integrazioni a cura di Lunaria
Nel Bel Paese la Lombardia ha avuto un ruolo fondamentale proprio nell'Ottocento (*)
( https://intervistemetal.blogspot.com/2020/04/pittori-del-seicento-settecento.html): nelle sue valli il paesaggio è stato ridisegnato dai profili delle nuove industrie, degli impianti idrici e dalle ciminiere. Nelle sue pianure le colture si sono modernizzate secondo i nuovi metodi dell'agricoltura, le città hanno cominciato a distendere sui campi limitrofi le loro periferie.
Dopo l'Unità, il paesaggio è stato oggetto e soggetto delle trasformazioni sociali della Nazione: inciso dai segni delle ferrovie, percorso dal correre dei fiumi, disegnato nella partizione delle variate colture. Tutte queste trasformazioni non potevano sfuggire ai pennelli di quegli artisti che, usciti dall'arcadia neoclassica, prendevano atto e assecondavano il nuovo corso di un paese anelante di raggiungere i risultati e gli standard di vita delle grandi nazioni.
La realtà romanzesca di Manzoni in Lombardia assumeva le cromie della terra umida ai limiti delle città, delle rive dei corsi d'acqua, della vita che prendeva la forma del romanzo verista e delle speranze borghesi.
è proprio in alcuni brani dei "Promessi Sposi",
che meglio si sintetizzano i caratteri estetici della pittura paesaggistica. Pensiamo alla celebre apertura, dove il vertiginoso percorso panoramico che parte da "quel ramo del lago di Como" finisce nella malinconia di una di quelle "stradette, più o meno ripide e piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte"; o al paesaggio colto all'alba, come avviene spesso nei quadri di Canella, che suscita insieme serenità e mestizia:
"Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s'alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità dei monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendii, e nella valle. Un venticello d'autunno, staccando da' rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall'albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte [...] Addio, monti sorgenti dell'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali si distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio!"
Nelle pagine del capitolo diciassettesimo, relative all'episodio di Renzo che in fuga verso Bergamo si avvicina all'Adda, la sua ansia si riflette nelle sagome, nei colori, nelle luci e nei rumori di una natura ostile dove prima di arrivare a sentire la "benedetta voce del fiume", avverte da lontano un "mugolio di cani, che veniva da qualche casetta isolata, vagando per l'aria, lamentevole insieme e minaccioso":
"Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva, in una sodaglia sparsa di felci e di scope [...] la noia del viaggio veniva accresciuta dalla selvatichezza del luogo, da quel non vedere più né un gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero mezza compagnia [...] A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche [...] cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse di entrare in un bosco [...] Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavano figure strane, deformi, mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar di foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d'odioso."
è come un senso di liberazione da un incubo avvertire finalmente "l'amico rumore" dell'Adda, "un mormorio, un mormorio d'acqua corrente", che prelude all'uscita dal bosco e all'arrivo:
"all'estremità del piano, sull'orlo d'una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l'acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell'altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra, che gli parve essere una città, Bergamo sicuramente."
Si avverte una forte corrispondenza tra le pagine manzoniane e la rappresentazione, perseguita da Canelli e dai suoi seguaci, ma anche da Ronzoni e dal Piccio, del paesaggio come espressione degli stati d'animo.
E ancora:
"Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti [...] Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva da confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è scheggie e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni"
Il poeta Giovanni Prati nel 1841 notava come dentro ai quadri di Canella "tu senti la solitudine, ascolti il rumore de' passi di quei viandanti, ti viene da lunge qualche guaito del picciol cane, vedi mancar il sole dall'acque [...] ti arriva addosso il crepuscolo, si mettono nella tua anima i quieti e tristi pensieri"
La solitudine delle Alpi, sentita come rifugio in una natura incontaminata, entrerà sempre di più nel repertorio dei paesisti. A Cattaneo era sembrato davvero un altro mondo:
"Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri per l'agricoltura; la neve le ingombra nove mesi dell'anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i poveri casolari, il pastore discende per le valli con l'armento; gli uomini appiedi; le donne sui cavalli [...]"
Lo stupore di uno sguardo incantato davanti alla natura, e la lezione dei maestri del Seicento, si arricchiscono nelle opere di questi artisti di un altro elemento non meno evidente, ovvero l'aderenza a un "vero naturalistico", descrittivo e poetico al tempo stesso, rispettoso della varietà del fogliame come del mutare delle stagioni e dei colori. Per rappresentare il "sentimento della natura" si doveva ricercare il profilo disperso in "un mare di nebbia" (allusione al celebre dipinto di Friedrich http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/06/introduzione-alla-pittura-di-friedrich.html ) o rigenerato dalla luce nei pascoli in alta quota o nella solitudine dei ghiacciai, lo strumento privilegiato per la ricerca di se stessi come dell'Assoluto.
(*) Nota di Lunaria: ma anche nei secoli precedenti, non erano mancati autori che avevano celebrato il paesaggio italico. Vedi, per esempio, Luigi Tansillo (poeta del '500).
Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)
(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti
"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."
Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.
Per quanto riguarda l'iconografia Black Metal (e quindi, anche l'estetica e la concettualità dei testi), è possibile distinguere questi filoni:
1) Il filone classico, originario, e il più conosciuto e famigerato (specialmente per chi valuta la scena basandosi solo sulla propaganda diffamatoria cristiana), quello della blasfemia e del satanismo acido, del grottesco, dello spettacolo - anche splatter e horror - fine a se stesso, della misantropia e spesso di un feroce umorismo nero. Vedi, per semplificare, band come Marduk, Gorgoroth o Morbosidad.
Una variante più "intellettualistica" è quella di band che trattano temi esoterici e non solo l'anticristianesimo e il satanismo (vedi per esempio gli Opera IX)
o anche la pura esaltazione della morte (molto spesso con un'attitudine prettamente filosofica), vedi la scena Depressive Black Metal e nomi come Happy Days.
2) Un'iconografia raffinata, colta, decadente, malinconica, qualche volta su temi erotici e vampirici, spesso con sfondi di rovine e arte cimiteriale. Vedi band come i primi Cradle of Filth o i Lamia Antitheus.
3) Un settore più incentrato su temi pagani e folkloristici, sul panteismo e l'adorazione della Natura (qualche volta con una certa vena misantropica). Qui di seguito, inserisco qualche artwork (anche di band non appartenenti alla scena Black o con tematiche relative ai punti 1 e 2), per dare subito un'idea.
E questi non sono che pochi esempi, e solo relativi al paesaggio senza rovine.
Galleria di dipinti paesaggistici (non solo di autori italiani)
Nota di Lunaria: molti di questi dipinti non li ho neanche trovati su google images; sono mie fotografie, fatte però senza mezzi professionali, quindi l'immagine è opaca e non definita e purtroppo non riescono a rendere la grande bellezza di questi dipinti
John Martin "The bard" |
La rielaborazione fatta dagli Azerlath
e dai Summoning
Daniel Ridgway |
Lorrain |
Dipinti di Vernet:
(non sono riuscita a risalire a questo autore) |
Jan Frans Van Bloemen |
Dipinti di Carus
Circe |