentito dire che la figura animata avrebbe dovuto essere una statua piuttosto che un ritratto.
Il vantaggio del colore ci induce a preferire di gran lunga la scelta di Walpole alla soluzione proposta.
Solo a pochi di noi non è mai capitato di provare, durante l'infanzia, una sorta di terrore di fronte allo sguardo di un antico ritratto che sembrava fissarci da ogni angolazione. è forse un eccesso di pignoleria far notare (particolare al quale ci si aspettava che Walpole, fra tutti i narratori, prestasse attenzione) che al tempo in cui si svolge l'azione, l'XI secolo, il dipinto a figura intera non era ancora stato introdotto.
L'apparizione dello scheletro dell'eremita al principe di Vicenza è stata a lungo considerata un capolavoro dell'orrido; ma da qualche tempo anche la valle di Giosafatte difficilmente riuscirebbe a fornire tutte le ossa necessarie a una tale esibizione di spettri, cosicché questa sconsiderata e ripetuta imitazione ha, in certa misura, danneggiato l'effetto del modello originale.
Ciò che più colpisce nel "Castello di Otranto" è il modo in cui le diverse prodigiose apparizioni, l'una legata all'altra, e tutte legate al realizzarsi di un'antica profezia che annuncia la rovina del casato di Manfredi, ci preparano gradualmente alla catastrofe finale.
La visione al chiaro di luna di Alfonso, dilatata fino a raggiungere proporzioni immense, con gli sbalorditi spettatori in primo piano e le rovine del castello distrutto sullo sfondo, è descritta in maniera concisa e sublime. Non si conoscono altri passi di simile valore, all'infuori dell'apparizione di Fadzean in un'antica poesia scozzese. (1)
Quella parte del romanzo che si basa su passioni e azioni umane è condotta con il talento drammatico che più avanti sarà così notevole nella Madre Misteriosa.
I personaggi sono caratterizzati in modo più generico che individuale, ma questo in un certo senso rispondeva al disegno dell'autore, studiato per fornire una visione d'insieme della società e dei costumi nell'epoca che la sua immaginazione amava contemplare, piuttosto che le più minute sfumature e i tratti distintivi di un carattere in particolare. Ma i protagonisti del romanzo sono tratteggiati in modo strabiliante, con profili ben delineati, indicativi della natura e dell'epoca della storia. La tirannia feudale non fu forse mai meglio rappresentata di quanto avvenga nel personaggio di Manfredi.
Egli possiede il coraggio, l'abilità, la doppiezza, l'ambizione di un condottiero barbaro dei secoli bui, eppure con cenni di rimorso e sentimenti autentici che ci permettono di provare per lui simpatia quando il suo orgoglio viene calpestato e la sua stirpe estinta.
Il monaco pio e la paziente Ippolita contrastano nettamente questo principe egoista e tiranno. Teodoro è il giovane eroe di un racconto romantico, e Matilda ha una dolcezza notevole, più di quanta le eroine di solito posseggano.
Sebbene il personaggio di Isabella sia volutamente tenuto in disparte per far risaltare quello della figlia di Manfredi, pochi lettori si troveranno d'accordo con la rivelazione finale, ovvero che lei andrà in sposa a Teodoro. Questo rappresenta in certa misura un'eccezione alle regole della cavalleria; e, sebbene sia un accadimento naturale nella vita di tutti i giorni, rovina le illusioni magiche del romanzo. Sotto altri aspetti, a eccezione degli incidenti straordinari di un'epoca buia e burrascosa, la storia, per quel che riguarda il corso naturale degli eventi, è felicemente delineata, il suo procedere è uniforme, gli eventi interessanti e ben organizzati, e la conclusione grandiosa, tragica e commovente.
La lingua del "Castello di Otranto" è l'inglese puro, corretto, dei più classici modelli precedenti. Walpole rifiutò, per gusto e per principio, quei pesanti seppur potenti ausiliari che il dottor Johnson aveva mutuato dalla lingua latina, e che da allora si sono rivelati, ai molti sfortunati che hanno provato a usarli, difficili da maneggiare quanto i guantoni di Erice, "et pondus et ipsa huc illuc vinclorum immensa volumina versat"
La purezza della lingua di Walpole e la semplicità della sua narrazione, non ammettono neppure quel rigoglioso, florido, barocco paesaggio con il quale la signora Radcliffe spesso adornava, e molte volte appesantiva, i suoi romanzi.
La descrizione fine a se stessa non compare quasi mai nel "Castello di Otranto"; e se gli scrittori pensassero a quanto questa limitazione aiuti la narrazione sarebbero probabilmente tentati di eliminare quantomeno gli eccessi più appariscenti e prolissi di uno stile consono più alla poesia che alla prosa.
è al dialogo che Walpole riserva la sua forza; ed è notevole come, mentre fa muovere i personaggi mortali con tutta l'arte di un drammaturgo moderno, egli aderisca al tono altisonante del mondo cavalleresco, che caratterizza l'epoca dell'azione.
Questo risultato non è ottenuto infarcendo la narrazione e i dialoghi di termini che necessitano di un glossario, o per mezzo di una fraseologia antiquata, ma avendo cura di escludere tutto ciò che possa generare associazioni di tipo moderno. Nel primo caso, il suo romanzo sarebbe sembrato un abito moderno ridicolmente decorato con ornamenti antichi; nella sua forma attuale, egli ha conservato la struttura dell'armatura antica, ma non la ruggine e le ragnatele. A testimonianza di quanto appena affermato, ricordiamo il primo dialogo di Manfredi con il principe di Vicenza, in cui i costumi e il linguaggio del mondo cavalleresco sono finemente tratteggiati così come il turbamento di un colpevole che sa di essere e si confonde cercando di giustificarsi, anche di fronte a un accusatore muto. I personaggi dei domestici non sono stati considerati all'altezza del resto della storia. Ma riguardo a ciò l'autore ha già spiegato le proprie ragioni nella prima prefazione del libro.
Dobbiamo soltanto aggiungere che se Horace Walpole, pioniere di questo genere letterario, è stato superato da alcuni suoi epigoni nell'uso di descrizioni brillanti e forse, nell'arte di mantenere la mente del lettore in uno stato di febbrile e ansiosa suspense mediante una lunga e complicata narrazione, egli avrà sempre molti meriti, oltre a quello dell'originalità e dell'inventiva. Il plauso per la purezza e la precisione dello stile, per la felice fusione di elementi soprannaturali e interessi umani, per il tono dei costumi feudali e del linguaggio, sostenuti da personaggi delineati con chiarezza e ben differenziati, e per l'unità dell'azione, che alternza scene avvincenti a scene grandiose; il plauso, infine, che non può essere negato a chi sappia suscitare sentimenti quali la paura e la compassione: questo deve essere tributato all'autore del "Castello di Otranto".
(1) Questo spettro, il fantasma di un seguace assassinato per sospetto di tradimento, apparì a una persona del calibro di Wallace, l'eroe nazionale di Scozia, nell'antico castello di Gask-Hall.