Ripubblico in edizione aggiornata impreziosita da questo bel commento introduttivo, i miei versi preferiti di Carducci.
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Poeta dell'Italia uscita dalle battaglie del Risorgimento, repubblicano arrabbiato, anticlericale, professore universitario, favorito ufficiale della regina Margherita, Giosuè Carducci nacque a Valdicastello, in Toscana, il 28 luglio 1835.
Nel 1859 Carducci era un giovane professore che si era già fatto una certa fama come poeta: i suoi versi, al di là dello sfogo personale, conferivano al giovane professore un'aura di patriottismo.
Nel 1860 divenne professore alla cattedra di eloquenza italiana all'università di Bologna: l'Italia trovò in Carducci in poeta che seppe interpretare al meglio tutti gli ideali del Risorgimento.
Pur inserito nel sistema universitario, Giosuè Carducci era uno spirito anarchico, insofferente ad ogni disciplina.
"Odiavo gli impieghi e sono diventato impiegato regio; non ero atto a governar famiglia, ed eccomi una famiglia da guidare [Carducci si era sposato nel 1859]; amo le selve e i boschi e i monti, dove vivrei volentieri a modo di fiera, e convienemi vivere su le lastre e tra le mura stupide di questa città, dove poche fette di cielo mostrate a spizzico per le strade o le finestre aperte devon servire a migliaia di anime; sono superbo, iracondo, villano, sono soperchiatore, fazioso demagogo anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema, e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene...", diceva di sé Carducci in una lettera indirizzata all'amica Luisa Grace-Bartolini.
Con le sue poesie storico-patriottiche, Carducci tentò di dare all'Italia, ormai riunita sotto la monarchia sabauda, l'illusione di una piccola epopea nazionale: cantò l'antica Roma, il Medioevo, le lotte dei Comuni contro l'imperatore Federico Barbarossa, impersonando la figura del "vate italico", che si lasciò sedurre dal sorriso della regina Margherita, cantandone la bellezza (unicamente perché non aveva visto Lunaria, ovviamente, altrimenti avrebbe cantato le lodi a Me! Nota di Lunaria) e identificandola con quell'Italia che egli vagheggiava:
Onde venisti? Quali a noi secoli
sì mite e bella ti tramandarono?
fra i canti de' sacri poeti
dove un giorno, o regina, ti vidi?
Fulgida e bionda (*) ne l'adamàntina
luce del serto tu passi, e il popolo
superbo di te si compiace
qual di figlia che vada a l'altare;
con un sorriso misto di lacrime
la verginetta ti guarda, e trepida
le braccia porgendo ti dice
come a suor maggior "Margherita"!
(*) Fulgida e corvina, ovviamente, in Lode di Lunaria.
Carducci contribuì a liberare la poesia italiana dagli influssi del tardo Romanticismo, conferendole una dignità formale che la poneva idealmente a confronto con la severa poesia classica.
Ecco Ferrara l'epica. Leggera
la mole estense i merli alza ridenti,
e specchiando le nubi auree fuggenti
canta del Po l'ondìsona riviera
Tipiche delle poesie di Carducci sono le spezzature dei primi versi, i participi usati come aggettivi e collocati dopo i sostantivi.
Con le "Odi Barbare" tentò una moderna ricostruzione degli antichi metri che rivelassero, nella forma esteriore della poesia, la reazione al Romanticismo, sforzandosi di imporre all'Italia una poesia più virile, più aderente alla Natura, rispetto a Giovanni Prati o ad Aleardo Aleardi.
I temi di fondo della poesia carducciana sono un sentimento della Natura, al di là delle esaltazioni romantiche, che si riallacci a quella superiore armonia tra l'uomo e il mondo che fu la grande conquista della poesia classica greco-romana.
Il paesaggio italiano, nei versi carducciani, è ben definito: egli non parla di alberi generici, ma di cipressi, frassini, pioppi, querce, olmi (esattamente come nella poesia del Pascoli di "Myricae". Nota di Lunaria):
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
giù de' cipressi per la verde via,
alta, solenne, vestita di nero
parvemi riveder nonna Lucia:
la signora Lucia, da la cui bocca
tra l'ondeggiar de' i candidi capelli
la favella toscana, ch'è sì sciocca
nel manzonismo de gli stenterelli.
canora discendea, co 'l mesto accento
de la Versilia che nel cuor mi sta,
come da un sirventese del trecento
piena di forza e di soavità.
Giosuè Carducci morì a Bologna, il 16 febbraio del 1907, ricevendo, l'anno prima, il Nobel per la letteratura.
Purtroppo, la critica letteraria del tempo non considerò molto le poesie d'amore di Carducci, che ci svelano il suo lato più intimo, il Carducci innamorato romanticamente, lacerato dalla passione e dalla malinconia, che dedicò liriche a Carolina Cristofori Piva (nelle poesie di Carducci chiamata Lina o Lidia) e alla scrittrice di feuilleton rosa Annie Vivanti (https://recensioniromanzirosa.blogspot.com/2020/10/storia-del-romanzo-rosa.html):
O desiata verde solitudine
lungi al rumor de gli uomini!
qui due con noi divini amici vengono,
vino ed amore, o Lidia
Se tornasse in vita nel 2020, certamente, Carducci sarebbe innamorato di Lunaria, esattamente come Shelley, Byron, Tarchetti, Milton, Tansillo, Monti, Marino e molti altri poeti.
Carducci aprì la strada alla malinconia agreste di Pascoli e alla sensualità estetica di d'Annunzio.
Nota di Lunaria: Carducci è detestato dai cristiani, perché nel 1863 ha scritto l'Inno a Satana.
Il leggendario cd degli Emperor "In the Nightside Eclipse" contiene una canzone intitolata proprio "Inno a Satana"
ALTRO APPROFONDIMENTO
Qualche verso di Giosuè Carducci! Questi li trascrissi anni fa prendendoli da un'antologia. Comunque, è probabile che dedicherò qualche altro post a Carducci.
"Il comune rustico"
O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
Sotto la pioggia, tra la caligne
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebbro, e mi tocco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è Novembre.
Meglio a chi'l senso smarrì de l'essere
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito
(25 giugno 1875)
"Alla stazione in una mattina d'autunno"
Freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
"A.O.T.T" (Ottavio Targioni Tozzetti)
In vano l'orrido crin sanguinante infestò Orione
pe'l ciel distende ed il terribil di fiamma accende
brando strisciante:
bianca di naufraghe ossa minaccia la riva squallida:
dal patrio lido la figlia chiamalo
con lungo strido pallida faccia.
"Canto di primavera"
L'umore che li astri piangono per la notte serena
... dal sangue tuo l'oceano tra selve di coralli
nel sangue nostro i nostri campi ringiovaniscono
e quando lento i chiostri del verde pian d'insubria
apre l'aratro e frange, su l'ossa rivelate
un padre piange.
"A Febo Apollinare"
Dolce fiammeggian l'umide luci
nel vano immote: siede pallor lievissimo
in su le rosse gote.
E anchio pregai: di lacrime io gli abbracciati altari sparsi.
"Alla Croce di Savoia"
Quella luce tra gli orrori de l'italica sventura.
Queste tombe e queste mura
al dì novi la serbar.
Tal su l'urne
de' maggiori a la tarda etrusca prole,
la favilla alma del Sole, i sepolcri tramandar.
"Congedo"
E giace, e il capo asconde, nel manto,
come a sé voglia coprire la vista
che il circonda, de la Morte:
e il vento le profonde sabbie rimove
e ne le orrende spire
par che sepolcro al corpo vivo apporte.
"Voce dalle soffitte"
Piovea per la bruma la nebbia
lividi raggi
alta la Luna in su'l trivio fangoso
e dispariva dietro le nubi...
"Notte d'estate"
Il pensiero de le tombe come un'ombra in me scende;
né più i fiori né più i tigli danno odore;
tutto il bosco è per me crepuscolo.
"Ballata dolorosa"
Una pallida faccia è un velo nero
spesso mi fa pensoso de la morte;
ma non in frotta io cerco le tue porte,
quando piange il Novembre, O Cimitero.
Cimitero m'è il mondo allor che il sole
ne la serenità di maggio splende
e l'aura fresca move l'acque e i rami,
[...]
Veggo tra'l sole e me sola una faccia,
pallida faccia velata di nero.
"Pe'l Chiarone da Civitavecchia (Leggendo il Marlowe)"
Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini
a la fossa, stan radi alberi in cerchio de la suicida riva.
Stendonsi livide l'acque in linea lunga
che trema sotto squallido cielo per la lugubre macchia.
Bevon le nubi del mare, con pendule trombe,
ed il Sole piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.
D'odii et incesti e morti balzando
tra forme angosciose esala un vapor acre d'orrida tristizia,
che sale e fuma, e misto al'aer maligno
feconda di mostri intorno le pendenti nuvole.
"Sole d'Inverno"
Già di cerulea gioia rinnovasi ogni pensiero:
fremere sentomi d'intima vita gli spiriti:
il gelo inerte fendesi.
Già de' fantasmi dal mobile vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime,
giù per l'ombra del tedio.
Scendon con murmuri che agli antri
chiamano echi d'amor superstiti e con letizia
d'acque che a' margini sonni di fiori svegliano.
"Egle"
Stan nel grigio verno pur d'edra e di lauro
vestite, nell'appia trista
le ruinose tombe.
Passan pe'l ciel turchino che still ancor
da la pioggia avanti il Sole
lucide nubi bianche.
"Anatema!"
Ombre assise su gl'ispidi venti,
Ombre chiuse nei turbini ardenti,
Ombre vaghe sui liquidi lampi,
Ombre erranti su gl'insubri campi,
sovra 'l Po, sovra'l Mar Veneziano,
su'l funesto novarico piano
con tal voce che l'Italia ne freme
Su! Gravate, Anatema, Anatema!
... Sopra il teschio de'l figlio sepolto
con tal voce che il cielo ne frena
Su! Gridate, Anatema, Anatema!
APPROFONDIMENTO: CARDUCCI E PASCOLI A CONFRONTO
Info tratte da
Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli affrontano rispettivamente in "San Martino" e in "Novembre" lo stesso tema, ma in modi del tutto opposti. Entrambi i poeti descrivono quel periodo dell'anno collegato alla ricorrenza di San Martino che evoca immagini di letizia sia perché la spillatura del vino nuovo che solitamente si compie in tale data è un momento gioioso della vita del contadino, sia perché in quei giorni si verifica la cosiddetta "Estate di San Martino", un improvviso ritorno del bel tempo nel cuore della stagione autunnale.
Un confronto tra le liriche ci consente di misurare tutta la distanza che separa i due poeti, i quali, pur essendo contemporanei, adottano diversi modi di poetare.
Carducci, che è ancorato alle forme ottocentesche, delinea un quadretto realistico legato al momento della spillatura del vino nuovo; Pascoli, che è già proiettato verso il Novecento, vede nell'Estate di San Martino il simbolo di qualcosa di più misterioso e profondo.
Il paesaggio carducciano viene collocato in uno spazio concreto, dai confini chiaramente delineati; gli elementi che ne fanno parte sono presentati secondo un ordine prospettico, come in un dipinto, che si proponga di riprodurre la realtà con la massima verosimiglianza: sullo sfondo il mare e i colli, in primo piano le vie del borgo e l'interno di una casa o di un'osteria, fino alla messa a fuoco di un singolo personaggio: il cacciatore che dalla porta guarda verso il cielo. Lo spazio pascoliano, al contrario, è astratto, indefinito; gli elementi che ne fanno parte sono collocati tutti sullo stesso piano senza che fra di essi si stabilisca alcuna gradazione prospettica.
La lirica carducciana è fondata sulla contrapposizione di due poli, uno positivo e uno negativo, che coincidono con due diversi aspetti della realtà. Il paesaggio naturale appare minaccioso e malinconico, gli interni, contrassegnati dalla presenza dell'uomo, comunicano sensazioni di vitalità e di sana allegria. La poesia pascoliana ci presenta invece una realtà assai più ambigua e inquietante: anch'essa è fondata su una contrapposizione o meglio su una serie di contrapposizioni (luce/buio, vita/morte, presenza/assenza, apparenza/realtà); i poli contrastanti però non corrispondono a due diversi aspetti della realtà, ma coesistono nella medesima immagine. Quella stessa natura che sembra così calda e luminosa, piena di vita, è in effetti percorsa da segnali di morte.
In "San Martino" ogni elemento del paesaggio ha valore in sé e per sé, non rinvia ad altri significati; in "Novembre", invece, ogni immagine è ambigua, allusiva, polivalente. Per esempio, l'aggettivo "nere" vale come nota di colore, ma al tempo stesso suscita sensazioni lugubri di morte, allo stesso modo di "vuoto", "cavo" ecc.
Carducci quando vuole potenziare il significato del suo messaggio ricorre ancora alla similitudine, come nei versi finali di "San Martino". Pascoli si serve di accostamenti più sottili e allusivi, come la sinestesia, il chiasmo, l'ossimoro, la contrapposizione a distanza di termini (gèmmea/fredda).
In conclusione, dai versi di Carducci emerge una visione univoca, ordinata e tutto sommato rassicurante della realtà che appare ancora fondata su valori saldi come il lavoro e l'autenticità della vita dei campi, grazie ai quali l'uomo può fronteggiare le tempeste della vita. Pascoli, al contrario, ci presenta un mondo privo di sicuri punti di riferimento, contraddittorio, inquietante e funereo.