Nella torre, Sigismondo è vissuto segregato fin dalla nascita. Il re Basilio, suo padre, ve lo ha rinchiuso nel timore che si avveri un oroscopo secondo il quale il giovane gli si rivolgerà contro umiliandolo e spargendo la discordia nel regno. Per evitare che distrugga l'ordine civile, Basilio lo ha relegato dalla zona luminosa e alta della cultura e lo ha confinato nelle aree buie e basse dalla natura. Uno stato di natura che non è libertà: Sigismondo capirà tardi che l'unica via da percorrere per arrivare a sopportare il sistema di regole che lo opprimono consiste nel farle proprie, nell'interiorizzarle.
Per l'uomo di Calderòn la liberà del desiderio è utopia.
Per metterlo alla prova, Basilio gli fa somministrare un narcotico e lo fa portare a palazzo. L'uomo-fiera si risveglia tra i gesti d'ossequio dei cortigiani. E si scatena. Fa precipitare dalla finestra un domestico che lo contraddice, aggredisce Astolfo, tenta di violentare Rosaura e di uccidere Clotaldo accorso a difenderla.
Soltanto la frustrazione dell'esperienza educherà Sigismondo alla repressione delle pulsioni in omaggio agli ordinamenti e alla cultura. E così si ritrova di nuovo incatenato nella torre: la cultura è un sistema di limitazioni imposte al comportamento naturale dell'uomo; i non acculturati che si lasciano guidare dagli istinti e non sanno auto-regolarsi vengono governati con la coercizione.
Sigismondo è stato portato nel carcere sotto l'effetto di un secondo narcotico, e quando si sveglia Clotaldo gli spiega che l'avventura a corte è stato solo un sogno.
Ma Sigismondo dubita e muove il primo passo verso il rifugio della civiltà.
Uscirà dalla cella, quando un soldato lo libera abbattendo la porta della prigione; la plebe che pretende l'erede legittimo al trono, conduce sul campo di battaglia Sigismondo, vestito di pelli ferine.
Ma il condottiero è ormai accompagnato dallo sconcerto, da un desiderio di integrazione negli spazi della cultura: sul campo di battaglia vincerà, ancor prima che il padre, se stesso.
La civiltà si costruisce dalla repressione pulsionale e Sigismondo vi fa il suo ingresso rinunciando a possedere Rosaura e a sfogare la sua aggressività. Quando suo padre, sconfitto, si inginocchia davanti al figlio, pronto a farsi calpestare, Sigismondo lo rialza e si prostra ai suoi piedi.
La simmetria dei gesti è evidente: Sigismondo si specchia nel padre, l'istituzione dinastica, e viene sacralmente assorbito, iniziando a parlare come il padre.
L'istituzione è salva: Sigismondo si è represso e censurato ma conoscerà la consolatoria e narcisistica gratificazione di specchiarsi in un Io ideale, gridando "Sé quien soy", so chi sono.
Potrà incanalare la sua aggressività nell'esercizio del potere: ed ecco che nella torre viene rinchiuso il soldato che lo ha liberato! A tradimento compiuto, i traditori non servono più.
Con un ultimo gesto autorepressivo, rinuncia a sposare la donna che desidera, Rosaura, scegliendo un matrimonio dinastico con la cugina Stella.
"La vita è sogno" è l'atto di fede di Calderòn nella cultura, privilegiando la sfera dei codici che inscrivesse l'individuo nell'istituzione monarchica, un modello sociale del tempo di Calderòn capace di proteggere dall'angoscia dell'insicurezza.
Ma noi, oggi, non possiamo non scorgere nella cultura i meccanismi di riproduzione del potere, di un ordine che per continuarsi, opprime. Dove all'epoca nell'opera si leggeva il monito "Impara a governarti, e saprai governare", noi oggi percepiamo "Impara a reprimerti e saprai reprimere".
Atto Primo
ROSAURA: Violento ippogrifo che corresti a gara col vento, fulmine senza fiamma, uccello senza colore, pesce senza squame e bruto senza istinto naturale, dove ti sfreni, dove ti trascini, dove ti precipiti nel confuso labirinto di queste rocce nude? Resta tra questi monti, e anche le fiere avranno il loro Fetonte: io, senza altra guida che quella che mi pongono le leggi del destino, discenderò, cieca e disperata, per l'intricata scabrosità di questa montagna eccelsa che mostra al sole il cipiglio della sua fronte.
Male accogli, Polonia, uno straniero, se ne segni sul suolo l'ingresso con il sangue, e appena giunge comincia a soffrire. La mia sorte lo dice: dove mai un infelice ha trovato pietà?
[...] Tra le rupi spoglie sorge un rustico palazzo, così poco elevato che non riesce a mostrarsi al sole; [...] La porta, che sarebbe meglio chiamare funesta bocca, è aperta, e dal suo interno nasce la notte, come se vi fosse generata.
CLARINO: è una catena che tintinna? [...]
ROSAURA: Che triste voce sento! Sono presa da nuove pene e da nuovi tormenti.
CLARINO: E io da nuove paure.
ROSAURA: [...] Fuggiamo dagli orrori di questa torre incantata. [...] Non è un fioco lume quella tremula fiamma, quella pallida stella che con incerti bagliori, palpitando di luce timorosa, rende ancor più tenebrosa la stanza buia con la sua insicura luminosità? Sì. Infatti al suo riflesso, anche così da lontano, riesco a distinguere un'oscura prigione, che è il sepolcro d'un cadavere vivo. E perché la mia meraviglia s'accresca, vi giace un uomo vestito di pelli ferine, carico di catene, che ha per sola compagnia quel lume. Visto che non possiamo fuggire, ascoltiamo di qua le sue sventure. Sentiamo quel che dice.
SIGISMONDO: Oh misero me! Oh me infelice! [...] Il più grande delitto dell'uomo è nascere. Solo vorrei sapere, per placare la mia ansia, e lasciando da parte, cielo, il delitto di nascere, in che altro ti ho potuto offendere perché tu mi castighi così crudelmente. [...] Questa torre è stata per me culla e sepolcro; sebbene fin da quando sono nato, se per me si può parlare di essere nato, non abbia scorto che questo selvaggio deserto, nel quale vivo miseramente, come uno scheletro vivo, come un'anima morta.
Altro testo teatrale consigliato: "Casa di Bambola" di Ibsen
Sulla Poesia Barocca vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/11/i-versi-piu-belli-di-giovanni-battista.html https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/09/poesia-barocca-del-seicento.html