La Portatrice di Ceneri (racconto) con sottofondo di My Dying Bride

Un racconto che lessi da ragazzina, e che oggigiorno apprezzo ancora di più... Un consiglio: leggetelo con sottofondo di questo album dei My Dying Bride (che mi ha tenuto compagnia mentre lo trascrivevo) che è uno dei miei album preferiti della Mia Sposa Morente... 💜💀




L'alta, solenne donna nera reggeva l'urna delle ceneri con entrambe le mani. I capelli ricciuti, color ebano, le arrivavano alle spalle. Il suo corpo era coperto di tela grezza; i suoi piedi erano scalzi. Non possedeva nulla, al mondo, tranne l'urna.

Mentre attraversava il villaggio gli abitanti ammutolirono e si fecero da parte, impauriti da quella presenza temuta e indesiderata, che annebbiava la loro vista e faceva irrigidire i loro corpi. Tuttavia le permisero di passare.

La Portatrice di Ceneri camminava a testa alta, lo sguardo fisso di fronte a sé. Davanti a lei, la gente taceva; dietro di lei, la gente mormorava, segnandola a dito. All'improvviso Luke, l'uomo più coraggioso del villaggio, le si parò di fronte. La Portatrice di Ceneri, però, non cercò di aggirarlo, e la cosa mandò Luke su tutte le furie.

"Chi sei? Perché sei venuta qui?", chiese.

Gli altri, meno coraggiosi, gli si fecero intorno. 

Ormai la Portatrice di Ceneri, anche se avesse voluto, non avrebbe più potuto girargli intorno. "Vengo in pace", disse la donna. "Lasciatemi andare in pace."

"Prima dimmi chi sei", ordinò Luke, più baldanzoso, ora che non era più solo e che aveva udito la voce di lei, bassa e carezzevole. "E dimmi di chi sono le ceneri che porti e perché le porti."

La donna osservò Luke con fermezza, senza battere ciglio. Spostò leggermente la testa, per esaminare i giovani e i vecchi che le sbarravano la strada, alle spalle di Luke: c'erano neonati in braccio alle loro madri, uomini robusti e giovani donne.

"Lasciatemi passare", disse la Portatrice di Ceneri, con voce tranquilla.

Luke si chinò per raccogliere un sasso e gli altri lo imitarono. I loro occhi brillavano, accesi.

"Rispondi alle mie domande e ti lascerò passare."

"Sono la Portatrice di Ceneri. Non cerco guai, ma solo pace... Lasciami passare."

"Di chi sono le ceneri nell'urna? Di un amante? Di un marito?", chiese una voce diversa. Altri mormorarono la stessa domanda.

La donna non rispose. Che cosa avrebbe potuto dire, per convincere quella gente? Aveva detto la verità tante e tante volte, ma ne aveva ricavato solo sassi e percosse.

Era stata colpita e, dunque, aveva dovuto colpire.

Era stanca, esausta… aveva la morte nel cuore. Stanca di viaggiare; stanca di nuove città, di nuovi villaggi e di nuovi volti; ma soprattutto, stanca di imbattersi sempre negli stessi pregiudizi.

Luke le si avvicinò; i suoi occhi brillavano, avidi. "Di che cosa vivi? Porti con te solo la tua urna. Non credo sia piena di cenere; sento odore di oro e gioielli."

La Portatrice di Ceneri strinse a sé l'urna.

"Dammela!"

"No, non posso", disse tristemente, ben sapendo che, anche quella volta, sarebbe stata sconfitta.

Luke si girò, rivolgendosi agli altri.

"Prendetela e tenetela stretta, amici miei! Porta ricchezze per tutti noi. Lo sento!"

La Portatrice di Ceneri fu rapidamente atterrata; molte mani le impedivano di muoversi.

"Non apritela. Per favore, non apritela", cercò di dire, nonostante avesse la bocca piena di sangue.

La folla ammutolì. Luke teneva in mano l'urna; con avidità, ne sollevò il coperchio e vi guardò dentro.

La Portatrice di Ceneri chiuse gli occhi, sforzandosi di liberare il grido che aveva dentro, perché tutti lo sentissero. Eccolo, infine: un ululato da far gelare il sangue… se ci fosse stato qualcuno ad ascoltarlo.

Poi venne il pianto… così triste…

La Portatrice di Ceneri si alzò in piedi e, prima di guardarsi intorno, si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

Non c'era più niente, più nessuno.

Richiuse l'urna, la sua urna senza fondo, piena di ceneri, piena di anime.

Con lentezza, la raccolse: era più pesante, ora; come lei, fin dall'inizio, sapeva che sarebbe stato.

E riprese il suo cammino solitario.


Il Suicidio di Heinrich von Kleist

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"Adolphine Sophie Henriette Vogel e Heinrich von Kleist si sono uccisi e hanno lasciato insieme questo mondo spinti dal puro desiderio di un mondo migliore. Si tratta di un gesto che non accade spesso e di due persone che non possono essere misurate con un metro comune."

Questo annuncio comparve sul giornale il 28 novembre 1811, una settimana dopo il dramma e cercava di spiegare il duplici suicidio che aveva scosso la Germania e che aveva macchiato l'onore della famiglia von Kleist, orgogliosa della sua antica nobiltà.

La pietra dello scandalo era il poeta drammaturgo romanziere Heinrich von Kleist nato a Francoforte nel 1777, rinnegato dai Kleist come "membro inutile della società".

La sua vita fu all'insegna dell'insoddisfazione, del rifiuto, dell'insuccesso.

Orfano di entrambi i genitori, entrò appena 15enne nel reggimento delle guardie di Potsdam, partecipando alla battaglia del Reno contro la Francia della Rivoluzione.

Ma la durezza della disciplina e della vita militare lo portarono, a 22 anni, a chiedere il congedo.

Il suo animo fu preso dall'angoscia: si sentiva una marionetta in balia dei superiori. Era dilaniato dal dualismo fra i doveri dell'uomo e quelli dell'ufficiale.

Intanto la famiglia disapprovava la sua scelta di interrompere la carriera militare (era stato promosso tenente), spingendolo verso una sistemazione.

Heinrich si fidanzò con Wilhelmine von Zeuge, figlia di un generale e studiò con lei un progetto di vita; all'Università di Francoforte studiò filosofia, matematica, diritto, fisica; ebbe una cultura vasta, ma affrettata; una lettura superficiale di Kant gli diede la convinzione che nemmeno la filosofia poteva dargli una certezza, una verità, un valore assoluto in cui credere.

Venne assunto, come volontario, nel Comitato per le manifatture del Ministero Prussiano dell'Economia.

Il suo animo tormentato cadde in una crisi profonda: il dualismo fra uomo e soldato si ripresentava ora fra uomo e burocrate: in caserma era un burattino agli ordini dei superiori, in ufficio uno strumento nelle mani dello Stato.

Dopo aver rifiutato l'esercito, rifiutava anche una vita burocratica, che gli avrebbe permesso un buon inserimento nell'ambiente borghese.

Prese a vagabondare per l'Europa.

Giunto a Parigi con la sorella Ulriche, unico vero affetto della sua vita e compagna che avrebbe voluto nel suicidio, Kleist sperava di trovare realizzati gli ideali della Rivoluzione ma restò deluso: "A Parigi ho incontrato la massima depravazione accompagnata dal più alto grado raggiunto dalla scienza."

Vagheggiò quindi un ritorno alla Natura, secondo le teorie di Rousseau, e pensò di acquistare un podere su un'isoletta del lago di Thun, in Svizzera e di vivere del lavoro della terra.

Il sogno però non convinse la fidanzata, che ruppe il fidanzamento.

Fallito sul piano sentimentale, Kleist si propose un altro scopo: quello di diventare il più grande poeta della nazione.

Nacque in lui una nuova ossessione: quella dell'autoaffermazione del soggetto che non riesce a trovare una meta abbastanza grande cui aspirare.



La Cascina della Morte

Info tratte da

Cascina "Della Morte" (scomparsa): cascina antichissima, di proprietà dei canonici di San Nazaro di Milano; era posta vicino a Cascina dei Prati, in prossimità dell'oratorio di san Matroniano.

Per raggiungerla c'era una strada apposita che partiva da Viboldone, poco dopo Videserto, sulla destra.

Venne nominata negli atti del censimento del 1537 dove si cita "Francesco Grasso, massaro nella Cascina della Morte"

Nelle mappe antiche attorno a questa cascina figurano il Prato della Morte e il Bosco della Morte, un fontanile che nasceva vicino alla cascina, chiamato Il Fontanile della Morte.

Non conosciamo l'origine di questa denominazione, possiamo solo dire che attorno ai prati su cui sorgeva si svolse un'aspra battaglia tra milanesi e truppe imperiali di Federico II nel 1239 e che sempre in quel luogo vi era il borgo di Madregnano, scomparso.

La cascina venne abbattuta nel 1800 e apparteneva al comune di Sesto Ulteriano.

Nei registri del Monastero di Viboldone appare anche una Cascina Novella (1558), descritta come una casa con cortile e fienile, ubicata vicino a Montone, e poi scomparsa. Non sappiamo nient'altro.


Storia di Pedriano (con foto del 2025 e cose nuove che ho scoperto!)

Avevo già dedicato un post a Pedriano (così piccino, eppure la ricerca storica che più mi ha dato soddisfazione, insieme a Villastanza, Villapia e Mantegazza) https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2023/08/la-cappella-degli-ex-voto-pedriano.html ma visto che mi era venuta nostalgia 💜 ci sono tornata. Ecco foto molto più nitide rispetto a quelle del 2023! E nuove cose che ho scoperto 😍😁

***

Nota di Lunaria: è dal 2019 che conosco Pedriano, ma non ero mai andata da sola, a piedi, bensì lo avevo visto passandoci in macchina, come "passeggera". L'ultima volta lo vidi il 20 agosto 2023, verso le 20.30 e pur avendo scattato le foto della Cappella degli Ex Voto, non erano venute molto nitide.

Negli ultimi tempi, provando nostalgia per quelle zone (che amo molto) ci sono ritornata, questa volta a piedi, "mettendomi alla prova" (non sono proprio percorsi facili ed immediati da raggiungere...) e ho scattato le foto, che sono venute più nitide. Perciò riaggiorno la ricerca su Pedriano, con le foto scattate il 6 Ottobre 2025, in una bella giornata autunnale solare (fare tutto quel percorso a piedi, nei campi, da sola, è stata una bella esperienza, e sono arrivata fino all'Ossario di Mezzano) 



Inoltre rispetto alle altre volte, studiando bene Pedriano con googlemaps, sono riuscita a localizzare l'ex cimitero (del quale esisteva una foto, ma in bianco e nero)

Ebbene, l'ho scattata io a colori e giustamente rivendico questo ex cimitero con i Capolavori degli Abysmal Grief, che ho tenuto come sottofondo per questa Impresa Lunariale! 

Ad Maiorem Metal Gloriam! 💜💀

Info tratte da

La prima notizia riguardante il borgo di Pedriano è contenuta in un atto del 1090 in cui vengono nominati paesi e fondi del milanese, e tra questi si trova anche un "Pudriano".

Nel XIII secolo, nell'elenco del Bussero, si trova menzione di un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo (protettore dei Longobardi) Questo potrebbe indicare che alle origini, a Pedriano, si fosse stanziato un gruppo di soldati dell'esercito longobardo.

Le terre di Pedriano furono via via proprietà di famiglie diverse: Litta, Cottica, Crivelli, Castano, della Corte, che possedevano anche il mulino del vettabiolo e il diritto d'uso delle acque della Vettabbia del Priorato di Calvenzano.

Al nucleo iniziale di Pedriano nel 1600 fu aggregata la Cascina Maiocca. [Nota di Lunaria: ci sono diverse "cascine" a Pedriano, e non so quale possa essere o se esista ancora, perciò metto la foto di una cascina, anche se non so se sia Cascina Maiocca]

Nel 1570 a Pedriano vi erano 127 abitanti, nel 1722 296 e nel 1862 vi era un totale di 837 abitanti.

Nel 1722 vi erano un'osteria e un prestino; nel 1869 Pedriano venne aggregato a Viboldone.

Dell'antichissima chiesa di Pedriano, dedicata a San Michele Arcangelo, non abbiamo molte notizie, ma si sa che esisteva fin dal XIII secolo.

Era un piccolo oratorio, con altare di legno e un crocifisso in oricalco; nella parete dietro l'altare era dipinto il trionfo di San Michele; il pavimento era in cemento, due finestre e la porta si apriva sul lato ovest; era a forma quadrata e attorno ad esso vi era il cimitero, chiuso da un cancello di legno.

Il campanile era già stato costruito nel 1587; da una fonte del 1749 sappiamo che si accedeva all'oratorio scendendo dei gradini di marmo perché il livello della chiesa era più basso rispetto alla strada: la chiesa era antichissima perciò venne interrata dall'innalzamento del terreno causato dalle sepolture circostanti.

Non sono rimasti disegni di questa chiesa, se non uno schizzo planimetrico del 1867: essa sorgeva alle spalle dell'abitato di Pedriano, vicino a Cascina Colombara.

Cadente, fu demolito [Nota di Lunaria: manca la data; non è chiaro se la chiesa sia stato demolita poco dopo il 1867 o nel '900] ma per perpetuarne la memoria, fu costruita sulla strada comunale una cappelletta votiva, unico ricordo dell'oratorio di San Michele Arcangelo, fondato all'epoca della dominazione longobarda 



[Nota di Lunaria: ho guardato all'interno di questa cappella e uno degli ultimi ex voto appeso alle pareti è datato 1988, il che lascia intendere che almeno fino al 1988 la gente ha continuato a pregare attorno a quella cappelletta e a mettere ex voto per le grazie ricevute. Non ho però visto riferimenti a San Michele Arcangelo, ma è presente un quadro di una Madonna con Bambino e una statuetta di un santo che potrebbe essere San Giuseppe o san Pietro… Ad ogni modo non credo che prima di me qualcuno abbia scattato foto dell'interno della Cappella - che peraltro, non sembra neanche una cappella, da tanto è diroccata, ma un magazzino per gli attrezzi, se non fosse per la piccola croce che fa capolino dal tetto, e che dubito davvero venga notata dagli automobilisti di passaggio… - perciò la rivendico come MIA ESCLUSIVA]














 

Non si sa quando il cimitero di Pedriano, posto attorno alla chiesa antica, sia stato chiuso alle inumazioni; i suoi defunti ad un certo punto vennero portati a Melegnano.



Nel 1792 si costruì un altro camposanto, in un'area isolata, dove ora vi è la via San Francesco di Melegnano (chiamato "el cimiteri di rann") [Nota di Lunaria: oggigiorno non credo sia rimasto più niente, ma quella via non l'ho percorsa tutta, e tra l'altro è l'unica via percorribile a piedi per raggiungere Pedriano]

L'area su cui sorgeva venne ceduta al Comune di Melegnano nel 1942, assieme alla cascina Maiocca e alla Maiocchetta, e i defunti di Pedriano e Mezzano lì sepolti vennero trasferiti a San Giuliano Milanese.

Nel 1932 venne costruito il sottopasso conducente da San Giuliano a Sant'Angelo e la costruzione della strada Binasca [Nota di Lunaria: tristemente nota perché è stata spesso usata come luogo per la prostituzione e lì, nel 2021, è stata barbaramente accoltellata una donna, Luljeta, e nel campo dove è stata aggredita compare una croce] hanno stravolto questo lembo del territorio sangiulianese.





Nota di Lunaria: tornando indietro verso Melegnano, ho notato quella che sembra essere una cappella:




La vedo anche dal finestrino del treno e in effetti mi chiedevo come mai Melegnano, che ha conservato tante nicchie e affreschi votivi, non avesse una cappella... Possibile che quello fosse "el cimiteri di rann" e magari si è salvata solo questa cappella? 

Visto che è una specie di cantiere abbandonato non posso neanche entrare per vedere se effettivamente trattasi di una cappella...


Byron: "Un Frammento"

Nell'anno 17... poiché da tempo avevo deciso di fare un viaggio in paesi fino ad allora poco frequentati, partii accompagnato da un amico che chiamerò col nome di Augustus Darvell. Questi era maggiore di me di pochi anni e possedeva una notevole fortuna e un titolo nobiliare di antica data, vantaggi che la sua grande intelligenza gli impedivano di sottovalutare ma anche di tenere in eccessiva considerazione. Alcune particolari circostanze della sua vita avevano attirato la mia attenzione, il mio interesse e perfino un rispetto che né il suo riserbo né le occasioni manifestazioni di inquietudine, che rasentavano a volte l'alienazione mentale, erano riusciti a cancellare.

Io ero ancora un neofita in un genere di vita che avevo intrapreso molto presto, ma la mia intimità con lui era di recente data. Avevamo frequentato le stesse scuole e la stessa università, ma lui vi era andato prima di me e da tempo era stato iniziato a quello che viene comunemente definito il mondo, mentre io vi stavo ancora facendo il mio noviziato. Durante questo periodo avevo spesso sentito parlare della sua vita passata e presente; e benché tali racconti contenessero ogni sorta di contraddizioni insanabili, pure nel complesso ne dedussi che doveva trattarsi di una creatura fuori del comune, che, pur facendo ogni sforzo per non farsi notare, non poteva passare inosservata. In seguito avevo coltivato la sua compagnia e avevo cercato di conquistarmi la sua amicizia, cosa però che sembrava impossibile: qualsiasi fossero stati i suoi affetti precedenti, ora sembravano scomparsi o concentrati su pochissimi oggetti.

Che le sue emozioni fossero acute ebbi spesso modo di notarlo, perché, pur riuscendo a controllarsi, non poteva dissimularle completamente.

D'altro canto aveva la capacità di dare a una passione le apparenze di un'altra, per cui era difficile stabilire esattamente che cosa gli si agitasse dentro.

Per di più sul suo viso le espressioni si succedevano così rapidamente anche se in modo impercettibile, che era inutile cercare di rintracciarne la causa.

Una cosa comunque era evidente, che fosse vittima di un'incurabile ansia.

Ma non riuscii a scoprire se questa era dovuta all'ambizione, all'amore, al rimorso, al dolore, a una o a tutte queste passioni messe insieme, o semplicemente a un temperamento morboso fino all'instabilità.

Si sarebbero potute citare circostanze a sostegno di ciascuna di queste ipotesi.

Ma come ho detto, queste erano così contraddittorie tra loro e così spesso smentite, che non se ne poteva dare nessuna per certa.

Dove c'è un mistero, si dice generalmente che ci sia anche del male.

Io non saprei: c'era senz'altro un mistero, ma in quanto al male non riuscii mai ad accertare fino dove arrivasse, anzi per quello che mi riguardava ero perfino restio a credere che esistesse.

Le mie offerte d'amicizia furono accolte con evidente freddezza, ma ero giovane e non mi scoraggiavo facilmente, per cui alla fine riuscii a ottenere quello scambio di vedute e quella superficiale confidenza basata su interessi simili e su frequenti incontri in società, che vengono definiti amicizia o intimità a seconda del punto di vista di chi parla.

Darvell aveva già viaggiato molto. A lui perciò mi rivolsi per ottenere consigli e informazioni sul viaggio che intendevo fare. In segreto nutrivo il desiderio di riuscire a convincerlo ad accompagnarmi, una speranza abbastanza fondata perché si basava sull'ombrosa irrequietezza che avevo già osservato in lui e che l'animazione con cui discuteva di quegli argomenti e l'indifferenza che sembrava provare per tutti coloro che lo circondavano non facevano che rafforzare.

Dapprima accennai solo indirettamente a questo mio desiderio, poi glielo espressi chiaramente: la sua risposta, anche se in parte scontata, mi riempì di gradevole sorpresa: acconsentiva.

Così fatti i preparativi necessari partimmo.

Dopo aver visitato diversi paesi nel sud dell'Europa volgemmo gli occhi verso l'Oriente, che era stato fin dall'inizio la nostra meta.

E fu proprio attraversando quelle regioni che ebbe luogo l'incidente intorno a cui ruota quanto sto per raccontare.

La fibra di Darvell, che, a giudicare dal suo aspetto, in gioventù doveva essere stata più robusta, da qualche tempo non era più la stessa, apparentemente senza che fosse intervenuta alcuna malattia specifica.

Non soffriva di tosse né di tisi, eppure si faceva ogni giorno più debole.

Era di abitudini parche e non evitava la fatica né se ne lagnava.

Ma era ovvio che andava consumandosi.

Si faceva sempre più silenzioso e dormiva sempre meno, e alla fine apparve così prostrato che il mio allarme crebbe in proporzione al pericolo che sembrava lo minacciasse.

Avevamo deciso che arrivati a Smirne avremmo fatto un'escursione per visitare le rovine di Efeso e di Sardi, escursione da cui cercai di dissuaderlo, visto il suo incerto stato di salute. Ma invano!

Eppure sembrava esserci in lui un senso di oppressione e una solennità di modi in contrasto con il suo vivo desiderio di partecipare a quella che consideravo semplicemente come una gita di piacere, poco adatta ad una persona sofferente. Alla fine però non opposi più resistenza, e pochi giorni dopo partimmo accompagnati da una sola carrozza e da un unico giannizzero.

Eravamo a più di metà strada per Efeso. Ci eravamo lasciati indietro le campagne fertili dei dintorni di Smirne e stavamo ora attraversando tra gole e paludi quel tratto di territorio brullo e disabitato che conduce alle poche capanne ancora in piedi intorno alle colonne in rovina del tempio di Diana, alle mura diroccate un tempo frequentate da una comunità cristiana o alla più recente ma totale desolazione di alcune moschee in abbandono, quando un improvviso e violento malessere del mio amico ci costrinse a fermarci in un cimitero turco, dove le lapidi sormontate da un turbante erano l'unico segno che qui un tempo erano vissuti degli esseri umani. Avevamo lasciato l'unico caravanserraglio che avessimo incontrato a qualche ora di cammino. Non si vedeva segno di città o casolare né si poteva sperare di incontrare più avanti. Questa "città dei morti" era apparentemente il solo rifugio dove il mio povero amico, che sembrava sul punto di trasformarsi anch'egli in uno dei suoi abitanti, poteva trovare asilo.

Stando così le cose mi guardai attorno per trovare un angolo dove potesse riposare il più comodamente possibile. Ma, contrariamente a quanto avviene di solito nei cimiteri maomettani, non c'erano molti cipressi e quei pochi sorgevano isolati qua e là mentre le lapidi erano quasi tutte cadute e giacevano a terra consunte dal tempo.

Sostenendosi a fatica il mio amico si adagio su una delle più grandi, sotto l'albero più folto. Chiese dell'acqua.

Dubitavo di riuscire a trovarne e mi preparai ad andare a cercarla tra mille incertezze e preoccupazioni. Ma lui chiese che gli restassi accanto e, volgendosi a Suleiman, il nostro giannizzero, che se ne stava in piedi lì vicino fumando tranquillamente, disse: "Suleiman, verbana su" ("vai a prendere dell'acqua") e si mise a descrivergli con dovizia di particolari il luogo dove trovarla, un piccolo pozzo per cammelli a poche centinaia di metri sulla nostra destra. Il giannizzero ubbidì. Chiesi a Darvell: "Come facevate a saperlo?"

E rispose "Dalla configurazione del terreno: vi sarete accorto che una volta questo era un luogo abitato. Non avrebbe potuto essere così se non ci fossero state delle sorgenti. E poi sono già stato qui."

Feci seguire una domanda ma non ottenni risposta. Nel frattempo Suleiman tornò con l'acqua, dopo aver lasciato carrozza e cavalli alla fonte. Una volta placata la sete, per un attimo sembrò riaversi, tanto che cominciai a sperare che potesse riprendere il viaggio, almeno per tornare indietro.

E lo pregai vivamente di tentare. Rimase in silenzio: sembrava che stesse raccogliendo le forze per parlare. Infine disse: "Questa è la fine del mio viaggio e della mia vita: sono venuto fin qui per morire. Ma c'è una richiesta che voglio farvi, anzi, un ordine, perché tali saranno per voi le mie ultime parole. Lo eseguirete?"

"Certo; ma spero che tutto si metterà per il meglio."

"Io non ho più speranze né desideri, eccetto questo: che non riveliate la mia morte ad anima viva."

"Spero che la cosa non sarà necessaria. Vi rimetterete e..."

"No, così deve essere. Promettete."

"Lo prometto."

"Giuratelo per tutto quello che...", e qui mi chiese di ripetere le parole di un solenne giuramento.

"Non è necessario. Esaudirò la vostra preghiera e dubitare di me è..."

"Non se ne può fare a meno: dovete giurare."

Prestai giuramento e la cosa sembrò sollevarlo. Si tolse dal dito un anello a sigillo con delle lettere arabe e me lo consegnò.

Poi continuò: "Il nono giorno del mese, a mezzogiorno in punto (potete scegliere il mese che volete, ma il giorno deve essere quello) gettate questo anello nella sorgente d'acqua salata che sfocia nella Baia di Eleusi. Il giorno dopo alla stessa ora recatevi alle rovine del tempio di Cerere e aspettate per un'ora."

"Perché?"

"Vedrete."

"Il nono giorno del mese, avete detto?"

"Il nono."

Quando gli feci osservare che quello era il nono giorno del mese, la sua espressione cambiò ma non disse nulla.

Mentre stava così, facendosi evidentemente sempre più debole, una cicogna con una serpe nel becco si posò su una lapide accanto a noi e rimase a guardarci fisso, senza divorare la preda.

Non so cosa mi spinse a cacciarla via, ma il tentativo fu inutile: fece alcuni giri in aria e tornò a posarsi esattamente nello stesso punto.

Darvell me la indicò e sorrise.

Disse - non se se a se stesso o a me - ma queste furono le sue parole, "Va bene."

"Che cosa va bene? Che volete dire?"

"Non importa. Questa sera dovete seppellirmi esattamente dove è appollaiato quell'uccello. Il resto lo sapete."

Poi passò a darmi istruzioni su come nascondere più efficacemente la sua morte.

Infine esclamò: "Vedete quell'uccello?"

"Certamente."

"E il serpente che gli si contorce nel becco?"

"Senza dubbio. Non c'è niente di strano: è la sua preda naturale. Quello che è insolito è che non lo divori."

Ebbe un sorriso spettrale e disse debolmente "Non è ancora l'ora!"

Mentre parlava, la cicogna volò via.

I miei occhi la seguirono per un attimo - non più di quanto ci voglia per contare fino a dieci. Sentii Darvell, appoggiato alla mia spalla, farsi più pesante e, giratomi a guardarlo in viso, mi accorsi che era morto!

Ma restai sconvolto dal suo cambiamento, così repentino da non lasciare dubbi - in pochi istanti il suo volto era diventato quasi nero.

Fui tentato di attribuire la cosa all'azione di un veleno ma ero certo che non poteva averne preso senza che me ne fossi accorto.

Il giorno stava declinando e il suo corpo si decomponeva velocemente, per cui non rimase altro da fare che adempiere alla sua richiesta.

Con l'aiuto del pugnale di Suleiman e della mia sciabola scavammo una fossa poco profonda nel luogo in cui Darvell mi aveva indicato. La terra era soffice, avendo già ospitato qualche musulmano.

Scavammo rapidamente finché ci fu luce e, dopo aver gettato di nuovo la terra sui resti dell'essere singolare che era spirato, tagliammo alcune zolle più verdi dove il terreno lì attorno era meno secco e le deponemmo sulla tomba.

Per la meraviglia e il dolore non avevo versato una lacrima.


Il Funerale di Giovanni Galeazzo Visconti

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Nel 1400, a Milano e dintorni, si sviluppò una nuova epidemia di peste che causò circa 20.000 morti.

Giovanni Galeazzo Visconti, signore della città, fece emanare una serie di disposizioni per combattere il flagello, tra cui quello di stendere un cordone sanitario attorno a Milano, ordinando che l'arrivo delle merci provenienti da sud si dovessero fermare a San Giuliano Milanese.


Il Duca, il 14 luglio 1400, scrisse da Pavia ai XII di provvisione e ai sindaci di Milano, dicendo che non trovava plausibile le loro ragioni di lasciare gli ammalati di peste nelle loro case, anziché trasportarli fuori Milano.

Giovanni Galeazzo dichiarò che era sua intenzione che gli ammalati venissero provvisti di tutto il necessario, sia di medici che di medicinali e che le persone sane, espulse dalla città, dovessero essere ospitate nei monasteri di Viboldone, Chiaravalle, Mirasole, Crescenzago e altri luoghi vicini.

Malgrado le precauzioni prese per debellarla, la peste uccise lo stesso duca di Milano, Giovanni Galeazzo, che morì nel castello di Melegnano il 3 settembre 1402.


La notizia della sua morte fu tenuta nascosta a causa della situazione politica del momento.

Il corpo del Duca fu portato nel monastero di Viboldone, dove gli furono estratti il cuore, in seguito donato alla basilica pavese di S.Michele, e i visceri portati in Francia e sepolti nel santuario di Sant'Antonio di Vienne.

Il corpo rimase a Viboldone.

In una cronaca contemporanea si può leggere che "corpus ex Melignano, ubi per secessum positus obierat Viboldonum per subitationem, jure majorem rerum, traslatum erat (Monasterium illud Humiliatorum est) ibique cum magnis diviis conditum, et sepultum"

I funerali di Stato furono celebrati il 20 ottobre, con una tale grandiosità da superare qualsiasi altra cerimonia dell'epoca: un grande corteo seguì in Duomo il feretro, privo però della salma del Duca, sepolta provvisoriamente nel cimitero del convento di Viboldone, dove rimase sino a quando fu terminato il monumento funebre costruito per lui nella Certosa di Pavia, che l'accolse definitivamente.