Il Velo Dissolto

Racconto complesso, di raffinata indagine psicologica e ricco di stregate atmosfere, "Il Velo Dissolto" dimostra quanto George Eliot, pseudonimo di Mary Ann Evans, pur mantenendo intatto il suo realismo pessimistico, sempre orientato verso una gelida  e sorvegliatissima ironia, conoscesse e fosse disponibile a trattare il genere nero.

"The Lifted Veil" ("Il Velo Dissolto") esce nel 1859 quando George Eliot - cioè Mary Ann Evans - ha già pubblicato tre racconti che formano il volume di "Scenes of Clerical Life" e "Adam Bede", il primo romanzo di vasto respiro che consolidò la sua fama nascente ottenendo un gran successo.

La Eliot, non più giovanissima, sfidava a viso aperto il perbenismo dei benpensanti vittoriani vivendo senza essere sposata con George H. Lewes, appartenenti al gruppo positivista. Nel 1860 esce "Il Mulino sulla Floss", il suo libro più popolare. 

"Il Velo Dissolto" è l'opera insolita, probabilmente suggerita dal lungo soggiorno a Ginevra fatto dieci anni prima. è un racconto complesso, di indagine psicologica e con un'atmosfera stregata, con omissioni e terribili allusioni. è stato osservato che la storia del "Velo Dissolto" "di una ricerca in cui trovarsi significa perdersi per sempre, nella vertiginosa caduta nell'abisso della perdita dell'identità"

"Tenebre, tenebre, nessun dolore - null'altro che tenebre... Passo e ripasso nelle tenebre: i miei pensieri diventano tutt'uno con quell'oscurità, con la sensazione di sprofondarvi sempre di più..."

Quando il velo sembra dissolversi ecco che insieme a lui sembra dissolversi il mondo intero: "L'unica porta che può ancora aprirsi a una relazione autentica, non illusoria con il mondo, è quella della morte: trovarsi, sciogliere l'enigma ha veramente voluto dire perdersi; l'orrore che trionfa al cadere del velo non è differente dall'orrore che aveva portato il protagonista a innalzarlo."


***

Il momento della mia morte si avvicina. Negli ultimi tempi sono andato soggetto ad attacchi di angina pectoris, e da come vanno queste cose, stando a quel che dice il mio medico, posso sperare che la mia vita non si prolunghi ormai più di qualche mese. A meno che, dunque, io non sia afflitto, oltre che da facoltà mentali fuori del comune, anche da una costituzione fisica molto forte, non dovrò sopportare ancora per molto il gravoso fardello di questa esistenza terrena. Se fosse altrimenti - se dovessi vivere fino a quell'età alla quale la maggior parte degli uomini aspira e si prepara - saprei, per una volta, se la pena di un'attesa delusa può essere maggiore di quella provocata da una previsione esatta. Perché io prevedo il momento della mia morte e tutto quanto accadrà in quegli istanti estremi. Esattamente tra un mese, il 20 settembre 1850, alle dieci di sera, mi troverò seduto su questa poltrona, in questo studio, stanco di intuire e di prevedere ancora, senza delusioni e senza speranze. Mentre guarderò la lingua bluastra di una fiamma alzarsi nel camino e la lampada starà languendo, comincerà nel mio petto l'orribile contrazione.

Avrò appena il tempo di raggiungere il campanello e tirare con forza il cordone prima che sopraggiunga il senso di soffocamento. Nessuno risponderà alla mia chiamata. Io so perché. I miei due domestici sono amanti, e avranno litigato: la governante se ne sarà andata via di casa furiosa due ore prima, sperando di far credere a Perry che si sarebbe annegata. Alla fine Perry, allarmato, le è corso dietro. La piccola sguattera si è addormentata su una panca: non risponde al campanello, non si sveglia neppure... il senso di soffocamento cresce: la lampada si spegne, con un orribile puzzo... compio un enorme sforzo, mi attacco di nuovo al campanello. Ho paura di morire, ma nessuno viene in mio aiuto. Avevo sete di cose sconosciute; quella sete è scomparsa. O Dio, lasciatemi con ciò che già conosco e di cui già sono stanco: non chiedo altro. Agonia di dolore e soffocamento - e intanto la terra, i campi, il ruscello sassoso dietro il gruppo di vecchie casupole, il sentore di fresco dopo la pioggia, la luce del mattino attraverso la finestra della mia camera, il caldo del focolare dopo l'aria gelata - su tutto questo scenderanno per sempre le tenebre?  

Tenebre - tenebre - nessun dolore - null'altro che tenebre... Passo e ripasso nelle tenebre: i miei pensieri diventano tutt'uno con quell'oscurità, con la sensazione di sprofondarvi sempre di più...

Prima che venga quel momento, voglio usare le mie ultime ore di lucidità e di forza per raccontare la storia della mia vita. Prima d'ora non mi sono mai confidato a fondo con nessun essere umano; non mi sono mai sentito incoraggiato a far conto sulla comprensione dei miei simili. Una volta morti, però, tutti abbiamo diritto a ottenere compassione, tenerezza, carità: solo i vivi non ottengono perdono - i vivi allontanano l'indulgenza e il rispetto degli uomini come il vento impetuoso dell'est allontana la pioggia.

Finché il cuore batte, feritelo, è la vostra sola opportunità; finché gli occhi possono ancora volgersi verso di voi colmi di preghiere e di lacrime, freddateli con uno sguardo gelido e crudele; finché l'orecchio, il delicato messaggero delle cose più segrete dell'animo, può ancora percepire i toni della gentilezza, sbarazzatevene con fredda cortesia, con beffarda affabilità, con affettata indifferenza; finché l'intelletto creativo freme davanti all'ingiustizia, struggendosi per un desiderio di fratellanza umana, affrettatevi, opprimetelo con i giudizi malevoli, con i paragoni superficiali, con la noncuranza che distorce le cose. A lungo andare il cuore non batterà più - ubi saeva indignatio ulterior cor lacerare nequit; gli occhi cesseranno di chiedere; l'orecchio diventerà sordo; la mente avrà smesso di pensare e non avrà bisogno di nulla. Allora i vostri discorsi caritatevoli potranno avere sfogo; potrete ricordare e compatire la fatica, la lotta disperata, il fallimento; allora potrete dare il giusto valore a quanto di buono era stato fatto, trovare le attenuanti agli errori e magari accettare di dimenticarli. Sono discorsi banali, da libro di scuola; perché mi ci sono fermato su? Non mi riguardano gran che, visto che non lascerò dietro niente che possa venir ricordato dagli altri. Non ho parenti che possano risanare, piangendo sulla mia tomba, le ferite inflittemi mentre ero con loro. Solo la storia della mia vita forse potrà, dopo la morte, procurarmi presso gli estranei una simpatia maggiore di quella che abbia mai sperato di riscuotere dagli amici mentre ero vivo.

La mia infanzia, per contrasto con gli anni successivi, mi appare forse più felice di quanto non sia stata in realtà. A quel tempo la cortina del futuro era per me impenetrabile, come per gli altri bambini; come loro conoscevano tutte le gioie dell'ora presente, tutte le dolci, infinite speranze del domani.

Avevo una madre piena di tenerezza; anche ora, dopo il triste scorrere di tanti, ritrovo la traccia di una sensazione mai dimenticata al ricordo delle sue carezze mentre mi teneva sulle ginocchia - quelle braccia intorno al mio corpo piccino, la sua guancia premuta contro la mia. Una malattia agli occhi mi rese cieco per un breve periodo, e mia madre mi tenne in grembo dalla mattina alla sera… Quell'amore senza uguali scomparve presto dalla mia vita, e anche per la mia coscienza infantile fu come se l'esistenza fosse divenuta più gelida.

Come prima cavalcavo il mio piccolo pony bianco con lo stalliere a lato, ma non c'erano più occhi amorosi a guardarmi alla partenza, né braccia liete ad aprirsi per me al ritorno. Forse l'amore di mia madre venne a mancarmi più di quanto sarebbe mancato a qualsiasi altro bambino di sette o otto anni, per il quale tutte le altre gioie della vita sarebbero rimaste intatte; ma certamente ero un bambino molto sensibile. Ricordo ancora la trepidazione mista a un delizioso eccitamento che mi prendeva udendo il calpestio dei cavalli rimbombare sull'impiantito delle stalle; il risuonare delle voci degli stallieri, il confuso abbaiare dei cani che esplodeva quando la carrozza di mio padre passava con fragore sotto l'arco d'ingresso del cortile; il suono del gong che annunciava il pranzo e la cena…

Il passo cadenzato dei soldati che talvolta percepivo - la casa di mio padre era vicina a una capitale di contea piena di grandi caserme - mi faceva singhiozzare e tremare, eppure quando era passato desideravo che tornasse ancora […]

Nelle mie precedenti esperienze in fatto di sogni non mi era mai accaduto qualcosa del genere; anzi, spesso avevo provato un senso di mortificazione perché solo il frequente terrore degli incubi che li accompagnava aveva a volte impedito ai miei sogni di venire definiti sconnessi e banali.

Ma non potevo credere di aver dormito: ricordavo distintamente il graduale manifestarsi della visione, come nuove immagini su uno scenario in dissolvenza o come una panorama che si fa nitido allorché il sole dissolve il velo della nebbia mattutina. E mentre ero conscio dell'inizio di questa visione, mi ricordavo al tempo stesso di Pierre, entrato per annunciare a mio padre che il signor Filmore lo stava aspettando, e di mio padre che usciva in fretta dalla stanza… No, non era stato un sogno.

Forse era - e il pensiero mi si riempì di trepida esultanza - era il dono della poesia, finora solo torbida e travagliata sensibilità, che improvvisamente si mutava in una spontanea creazione? [...]