Nuovi commenti all'Opera del Foscolo


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Quando scrisse i "Sepolcri" (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2013/05/dei-sepolcri-i.html) nell'autunno del 1806, Ugo Foscolo aveva 28 anni; viveva a Milano, la capitale della Repubblica Cisalpina, che era il luogo d'incontro dei più validi esponenti del mondo artistico e letterario italiano.
L'opera fu scritta in breve tempo, quasi di getto, anche se la stesura definitiva occupò per vari mesi il poeta, tanto che la prima edizione uscì solo nell'anno seguente.
La spinta a questa breve, ma intensa fatica poetica venne dall'entrata in vigore della legge di Saint-Cloud, che stabiliva un nuovo ordinamento in materia di sepolture (proibizione di seppellire chiunque all'interno degli abitati e uniformità di lapidi e di iscrizioni per tutti). 


La spinta, ma non l'ispirazione: perché i temi espressi nei "Sepolcri" furono quelli che da sempre costituivano il nucleo del suo pensiero e della sua poesia.
Foscolo non era un poeta occasionale, se si fosse limitato solo a quell'argomento, se avesse scritto i "Sepolcri" solo per commentare una legge, avrebbe scritto dei buoni versi, ma non un capolavoro.

In un primo tempo egli intendeva comporre solamente un'epistola in versi, limitandosi a trattare l'argomento della legge sui cimiteri in una forma volutamente ristretta; ma, appena cominciò a scrivere, l'impeto stesso della sua poesia lo portò a lasciare quel progetto per abbandonarsi a un canto in cui potesse esprimere tutta la sua anima di pensatore, di cittadino e poeta.
Fu per questa esigenza interiore e per la necessità stilistica che nasceva da essa che Ugo Foscolo scelse per i Sepolcri la forma poetica più libera, quella del carme.
Questa parola significa letteralmente "composizione poetica": la poesia che si esprime attraverso essa non è arginata da limiti e da schemi di alcun genere.
Il poeta stesso l'aveva definita come la più adatta al suo temperamento: era perciò naturale che vi ricorresse in quel particolare momento di pienezza spirituale e immaginativa.

La poesia dei "Sepolcri"

295 endecasillabi, non rimati né divisi in strofe: una lunga, compatta cascata di versi, nei quali è espresso tutto il fremente mondo interiore del poeta.
Il fascino e la meravigliosa forza evocatrice dei "Sepolcri" nascono appunto da questa pienezza e dalla profonda unità dell'armonia che la esprime.
Non c'è, in tutta la letteratura italiana, un'opera poetica che abbia insieme una così splendida perfezione formale e un così elevato contenuto di pensiero in uno spazio altrettanto breve.
295 versi, e non una similitudine, non uno di quegli artifici ai quali ricorrono spesso anche i grandi poeti: morbido o fremente, squillante o tormentato, il verso fluisce con una capacità espressiva così suggestiva, così pienamente aderente all'idea dell'autore, che qualsiasi arricchimento sarebbe superfluo.

Si può pensare ai "Sepolcri" come a una sinfonia mesta e insieme gloriosa, che prorompe senza sosta nel cuore del poeta.
Analizzando il carme si può scomporlo in varie parti, ma non si tratta di episodi separati, perché tutto è legato da una grandiosa unità di pensiero e di stile.
Proprio come in una grande sinfonia vi sono i vari "tempi" così nei "Sepolcri" si possono distinguere degli ideali capoversi: ma non c'è frattura tra l'uno e l'altro. 

Un grande critico ha definito i "Sepolcri" come un canto essenzialmente religioso. (1)
Foscolo non era credente, eppure la definizione di quel critico coglie la natura del carme.
Anche se non aveva un fede, Foscolo aveva una concezione della vita e della morte, dell'uomo e della storia, che può essere detta una "religione" per la passione e l'ardore con cui egli sentiva e viveva le sue idee.
E nei "Sepolcri", che sono una specie di summa lirica del suo pensiero, noi ritroviamo tutti i temi fondamentali di esso, quelli che possono essere definiti i "dogmi" della sua fede terrena.

LA MORTE: è per Foscolo, la "fatal quiete", il termine ultimo di ogni cosa, un oblio senza fine in cui l'uomo si annulla. Ma non c'è orrore in questa visione che può apparire così pessimista: la morte è accettata nobilmente e serenamente, come un limite inevitabile che, anzi, rende ancor più ardente la passione di vivere.

L'EROISMO: il breve spazio di tempo che ci è concesso dalla vita non deve essere disperso in azioni futili e vane.
Compiendo, sorretto dalla sua libera volontà, gesta nobili e generose, l'uomo si rende cosciente del proprio valore e della sola possibilità che gli è offerta di sollevarsi al di sopra dei bruti.
Questo eroismo come regola di vita non è una semplice esaltazione dell'atto temerario e clamoroso, ma un vigoroso ideale civile e patriottico, un invito ad operare con tutte le forze per il bene della società, che ogni uomo ha il dovere di rendere più libera e più giusta.

LA BELLEZZA: Insieme all'amore, di cui è la fonte, essa è il sale della vita, la forza divina che non è solo stimolo dei sensi, ma alimento di nobili sentimenti. è il concetto pagano della bellezza, già espresso dai poeti dell'antica Grecia, ai quali Foscolo si sente legato non soltanto per la sua cultura imbevuta di Classicismo, ma per una profonda affinità spirituale.

LA POESIA: pur condannato, secondo Foscolo, a scomparire nel nulla, l'uomo possiede ugualmente un mezzo per giungere all'immortalità: la Poesia, che può eternare la sua memoria nei secoli, come i sepolcri, altari della pietà e della gloria, conservano i suoi resti mortali.
è evidente che questo concetto di immortalità non ha nulla in comune con quello cristiano dell'immortalità dell'anima; esso possiede, tuttavia, un fascino profondo per la suggestione poetica che ne emana: la Poesia, che vince di mille secoli il silenzio, appare come un dono divino, una forza capace di far trionfare l'uomo sulla morte stessa.


(1) Commento del Momigliano ai Sepolcri:

"Su tutto il carme si stende la religiosa pace di un cimitero... Qui gli uomini e la terra sono veduti, più che come vivi e dimora dei vivi, come ombre auguste e lontane e come ricetto sacro di queste ombre; e la vita acquista la sua santità dalla morte, e solo perché noi abbiamo dietro di noi una schiera di grandi morti pare che noi dobbiamo vivere o operare. Il carme si svolge in mezzo ad un remoto silenzio, dove i morti parlano e i vivi ascoltano riverenti. La Morte semina di infinite ossa la terra e il mare, una forza operosa avvicenda senza tregua i nati e gli istinti, la potenza si tramuta di popolo in popolo, le sembianze della terra e del cielo si cambiano perennemente; in mezzo a questa fiumana triste ove tutto si trascolora, si dissolve, si cancella, una cosa sopravvive, immortale: 
la magnanimità dell'uomo, meglio - la poesia che canta la magnanimità dell'uomo: vince di mille secoli il silenzio"


Un paio di pensieri di Ugo Foscolo...

"Il mio nome significa luce (fos) e bile (cholos)... di volto non bello ma stravagante, e d'una aria libera, di crini non biondi ma rossi, di naso aquilino e grosso ma non picciolo e non grande... nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio: infermo spesso per malinconia, e talvolta feroce, e insano per ira..." (dalle "Lettere")

Io odo la mia patria che grida: "Scrivi ciò che vedesti, manderò la mia voce dalle rovine, e ti detterò la mia storia. Piangeranno i secoli su la mia solitudine; e le genti s'ammaestreranno nelle mie disavventure. Il tempo abbatte il forte: e i delitti di sangue sono lavati nel sangue." 
 
***

"I monumenti, inutili ai morti, giovano ai vivi, perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene; solo i malvagi... immeritevoli di memoria, non la curano; a torto dunque la legge accomuna le sepolture... degli illustri e degli infimi. (...) Le reliquie degli eroi destano a nobili imprese, e nobilitano le città che le raccolgono. Esortazione agli italiani a venerare i sepolcri dei loro illustri concittadini; quei monumenti ispireranno l'emulazione agli studi e l'amore della patria, come le tombe di Maratona nutrivano nei Greci l'aborrimento dei barbari. Anche i luoghi dov'erano le tombe dei grandi, sebbene non ne rimanga vestigia, infiammano la mente dei generosi."

è questo il riassunto dei Sepolcri, delineato dal poeta stesso in una sua lettera polemica contro il critico Guillon.

Vediamo qualche verso di rara bellezza del carme di Foscolo:

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l'oblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.





Originariamente pensato come epistola in versi all'amico Ippolito Pindemonte (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/07/ippolito-pindemonte-introduzione-ai.html) e subito trasformato in un carme eroico, questo poemetto fu composto nel 1806 ed è uno dei primi esempi di "letteratura patriottica di sfondo storico".
Il motivo occasionale del carme fu l'editto di Saint-Cloud del 1804 sulla regolamentazione delle sepolture a cui si aggiunge un colloquio col Pindemonte che in quei giorni stava pensando a un poemetto sui Cimiteri, le radici vere e sentimentali dei Sepolcri vanno ricercate in una esperienza umana e poetica ben più profonda: la poesia sepolcrale, diffusa nella letteratura preromantica verso la fine del '700.
La lunga meditazione sul significato della morte condotta dal poeta negli anni precedenti, come rivelano l'Ortis e i sonetti, la combattiva amarezza che lo stato politico dell'Italia napoleonica suscitava nel cuore del Foscolo (oltre che la Bellezza di Lunaria, che Foscolo contemplava di continuo)
Al centro del carme sta il mito del sepolcro.
Il sepolcro è l'unico elemento concreto, visibile che racchiude in sé la possibilità di saldare il silenzio della morte alle vicende della vita.
Attorno al mito del sepolcro ruotano e s'intrecciano i motivi più autentici della poesia moderna: la bellezza dell'universo e della vita, la fatalità della morte, la grandiosità del perenne fluire delle forme d'esistenza e l'immortalità degli uomini magnanimi dei quali vince "la forza operosa" che tutto travolge e distrugge.
Il culto delle tombe esprime la continuità delle generazioni e delle stirpi, è il simbolo vivente di quell'immortalità che gli uomini sono andati raffigurandosi nelle mitologie e credenze religiose di tutti i tempi.
Le tombe sono inutili ai morti: per chi lascia il regno della vita non è data alcuna speranza.
L'oltretomba, per il razionalista Foscolo, è soltanto silenzio e nulla eterno.
Ma ai viventi il culto delle tombe giova, in quanto desta in loro quei sentimenti e quelle passioni di virtù e di valore che gli uomini illustri lasciano in eredità.
La tomba si trasfigura così in un simbolico luogo dove l'uomo perpetua se stesso, tramanda la propria memoria e dove le umane vicende trovano un profondo significato di civiltà e storia che altrimenti andrebbe smarrito.
Perciò è necessario che gli italiani (che ora sono impegnati a fare cose da normaloidi. Nota di Lunaria) tornino a venerare le tombe dei loro grandi concittadini (Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Alfieri) e a ispirare le loro azioni a tanto elevati esempi di grandezza (la percentuale di persone intelligenti nell'"italia" del 2024 si aggira su un misero 1%, se va già bene... nota di Lunaria)
A celebrare il culto dei sepolcri, anche quando essi sono stati distrutti, è chiamata la poesia (e specialmente, le ricerche di Lunaria) la cui voce "vince di mille secoli il silenzio" (e come sottofondo, ci mettiamo "Dusk and Her Embrace" dei Cradle of Filth 


e qualsiasi cd degli Abysmal Grief)


*

Era consuetudine antica seppellire i morti nelle chiese o nelle adiacenze. Con l'editto napoleonico di St.Cloud (1804) per motivi d'igiene, si interrompe la tradizione, ordinando che tutte le sepolture avvengano in località extraurbane. Foscolo ascolta la notizia durante una conversazione da salotto e in un primo tempo, rimane del tutto indifferente, poi ci ripensa.
"A egregie cose il forte animo accendono l'urne dei forti" e nascono i "Sepolcri"

"Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli; e uscian quindi i responsi
de' domestici Lari e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religion che con diversi riti
le virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d'anni"

è racchiusa in questi versi tutta la concezione civile di Ugo Foscolo.
Civiltà è togliersi dalla condizione di belve, dandosi costumi, leggi, religione ("nozze, tribunali ed are"); civiltà è liberarsi dal meccanismo fatale della Natura che con "veci eterne", cioè secondo immutabili leggi, distrugge e ricrea continuamente per i suoi fini quelle povere cose che noi siamo; civiltà è culto del passato, senso dell'onore e fedeltà agli ideali che gli avi ci hanno tramandato. è la sua "religione" ed egli la chiama appunto con questa parola; comunque si manifesti ("con diversi riti") questa religione civile basata sulle "virtù patrie" (cioè l'amore della propria terra) e sulla "pietà congiunta" (il vincolo di affetto che ci lega a coloro che furono del nostro sangue) è da sempre ("lungo ordine d'anni") il fondamento di ogni società degna di questo nome.
Nel rievocare le varie usanze seguite nei secoli per onorare i defunti, il poeta traccia quindi un fosco quadro della superstizione medioevale: un pezzo un po' di maniera, uno dei pochi momenti meno felici del carme.
Ma di colpo, tornando a celebrare la bellezza e la serenità dei riti funebri classici, quando i parenti ponevano sulla tomba una torcia ardente, si risolleva a un livello altissimo di poesia. Con una impennata superba, scaturisce dal verso un'altra meravigliosa immagine, un grido sublime alla bellezza della vita, questa tormentata avventura che dura un istante, così terribilmente breve:

"Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell'uomo cercan
morendo
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce"

Gli ultimi tre versi sono di una drammaticità e intensità senza uguali. Nessuno, forse, ha mai saputo esprimere con tanta dolente pietà il momento supremo della morte, l'ultimo anelito alla luce del mondo prima della Notte senza fine.

A egregie cose il forte animo
accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella 
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta…

La parte centrale dei "Sepolcri" inizia con questi versi, che sono i più noti, forse, di tutto il carne. Non per la loro bellezza: non hanno, infatti, l'accesa passione e la splendida musicalità di altri passi, ma un tono di nobile e alta sentenza, perché riassumono perfettamente il concetto fondamentale dell'opera, partendo dal quale Foscolo espone gli altri temi più universali. A enunciare il concetto, però, bastano al poeta poco più di tre versi.
Subito dopo egli sente il bisogno di farlo "vivere" e rievoca per questo una sua commossa esperienza. Nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, il poeta si era recato a visitare le tombe dei grandi italiani che vi erano sepolti e accanto ai quali poi, anch'egli avrebbe avuto il suo monumento.
Erano i primi anni del secolo: l'Italia, percorsa in ogni regione da eserciti stranieri, era divisa e dominata; e Firenze, che custodiva quelle "urne de' forti" parve al poeta come il solo luogo in cui restasse ancora un segno dell'antica gloria d'Italia.
Davanti ai sepolcri di Michelangelo, di Galileo, di Machiavelli, nell'atmosfera in cui vissero Dante e Petrarca, un canto di omaggio e di speranza sgorgò dal suo cuore, e chiamò "beata", benedetta, la città che serbava quelle memorie.

"... beata ché in un tempio accolte
Serbi l'Itale glorie, uniche forse
d che le mal vietate Alpi e l'alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t'invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto."

è un altro dei "crescendo" dei Sepolcri: il ritmo sale di intensità insieme con le immagini rievocate dal poeta.
Da solenne, quasi sacrale nell'accenno alle "itale glorie", raccolte in un "tempio", si fa spezzato, denso di amarezza nel rievocare i colpi del destino ("l'alterna onnipotenza delle umane sorti", una meditazione sulle continue vicende umane) e assume infine un tono di totale desolazione culminante in quel "tutto" che cade come l'ultimo fulmine di una tempesta.
Da sempre i sepolcri hanno esercitato una funzione di incitamento: anche i Greci nella loro lotta contro i Persiani, trovarono ispirazione alla volontà di vittoria nelle tombe dei caduti di Maratona.
I fantasmi degli eroi che morirono in quella battaglia tornano ogni notte, secondo la leggenda, sul luogo del loro sacrificio, e l'immagine di quelle ombre inquiete appare al navigante che passa al largo, davanti alla pianura deserta:

"Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d'armi ferree vedea larva guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni campi
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube,
e un incalzar di cavalli accorrenti."

"E me che i tempi e il desio d'onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l'armonia
vince di mille secoli il silenzio."

è la conclusione del discorso. Il Poeta non smentisce il suo sconsolato pessimismo, ma lo supera: è espressa in questi vesri la sua concezione dell'immortalità attraverso la poesia.
Stretto da un'inquietudine che lo sospinge continuamente a "ir fuggitivo" (che fa il paio con il "Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo..." di un suo sonetto, https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/01/ugo-foscolo-due-lettere.html) il Poeta trova un senso alla sua vita nell'Arte (e nella Contemplazione di Lunaria, ovviamente).
Anche i sepolcri, un giorno, andranno in rovina: il tempo con le sue fredde "ale" (e sono le stesse, fatali e implacabili della Morte…) ne cancellerà ogni traccia; ma il canto dei poeti riempirà quel deserto; e il silenzio, il silenzio del Nulla e dell'Oblio in cui saranno precipitate le loro vite, ansie, dolori sarà vinto.
L'uomo, piccola cosa nell'Universo, scompare, ma l'armonia che egli sa trarre dal suo cuore lo rende immortale.

Negli ultimi versi del carme rivive la voce di Cassandra, l'infelice principessa troiana che previde la fine della sua città:

"Un dì vedrete 
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutto narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l'ultimo trofeo
ai fatali Pelidi. (...)
  
L'immagine di Omero (il cieco mendico) che abbraccia le tombe dei morti troiani e interroga quelle ombre per narrare ai posteri la loro storia, è tutta avvolta in un'atmosfera di favolosa solennità.
Si avverte in questo finale epico e tragico un senso di fatalismo straziante. Ugo Foscolo non dice "in eterno", perché per lui l'eternità non esiste.
Il tempo finirà con l'uomo, con la Vita: quella vita che è la sciagura dell'uomo e nello stesso tempo il suo unico bene.
Nel finale, torna anche il Sole, simbolo della vita che già aveva ispirato al Poeta la meravigliosa immagine dell'estremo anelito di ogni vivente: "gli occhi dell'uomo cercan morendo il Sole"






COMMENTO ALL'ORTIS, tratto da



In questo romanzo epistolare, composto dalle lettere che l'autore immagina scritte dal giovane Jacopo all'amico Lorenzo, il Foscolo intreccia ad elementi autobiografici sentimentali (l'amore infelice di Jacopo per Teresa) una delusione sopraggiunta in lui allorché la Rivoluzione Francese e la cultura illuminista sembravano aver fallito i loro ideali: dopo i gravi avvenimenti del 1797 (la cessione di Venezia all'Austria da parte di Napoleone, che il Foscolo aveva celebrato come liberatore) le posizioni giacobine di alcuni gruppi di patrioti italiani ricevono un durissimo colpo. 
La storia di Jacopo è la storia di questa disillusione, della sua appassionata ricerca della libertà politica, culturale e sentimentale che si concluderà col rifiuto dell'esistenza, col suicidio. 
La lettera del 12 novembre presenta il protagonista intento a lavori campestri, che suscitano nel suo animo un senso di tranquillità e di pace. Per un attimo Jacopo sembra ritrovare fiducia nella vita e si immagina un avvenire più sereno, legato alle vicende della campagna, al crescere e fruttificare degli alberi, al lento trapassare delle generazioni, lontano dalle violente passioni che devastano la terra. Ma egli sa che anche questo conforto gli sarà negato, perché i tempi lo condannano a una vita di esilio e disperazione. L'opera, suggerisce il Foscolo, di chi non può partecipare alla vita di una collettività (romanticamente identificata nella patria) è destinata a cadere nel nulla, a non avere alcun significato né oggi né domani. 


"Il mal tempo s'è diradato, e fa il più bel dopo pranzo del mondo. Il Sole squarcia finalmente le nubi, e consola la mesta Natura, diffondendo su la faccia di lei un suo raggio. Ti scrivo di rimpetto al balcone donde miro la eterna luce che si va a poco a poco perdendo nell'estremo orizzonte tutto raggiante di fuoco. L'aria torna tranquilla; e la campagna, benché allagata, e coronata soltanto d'alberi già sfrondati e cospersa di piante atterrate pare più allegra che non la non era prima della tempesta. Così, o Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo barlume della speranza, e inganna la sua triste ventura, con que' piaceri a' quali era affatto insensibile in grembo alla cieca prosperità - Frattanto il dì m'abbandona: odo la campagna della sera; eccomi dunque a dar fine una volta alla mia narrazione. Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio fino a che ci apparve biancheggiar dalla lunga la casetta che un tempo accoglieva. (...) Io mi vi sono appressato come se andassi a prostrarmi su le sepolture de' miei padri, e come uno di que' sacerdoti che taciti e riverenti s'aggiravano per li boschi abitati dagl'Iddii."

"Ieri giorno di festa abbiamo con solennità trapiantato i pini delle vicine collinette sul monte rimpetto la chiesa. Mio padre pure tentava di fecondare quello sterile monticello; ma i cipressi ch'esso vi pose non hanno mai potuto allignare, e i pini sono ancora giovinetti. Assistito io da parecchi lavoratori ho coronato la vetta, onde casca l'acqua, di cinque pioppi ombreggiando la costa orientale di un folto boschetto che sarà il primo salutato dal Sole quando splendidamente comparirà dalle cime de' monti. E ieri appunto il Sole più sereno del solito  riscaldava l'aria irrigidita dalla nebbia del morente autunno. Le villanelle vennero sul mezzodì co' loro grembiuli di festa intrecciando i giuochi e le danze di canzonette e di brindisi. (...) E quando le ossa mie fredde dormiranno sotto quel boschetto alloramai ricco ed ombroso, forse nelle sere d'estate al patetico susurrar delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali al suono della campana de' morti pregheranno pace allo spirito dell'uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E se talvolta lo stanco mietitore verrà a ristorarsi dall'arsura di giugno, esclamerà guardando la mia fossa: Egli, Egli innalzò queste fresche ombre ospitali!" (1)  O illusioni! e chi non ha patria, come può dire: lascerò qua o là le mie ceneri?"


(1) Una versione alternativa prevedeva questa variante: "E se talvolta io, Foscolo, verrò a ristorarmi dall'arsura di giugno, esclamerò guardando la fossa di Lunaria: Ella, Ella innalzò questa Bellezza, la Donna Divina che amai! Oh Lunaria! Forse perché di una Dea Tu sei l'Imago! Sempre Ti mostri invocata." 
Del resto il Foscolo aveva dedicato a Lunaria una poesia nel 1796 dichiarando "Io non posso amare se non altamente, ardentemente, forsennatamente forse, se non Lunaria, Lei Sola", e il ricordo di Lei non poteva che imprimersi in tutte le opere del Poeta.




 Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/03/i-sepolcri-in-uno-stralcio-dei-delly.html