Eça de Queiroz "Il defunto" (1873)

Tratto da



I

L'anno 1474, che fu per tutta la cristianità così largo di grazie divine, regnando in Castiglia il re Enrico IV, venne ad abitare nella città di Segovia, dove avevo ereditato alcune case e un giardino, un giovane cavaliere, di purissimo lignaggio e di gentile aspetto, che si chiamava Don Ruy de Cardenas.
Una casa che gli aveva legata suo zio, arcidiacono e Maestro di Diritto Canonico, era situata a lato e all'ombra silenziosa della chiesa di Nostra Signora del Pilar; e di fronte, al di là d'una piazzetta, in cui cantavano i tre cannelli d'una antica fontana, s'ergeva, oscuro, ben munito d'inferriate, il castello di Don Alonso de Lara, hidalgo di grande ricchezza e di foschi costumi, che già in matura età coi capelli grigi, aveva sposato una fanciulla celebre in Castiglia per la sua bianchezza, la sua capigliatura color del chiaro sole e il collo di cigno reale. Don Ruy, al suo nascere, aveva avuto per madrina Nostra Signora del Pilar, di cui sempre s'era serbato devoto e fedele servitore, benché, essendo di sangue gagliardo e vivace, amasse le armi, la caccia, le veglie galanti, e a volte anche le rumorose notti di taverna, con dadi e boccali di vino. Per amore e per la comodità di quella santa vicinanza, egli aveva contratto, al suo giungere a Segovia, la pia abitudine di visitare tutte le mattine, alla Prima Messa, la sua Divina Madrina, e di chiederle, con tre avemarie, la benedizione e la grazia.
(Nota di Lunara: qui c'è un errore mostruoso: maria non è divina, è la serva del signore, non è una Dea! pertanto, definirla "divina madrina", come il racconto fa più volte, è un'idiozia!!!)
All'imbrunire poi, dopo qualche violenta scorreria, per monti e campagna, con levrieri e falcone, ancor tornava, alla salutazione dei Vespri a mormorare dolcemente un Salve Regina.
E tutte le domeniche comprava nella piazzetta, da una fioraia moresca, qualche fascio di giunchiglia, o di garofani, o di roselline da spargere con tenera e cavalleresca premura innanzi all'altare della Madonna.
In questa venerabile chiesa del Pilar veniva pure ogni domenica Dona Leonor, la così celebre sposa del signor de Lara, accompagnata da una burbera governante, dagli occhi più inquisitori e più duri di quelli d'una civetta, e da due poderosi servitori, che le stavano a lato e la custodivano come due torri. Così geloso era Don Alonso che, solo per averne ricevuto severo ordine dal suo professore, e per timore di offendere la Signora del Pilar, sua vicina, permetteva questa visita fugace, di cui egli restava a spiare impazientemente da dietro le stecche d'una persiana, i passi e la durata. Tutti i lenti giorni della lenta settimana, Dona Leonor lì trascorreva nella prigionia del palazzo di fosco granito, dalle solide inferriate, non possedendo, per svagarsi e repirare, anche durante le calure estive, che un angolo di giardino verde cupo, circondato da così alte mura che appena si scorgeva, sovrastante qua e là ad esse, qualche cima di triste cipresso. Ma bastò questa breve visita a Nostra Signora del Pilar perché Don Ruy s'innamorasse di Dona Leonor pazzamente, una mattina di maggio, in cui la vide in ginocchio innanzi all'altare, in un raggio di sole, aureolata dai suoi capelli d'oro, con le lunghe ciglia abbassate sul libro delle Preghiere, il rosario pendulo tra le dita sottili, sottile ella pure e tutta morbida e bianca, d'una bianchezza di giglio sbocciato nell'ombra, più bianca ancora fra i pizzi neri e le nere sete, che intorno alla sua persona piena di grazia ricadevano in rigide pieghe sopra le lastre della cappella, vecchie lastre di sepolcro. Quando, dopo un momento l'estasi e di deliziosa meraviglia, s'inginocchiò, quest'atto di riverenza fu meno rivolto alla Vergine del Pilar, sua divina Madrina, che a quell'apparizione mortale di cui non conosceva né nome né vita, e per cui avrebbe dato vita e nome, s'ella pur avesse voluto concedersi per così incerto prezzo.
Balbettando, con vana preghiera, le tre avemarie, con cui ogni mattina salutava Maria, raccolse il suo cappello, discese leggermente la navata sonora e sulla porta si fermò, attendendo la dama fra i mendicanti pieni di piaghe che si riscaldavano al sole. Ma quando dopo un breve lasso di tempo, durante il quale Don Ruy sentì nel cuore un insolito battito d'ansia e di timore, Dona Leonor passò, fermandosi un istante, ad immergere la punta delle dita nella pila dell'acqua benedetta, i suoi occhi, sotto il velo abbassato, non si alzarono verso di lui, forse timidi, forse distratti. Con la governante dallo sguardo inquisitore incollata ai vestiti, fra i due servi, come fra due torri, attraversò lievemente la piazzetta, pietra a pietra, godendo certo, come una prigioniera, l'aria libera e il libero sole che la inondavano. E Don Ruy provò un vero spavento quando vide la dama entrare sotto la cupa arcata, dai possenti pilastri, sopra cui poggiava il palazzo, e sparire, per una piccola porta munita di catenacci. Ella era, dunque, la così celebre Dona Leonor, la bella e nobile signora di Lara...
Incominciarono allora per Don Ruy sette snervanti giorni che egli consumò seduto sul banco di pietra della sua finestra, a fissare quella nera porta coperta di catenacci, quasi fosse quella del Paradiso, e da essa dovesse uscire un angelo, per annunziargli la buona ventura. Fino a che giunse la sospirata domenica; e mentr'egli attraversava la piazzetta, all'ora della prima Messa, al rintocco delle campane, con un fascio di garofani gialli per la sua divina Madrina, s'imbatté in Dona Leonor, che usciva di fra i pilastri della buia arcata, bianca, dolce e pensosa, come una luna di fra le nubi. I garofani gli caddero quasi di mano, per quella gioiosa emozione che gli fece ansare il petto come un mare, e tutta l'anima gli fuggì in tumulto attraverso lo sguardo con cui divorava la dama. Ed ella pure alzò gli occhi verso Don Ruy, ma occhi calmi, occhi sereni, in cui non luceva curiosità, e nemmeno coscienza d'essersi incrociati con altri, così accesi e cupi di desiderio. Il giovane cavaliere non entrò in chiesa, turbato dal pio timore di non poter prestare alla sua Madrina divina l'attenzione, che certo gli avrebbe tutta rubata colei che era soltanto umana, ma ormai signora del suo cuore, e da lui divinizzata.
Attese impazientemente alla porta, fra i mendicanti, inaridendo i garofani con l'ardore delle mani tremanti, pensando quanto fosse lungo il rosario che ella recitava. E Dona Leonor stava ancora uscendo dalla navata, che già egli sentiva dentro l'anima il dolce fruscio delle pesanti sete che ella strascicava sulle lastre. La bianca signora passò, e il medesimo vago sguardo, distratto e calmo, che lasciò scorrere sui mendichi e sulla piazza, lo lasciò pure scorrere su di lui, sia perché non comprendeva quel giovane che s'era fatto tanto pallido, sia perché non lo differenziava ancora dalle cose e dalle forme comuni. Don Ruy s'allontanò con un profondo sospiro, e nella sua camera posò devotamente innanzi alla Vergine i fiori che non aveva offerto nella chiesa, all'altare. Tutta la sua vita cominciò a consumarsi allora in un lungo tormento, per sentir così fredda, così disumana quella donna, l'unica fra le donne, che avrebbe potuto conquistare e render costante il suo cuore instabile e leggero.
Con una speranza che ben prevedeva il disinganno, incominciò a gironzolare intorno alle alte mura del giardino, oppure, imbacuccato in una cappa, appoggiato ad una cantonata, restò lunghe ore a contemplare le inferriate delle finestre, nere e grosse come quelle d'un carcere. Ma le muraglie non si fendevano, le inferriate non lasciavano sfuggire un barlume di luce che fosse come una promessa. Tutto il palazzo era simile ad un sepolcro in cui giaceva una creatura insensibile; e dietro le fredde pietre vi era pure un freddo cuore. Per trovar sfogo compose, con religiosa cura, in lunghe notti vegliate sulla pergamena, lamentose canzoni che non gli davano sfogo. Dinanzi all'altare della Signora del Pilar, sopra le stesse lastre su cui aveva veduta inginocchiata la dama, s'inginocchiava egli pure, e, senza pregare, se ne rimaneva così, immerso in una fantasticheria amara e dolce, attendendo che il suo cuore si rasserenasse e si consolasse, sotto l'influenza di Colei che tutto rasserena e consola.  
Ma sempre si rialzava ancor più infelice, avvertendo appena la sensazione di quanto fossero fredde e dure le pietre su cui s'era inginocchiato. E gli pareva che tutto il mondo non fosse che rigidità e freddezza.
In altre chiare mattine di domenica incontrò Dona Leonor: e gli occhi di lei continuavano ad essere indifferenti e come assenti, o, se s'incrociavano con quelli di lui, ciò avveniva in modo così semplice, così privo di ogni emozione, che Don Ruy li avrebbe preferiti offesi o scintillanti d'ira, o superbamente distolti, con superbo disdegno. Certo ormai Dona Leonor lo conosceva, ma, allo stesso modo, conosceva pure la fioraia moresca accoccolata dinanzi al suo cesto sul margine della fontana, o i poveri che si scaldavano al sole dinnanzi alla porta della chiesa. Né Don Ruy poteva pensare ch'ella fosse fredda e disumana. Era soltanto sovranamente lontana, come una stella che nei cieli gira e rifulge, senza sapere che, in basso, nel mondo ch'essa non distingue, occhi ch'essa non sospetta la contemplano, l'adorano e le affidano il governo della loro fortuna e del loro destino.
Allora Don Ruy pensò:
"Ella non vuole, io non ho potere su di lei: fu un sogno che finii, e Nostra Signora conceda a tutti e due la sua grazia!"
E poiché era un cavaliere molto discreto, dal momento in cui comprese quanto la dama fosse irremovibile nella sua indifferenza, non la cercò più, né alzò più gli occhi all'inferriata delle sue finestre, e giunse al punto di non entrare nella chiesa di Nostra Signora quando casualmente, dalla porta, scorgeva la dama inginocchiata, con il capo fulgente d'oro e di grazia curvo sul libro delle preghiere.


II

La vecchia governante, dagli occhi più inquisitori e più duri degli occhi d'una civetta, non aveva tardato a riferir al signor de Lara che un giovane audace, di gentile aspetto, nuovo inquilino nelle vecchie case dell'arcidiacono, s'incontrava con loro continuamente nella piazzetta, e si collocava dinanzi alla chiesa per attirare, attraverso gli occhi, il cuore di Dona Leonor. Con sua grande amarezza già ben ne era informato il geloso hidalgo, poiché quando dalla sua finestra scrutava come un falco, la soave signora diretta verso la chiesa, aveva pur osservato l'andirivieni, le attese, le occhiate dardeggiate, da quel giovane galante, e s'era tirata la barba per il furore.
Da quell'istante, la sua più intensa occupazione era stata quella di odiare Don Ruy, l'impudente nipote del canonico, che aveva osato innalzare il suo basso desiderio fino all'alta signora de Lara. Continuamente, ormai, lo faceva spiare da un servo, e conosceva tutti i passi e i riposi di lui, e gli amici con cui cacciava o si sollazzava, e perfino l'artigiano che gli tagliava i farsetti, e perfino il servo che gli lucidava la spada, ed ogni ora della sua vita. E più ansiosamente ancora vigilava su Dona Leonor: ogni suo movimento, i più fuggitivi gesti... vigilava i suoi silenzi e il suo conversare con le ancelle, le sue distrazioni sopra il ricamo, la sua abitudine di andarsene a fantasticare sotto gli alberi del giardino, e l'aspetto con cui ritornava dalla chiesa...
Ma così inalterabile serena, nella sua semplicità di cuore, si mostrava Dona Leonor, che nemmeno la più occhiuta gelosia avrebbe potuto rilevare una macchia in quell'immacolata neve. E più aspro allora si rivolgeva il rancore di Don Alonso contro il nipote del canonico, per aver egli desiderato quella purezza, quei capelli color del chiaro sole, quel collo di cigno reale, che appartenevano a lui solo, per splendido godimento della sua vita. E quando passeggiava nella cupa galleria del castello, sonora e tutta ad arcate, avvolto nella zimarra orlata di pelliccia, con la punta della barba grigia tirata in avanti, l'arruffata capigliatura irta gettata all'indietro, i pugni stretti, era sempre per rimuginare la stessa bile.
"Attentò contro la sua virtù e attentò contro il mio onore... è colpevole di due colpe e merita due morti!"
Ma il suo furore si cambiò quasi in terrore, quando seppe che Don Ruy più non attendeva sulla piazzetta Dona Leonor, né gironzolava amorosamente intorno alle mura del palazzo, né entrava in chiesa quand'ella era là a pregare, la domenica; e che s'allontanava da lei così completamente che una mattina, sentendo stridere ed aprire la porta per cui la signora soleva apparire, egli, che pur stava presso l'arcata, era rimasto con le spalle voltate, senza girarsi, ridendo con un grasso cavaliere che gli mostrava una pergamena. Una così ben affettata indifferenza, aveva pensato Don Alonso, doveva servir di certo a nascondere una ben dannata tentazione! Che cosa stava tramando quel destro ingannatore? Nell'inasprito hidalgo tutto s'inacerbì: la gelosia, il rancore, la vigilanza, il peso della sua età grigia e cupa. Nella semplicità di Dona Leonor sospettò astuzia e finzione, e immediatamente le vietò le visite alla Signora del Pilar.
Le mattine stabilite si recava lui in chiesa per recitare il rosario e portare le scuse di Dona Leonor "che" egli mormorava tutto curvo innanzi all'altare, "non può venire, per il motivo che tu sai, Vergine purissima!"
Meticolosamente visitò e rinforzò tutti i neri catenacci delle porte del suo palazzo. Di notte slegava due mastini nell'ombra del chiuso giardino.
Accanto al capezzale del vasto letto, presso la tavola su cui stavano la lampada, un reliquario ed una coppa di vino caldo, con cannella e garofano, per ritemprar le forze, luccicava sempre una grande spada nuda. Ma, malgrado tante precauzioni, dormiva assai male, e ogni momento si sollevava di soprassalto dai fondi cuscini, per afferrar Dona Leonor con una mano brutale e cùpida, che la copriva di lividi,  e ruggire ansiosamente, a voce bassa: "Dimmi che ami me solo!..."
E poi, col sopraggiungere dell'alba, s'appollaiava per scrutare come un falco le finestre di Don Ruy. Ma ormai più non lo scorgeva né alla porta della chiesa all'ora della messa, né di ritorno dalla campagna, a cavallo, ai rintocchi dell'avemaria.
E per quel sentirlo così assente dai luoghi usati, lo sospettava più addentro al cuore di Dona Leonor. 
Finalmente, una notte, dopo aver a lungo calcato le lastre della galleria, rimuginando sordamente sfiducia e odio, chiamò il suo intendente e ordinò che gli preparasse bagagli e cavalcature. Il mattino di buon'ora sarebbe partito, con Dona Leonor, per la sua proprietà di Cabril, a due leghe di Segovia!
La partenza non avvenne all'alba, come la fuga d'un avaro che vada a nascondere il suo tesoro, ma si svolse fastosamente e lentamente: la lettiga fu lasciata lunghe ore in attesa, dinanzi alla grande arcata della porta, con le cortine sollevate, mentre uno scudiero faceva passeggiare nell'atrio la mula bianca dell'hidalgo, sellata alla moresca, e a lato del giardino la fila dei muli, carichi di bauli, assicurati ad anelli di ferro, sotto il sole e le mosche, stordivano la viuzza col tintinnare dei sonagli. Così Don Ruy seppe in giornata della partenza del signor de Lara; e così lo seppe tutta la città.
Fu una grande gioia per Dona Leonor, a cui piaceva Cabril, con i suoi rigogliosi frutteti, i giardini su cui s'aprivano generosamente, e senza inferriate, le finestre del suo luminoso appartamento; lì almeno possedeva aria libera, pieno sole, aiuole da inaffiare, un'uccelliera e viali di lauri o di tassi così lunghi che davano quasi l'impressione della libertà. E sperava inoltre che in campagna si alleggerissero quelle preoccupazioni che, da qualche tempo, tenevano tanto accigliato e taciturno il suo signore e sposo. Ma non durò a lungo questa speranza. Dopo una settimana il volto di Don Alonso ancora non si era rasserenato... poiché certo non c'era freschezza d'albereti, sussurri di ruscelli, o aromi erranti di roseti in fiore che potessero calmare un'agitazione tanto amara e profonda. Come a Segovia, nella galleria sonora dalle grandi arcate, passeggiava senza posa, imbacuccato nella sua zimarra, con la punta della barba tirata in avanti, la folta, irta capigliatura gettata all'indietro, un silenzios digrignare di denti, come meditasse malvagità di cui godeva in precedenza l'acre sapore.
E tutto l'interesse della sua vita si concentrava in un servo, che galoppava di continuo tra Segovia e Cabril, e che a volte egli andava ad attendere ai confini della proprietà, presso il crocicchio, restando ansante ad ascoltare l'uomo che smontava da cavallo e gli dava subito frettolose notizie.
Una notte in cui Dona Leonor, nel suo appartamento, recitava la terza parte del rosario con le ancelle, alla luce di un cero, il signor de Lara entrò piano piano, tenendo in mano un foglio di pergamena e una penna immersa nel suo calamaio d'osso. Con un rude cenno congedò le ancelle, che lo temevano come un lupo, poi, spingendo uno sgabello presso la tavola, e rivolgendosi a Dona Leonor con un volto a cui aveva imposto tranquillità e cortesia, come se venisse soltanto per cose naturali e futili:
"Signora, desidero che mi scriviate una lettera che è assai conveniente scrivere..."
Ella era così abituata alla sottomissione, che, senza altra osservazione o curiosità, andò soltanto ad appendere alla sbarra del letto il rosario che stava sgranando, poi subito sedette sopra lo sgabello; e le sue dita sottili, con molta cura, perché la lettera risultasse perfetta e chiara, tracciarono la prima breve linea che il signor de Lara aveva dettato, ed era: "Mio cavaliere..." Ma quando egli dettò la seconda, più lunga, e in brusca maniera, Dona Leonor gettò la penna, come se la penna bruciasse, e scostandosi alla tavola, gridò dolorosamente:
"Signore, perché è necessario ch'io scriva tante e così false cose?"
Nell'improvviso furore, il signor de Lara si strappò il pugnale dalla cintola e glielo agitò sul viso, ruggendo sordamente: "Scrivete ciò che vi comando e che conviene che scriviate, o, per Dio, vi trapasso il cuore!..."
Più bianca del cero che la illuminava, con la carne che raccappricciava innanzi al luccichìo di quel ferro, in uno spavento supremo, che tutto accettava, Dona Leonor mormorò: "Per la Vergine Maria, non fatemi del male! Non incolleritevi, signore, che io non vivo che per obbedirvi e servirvi... comandate pure, che io scriverò."
Allora, coi pugni stretti, sull'orlo della tavola, sopra cui aveva posato il pugnale, schiacciando la fragile e sventurata donna sotto uno sguardo duro che fulminava, il signor de Lara dettò, gettò giù raucamente, a frammenti, a scatti, una lettera che, tracciata in tremuli caratteri, diceva "Mio cavaliere, avete molto mal compreso o molto mal ricompensato l'amore che vi porto, e che, a Segovia, mi fu impossibile dimostrarvi chiaramente... Ora mi trovo qui, a Cabril, e ardo dal desiderio di vedervi; e se il vostro desiderio corrisponde al mio, ben facilmente lo potrete realizzare, poiché mio marito si trova lontano, in un'altra nostra proprietà, e questa di Cabril è molto accessibile. Venite questa notte, entrate per la porta del giardino, dalla parte del sentiero, e, oltrepassando la vasca, giungete al terrazzo. Lì troverete una scala appoggiata ad una finestra della casa, che è la finestra della mia camera, ove sarete dolcemente accolto da chi ansiosamente vi aspetta..."
"Ed ora, signora, firmate in fondo col vostro nome, che è quel che più importa."
Dona Leonor scrisse lentamente il suo nome, tutta rossa in volto come se la spogliassero innanzi ad una folla.
"Ed ora", ordinò più saldamente il marito attraverso i denti serrati, "indirizzatela a Don Ruy de Cardenas!"
Ella osò alzare gli occhi, nella sorpresa di quel nome sconosciuto.
"Avanti!... A Don Ruy de Cardenas!", gridò il truce signore.
Ed ella indirizzò la sua peccaminosa lettera a Don Ruy de Cardenas.
Don Alonso collocò la pergamena nella cintola, accanto al pugnale che aveva inguianato, e uscì in silenzio, con la barba irta, soffocando il rumore dei passi sulle lastre del corridoio.
Ella rimase seduta sopra lo scranno con le mani stanche abbandonate in grembo, oppressa da un infinito spavento, con gli occhi smarriti nell'oscurità della notte silente. Meno scura le pareva la morte di quell'oscura avventura da cui si sentiva avvolta e rapita!   
Chi era questo Don Ruy de Cardenas, di cui non aveva mai udito parlare, che mai aveva attraversato la sua vita, così quieta, così poco popolata di memorie e di uomini? Egli certo la conosceva, l'aveva incontrata e seguita, almeno con gli occhi, dato che era cosa naturale e logica ch'egli ricevesse da lei una lettera di tanta passione e promessa...
Così, un uomo, un giovane certamente di buona famiglia, forse di animo gentile, penetrava nella sua vita bruscamente, guidato per la mano da suo marito?
E per di più, così intimamente era entrato quest'uomo nella sua vita, senza che ella se ne fosse accorta, che per lui si apriva di notte la porta del suo giardino, e contro la sua finestra, perché egli vi potesse salire, si appoggiava di notte una scala! Ed era suo marito che, in gran segreto, spalancava la porta, e in gran segreto appoggiava la scala... Perché?
Ma ad un tratto, in un lampo, Dona Leonor comprese la verità, la vergognosa verità, che le strappò un grido ansioso e mal soffocato. Era un agguato! Il signor de Lara attirava a Cabril questo Don Ruy, con una promessa magnifica, per impadronirsi di lui e certo ucciderlo, indifeso e solo! E lei, il suo amore, il suo corpo, erano le promesse che si facevano brillare innanzi agli occhi affascinati dello sventurato giovane. E suo marito usava la bellezza, il suo letto, come la rete d'oro in cui doveva cadere l'imprudente preda! Poteva esservi offesa maggiore? E qual rischio tuttavia! Avrebbe ben potuto, questo Don Ruy de Cardenas, diffidare, non accedere al convito tanto apertamente amoroso, e poi mostrare per tutta Segovia, ridendo e trionfando, la lettera in cui la moglie di Alonso de Lara gli faceva offerta del suo letto e del suo corpo? Ma no!
L'infelice sarebbe corso a Cabril, per morire, miseramente morire nel nero silenzio della notte, senza prete, senza sacramenti, con l'anima macchiata d'un peccato d'amore!
Per morire, senza dubbio, perché mai il signor de Lara avrebbe permesso che vivesse un uomo che aveva ricevuta una tale lettera. Così, quel giovane cavaliere sarebbe morto per amor suo, per un amore che gli avrebbe dato subito la morte senza avergli dato mai una gioia. Per amor suo... certamente... poiché tale odio del signor de Lara, odio che si nutriva di tanta slealtà e brutalità, poteva soltanto nascere dalla gelosia, che gli offuscava ogni dovere di cavaliere e di cristiano. Senza dubbio egli aveva sorpreso occhiate, passi, progetti, di questo signor Don Ruy, troppo malcauto perché troppo innamorato.
Ma come? Quando? Confusamente ella si ricordava di un giovane che una domenica s'era incontrato con lei sulla piazzetta, l'aveva attesa alla porta della chiesa, con un mazzo di garofani in mano... era forse lui? Aveva nobile aspetto, era molto pallido, con grandi occhi neri e ardenti. Ella era passata indifferente. I garofani che stringeva nella mano erano rossi e gialli... A chi li portava?
Ah, se il mattino, assai di buon'ora, avesse potuto avvisarlo!
Ma in qual modo, se non aveva a Cabril un servo o una cameriera di cui potesse fidarsi? Ma lasciare che una spada brutale trafiggesse a tradimento quel cuore, che veniva pieno di lei, palpitando per lei, tutto pieno di speranza di lei!...
Quella ardente e sfrenata cavalcata di Don Ruy da Segovia a Cabril, con promessa d'un incantevole parco aperto innanzi a lui, d'una scala posta contro una finestra, sotto la pronuba protezione della notte! Ma avrebbe realmente il signor de Lara avvicinato la scala alla finestra? Certamente, per poter con più facilità uccidere il povero, dolce, innocente ragazzo, quand'egli fosse salito, malsicuro sopra un fragile gradino, con le mani impacciate, e la spada addormentata nella guaina... E così la notte seguente, di fronte al suo letto, la sua finestra sarebbe stata aperta, con una scala appoggiata contro, nell'attesa d'un uomo! Imboscato nell'ombra della camera, suo marito certamente avrebbe ucciso quell'uomo...
Ma se il signor de Lara avesse atteso oltre le mura del parco, e avesse assalito brutalmente in un qualche sentiero quel Don Ruy de Cardenas, e, o perché meno destro, o perché meno forte, nell'incrociarsi delle armi, fosse stato lui a cader trafitto, senza che l'altro riconoscesse colui che aveva ucciso? Ed ella lì, ignara nella sua camera, con tutte le porte spalancate e la scala innalzata, e quell'uomo che s'affacciava alla finestra, nell'ombra soave della tepida notte, e il marito che avrebbe dovuto difenderla, morto nel fondo di un sentiero... e che farebbe lei, Vergine Madre? Oh, certo respingerebbe superbamente il giovane temerario! Ma allora ecco la meraviglia e la collera di quel desiderio ingannato:
"Io venni chiamato da voi, signora!"
E portava lì, sopra il cuore, quella lettera, firmata da lei; che la sua mano aveva tracciata. Come avrebbe ella potuto raccontargli dell'imboscata e dell'inganno? Era cosa così lunga da narrare in quel silenzio e in quella solitudine della notte, mentre gli occhi di lui, umidi e neri, la supplicavano e la trafiggevano... Oh, lei sventurata, se il signor de Lara fosse morto, ed ella fosse rimasta sola, indifesa, in quella casa aperta! Ma quanto pur sventurata, se quel giovane chiamato da lei, che la amava, e che giungeva abbagliato da quell'amore, avesse incontrata la morte dove credeva d'incontrare la sua speranza, e che era il luogo stesso del suo peccato, e, morto in pieno peccato, fosse precipitato nella dannazione eterna... Venticinque anni, se era colui ch'ella ricordava, pallido, bello, con un giubbetto di velluto viola e un fascio di garofani in mano, alla porta della chiesa, a Segovia...
Due lagrime caddero dagli stanchi occhi di Dona Leonor. E, piegando le ginocchia, innalzando tutta l'anima al cielo, dove cominciava a levarsi la luna, mormorò con angoscia e fede infinita: "Oh! Santa Vergine del Pilar, Signora mia, veglia su noi due, veglia su tutti noi!"
 

III

Don Ruy entrava, per l'ora della siesta, nel fresco cortile della sua casa, quando da una panca di pietra, nell'ombra, si alzò un ragazzotto di campagna, che trasse da una borsa di cuoio una lettera, e gliela consegnò mormorando: "Signore, leggetela subito, poiché devo far ritorno a Cabril, da chi mi mandò..."
Don Ruy svolse la pergamena e, nel trasognamento che l'invase, se la strinse così forte al petto che parve volesse farla entrare nel cuore...
Il servitorello insisteva, inquieto:
"Presto, signore! Non è necessario che rispondiate. Basta che mi diate un segno d'aver ricevuto la commissione."
Pallidissimo, Don Ruy si strappò uno dei suoi guanti ricamati in fil di seta, che il ragazzo arrotolò e nascose nella bisacca. E già s'allontanava sulla punta dei sandali leggeri, quando, con un cenno, Don Ruy lo trattenne ancora un momento:
"Ascolta. Che strada prendi, tu, per andare a Cabril?"
"La più diretta e la più solitaria, per una persona di fegato: quella del Colle degli Impiccati."
"Va bene."
Don Ruy salì la gradinata di pietra e, giunto in camera sua, senza nemmeno togliersi il cappello, di nuovo lesse, presso la finestra, quello scritto divino in cui Dona Leonor lo chiamava di notte nel suo appartamento, al completo possesso dell'essere suo. E non lo meravigliava quest'offerta, dopo una così lunga, imperturbabile indifferenza. Subito pensò che l'amore di lei fosse un amore molto prudente perché molto intenso, un amore che con grande pazienza si nasconde innanzi agli ostacoli e ai pericoli, e silenziosamente prepara la sua ora di gioia, tanto più bella e più deliziosa, perché così a lungo preparata. Ella lo aveva sempre amato, forse, da quella mattina benedetta in cui i loro occhi s'erano incontrati sotto la porta di Nostra Signora. E allorché egli ronzava intorno alle mura di quel giardino, maledicendo una freddezza che gli sembrava più fredda di quelle fredde mura, già ella gli aveva donato la sua anima, e con costanza, con amorosa sagacia, frenando anche il minimo sospiro, addormentando i sospetti, preparava la notte radiosa in cui gli avrebbe offerto anche il suo corpo.
Tanta fermezza, tanto sottile ingegno in cose d'amore la rendevano ancor più bella e desiderabile!
Con quale impazienza Don Ruy guardava il sole, così lento, quella sera, a tramontare dietro i monti! Senza tregua, nel suo appartamento, con le persiane chiuse, per meglio concentrarsi nella sua felicità, preparava amorosamente ogni cosa per la trionfale giornata: la biancheria fine, i fini merletti, un corsetto di velluto nero, essenze odorose. Due volte discese nella scuderia, per vedere se il cavallo era ben ferrato e ben nutrito. Curvò e ricurvò sul pavimento, per provarla, la lama della spada che avrebbe portato alla cintola. Ma la sua maggior preoccupazione era la strada per Cabril, sebbene la conoscesse, e inoltre il villaggio agglomerato intorno al monastero francescano, e il vecchio ponte romano, col suo Calvario, e il sentiero incassato che conduceva alla proprietà del signor de Lara. Anche nell'inverno era passato da quelle parti, andando a caccia con due amici di Astorga, e, scorgendo la torre dei de Lara, aveva pensato: "Ecco la torre della mia ingrata!"
Come s'ingannava!
Eran notti di luna, egli sarebbe uscito segretamente da Segovia, per la porta di San Mauros. Un breve galoppo l'avrebbe portato sul Colle degli Impiccati... la conosceva bene quella località triste e paurosa, con i suoi quattro pilastri di pietra, dove si impiccavano i criminali e dove i loro corpi rimanevano sballottati dai venti, rinsecchiti dal sole, fino a che le corde imputridissero e le osse cadessero, bianche e scarnite dal becco dei corvi. Dietro il colle vi era lo stagno Das Donas. L'ultima volta ch'era passato di là, era stato il giorno dell'apostolo San Mattia, quando il corregidor e le confraternite di carità e di pace,  in processione, avevano dato cristiana sepoltura alle ossa cadute sulla nera terra, ripulite dagli uccelli. Da quel punto, poi, la strada correva piana e diritta fino a Cabril.
Così Don Ruy pensava alla sua venturosa giornata, mentre la sera cadeva a poco a poco. Ma allorché fu buio completo, e intorno alle torri della chiesa cominciarono a girare i pipistrelli, e sugli angoli della piazzetta si accesero le nicchie delle Anime, l'animoso giovane provò una paura strana, la paura di quella felicità che s'approssimava e che gli sembrava soprannaturale.
Era poi ben certo che quella donna di divina bellezza, famosa in Castiglia, più inaccessibile d'un astro, sarebbe stata sua, tutta sua, nel silenzio e nella sicurezza di un'alcova, pochi istanti dopo, quando non si fossero ancor nemmeno spenti, innanzi agli altari delle Anime, quei lumi devoti? E che cosa aveva fatto, lui, per meritare un così grande bene? Aveva passaggiato sulle lastre di una piazzetta, atteso alla porta d'una chiesa, cercando con gli occhi altri due occhi, che non s'alzavano, indifferenti e disattenti. Allora, rassegnato, aveva abbandonato quella speranza... Ed ecco che all'improvviso quegli occhi distratti lo cercavano, quelle braccia deliziose gli si aprivano, e, col corpo e con l'anima, quella donna gli gridava "Oh ingenuo, che non mi hai compresa! Vedi? Colei che ti scoraggiò, ora t'appartiene!".
Poteva mai esistere un'egual fortuna? Così preziosa, così rara era, che certo dietro ad essa, se la legge umana non errava, doveva camminare la sventura! E veramente camminava, poiché era pur grande angoscia sapere che dopo tanta felicità, quando all'alba, uscendo da quelle divine braccia, egli sarebbe tornato a Segovia, la sua Leonor, il bene supremo della sua vita, posseduto per un istante, in modo così insperato, sarebbe subito caduto sotto il dominio d'un altro padrone.
Ma che importava! Venissero dopo dolori e gelosie!
Quella notte era splendidamente sua, il mondo tutto era una vana apparenza, e l'unica realtà quella camera di Cabril, fiocamente illuminata, dove ella lo attendeva, coi capelli sciolti! 
Fu con impazienza che discese la scala, si slanciò sul cavallo. Poi, per prudenza, attraversò la piazzetta lentamente, con il cappello abbassato sugli occhi, come per una passeggiata normale, alla spontanea ricerca d'un po' di fresco notturno, fuori dalle mura. Nessun incontro lo inquietò fino alla porta di San Mauros. Lì, un mendico, accovacciato nell'oscurità d'un arco, e che toccava monotonamente la sua gironda, chiese con lamentosa cantilena, alla Vergine e a tutti i Santi, che tenessero sotto la loro dolce e santa guardia quel gentile cavaliere.
Don Ruy già stava per gettargli un'elemosina, allorché ricordò che quella sera non era passato in chiesa, all'ora dei Vespri, a pregare e a chiedere la benedizione della sua divina Madrina (*). Con un salto discese subito da cavallo, poiché proprio lì, vicino al vecchio arco, tremolava una lampada, illuminando un altarino. Era un'immagine della Vergine col petto trapassato da sette spade. Don Ruy s'inginocchiò, posò il cappello sulle lastre e con le mani giunte, con grande pietà, recitò un Salve Regina. Il chiarore giallognolo della lampada si diffondeva sul volto della Signora: che, senza sentire il dolore delle sette spade, e come se esse le dessero soltanto un'ineffabile piacere, sorrideva con le labbra molto vermiglie. Mentr'egli pregava, nel vicino convento di San Domingos la campana cominciò a suonare un'agonia.
Dalla cupa ombra dell'arco, cessando di suonare la gironda, il mendico mormorò: "Vi è laggiù un frate che muore". Don Ruy recitò un'Ave Maria per il frate che moriva. La Vergine dalle sette spade sorrideva dolcemente: quei tocchi d'agonia non erano poi un cattivo presagio! Don Ruy salì allegramente a cavallo e partì.
Oltre la porta di San Mauros, dopo alcune casupole di oliari, la strada continuava stretta e buia, fra alte agavi. Dietro le colline, sul fondo della tenebrosa pianura, saliva, giallo e languido, il primo chiarore della luna piena, ancor nascosta. E Don Ruy andava al passo, temendo di giungere a Cabril troppo presto, prima che le ancelle e i famigli avessero terminato il lavoro notturno e il rosario. Perché Dona Leonor non gli aveva indicata l'ora in quella lettera così precisa e così meditata? E la sua immaginazione correva innanzi, irrompeva nel giardino di Cabrìl, saliva ansiosamente la scala promessa, ed egli si slanciava dietro questo suo immaginare, in una corsa impaziente, che faceva saltare le pietre alla strada mal connessa. Poi frenava il cavallo ansante. Era presto, era presto! E riprendeva il passo lento, mentre sentiva il cuore battergli in petto, come un uccello prigioniero che batte contro le sbarre.
Così giunse alla Grande Croce, dove la strada si divideva in due strade, più avvicinate delle punte d'un tridente, e che tagliavano entrambe la pineta. Don Ruy si scoprì innanzi all'immagine del Crocifisso, e provò un istante d'angoscia, perché non ricordava quale delle due strade portasse al Colle degli Impiccati. Già s'era addentrata nella strada che attraversava la pineta più fitta allorché fra i pini silenziosi scorse una luce, danzante nell'oscurità. Era una vecchia cenciosa, con i lunghi capelli sciolti, appoggiata ad un bastone, che portava una candela.
"Dove conduce questa strada?", gridò Ruy.
La vecchia fece dondolare più alta la candela, per guardare bene il cavaliere.
"A Xarama"
E luce e vecchia immediatamente scomparvero, sommerse nell'ombra, come se fossero lì comparse soltanto per avvisare il cavaliere che aveva sbagliato strada... Già egli aveva furiosamente fatto voltare il cavallo, e, girando attorno al Calvario galoppò per l'altra strada più ampia, finché scorsi sullo sfondo chiaro del cielo i pilastri neri, gli alberi neri del Colle degli Impiccati. Allora si fermò improvvisamente, drizzandosi sulle staffe. Su di un monticello alto, arido, senza erba o eriche, uniti da un basso muro sbrecciato, si innalzavano neri, enormi, nel pallore lunare, i quattro pilastri di granito, simili ai quattro angoli d'una casa in rovina. Sui pilastri poggiavano quattro grosse travi. Dalle travi pendevano quattro impiccati neri e rigidi nell'aria calma e muta. E tutto, intorno, pareva morto come loro.
Grossi uccelli di rapina dormivano appollaiati sopra le travi. Più lontano brillava, livida, l'acqua morta dello stagno Das Donas. E nel cielo, grande e piena, la luna camminava.
Don Ruy mormorò il Padre Nostro dovuto da ogni cristiano a quelle anime peccatrici. Poi spronò il cavallo, e già se ne andava, allorché nell'immenso silenzio e nell'immensa solitudine risuonò una voce che lo chiamava, supplice e lenta: "Cavaliere, fermatevi, venite qua!..."
Don Ruy tirò bruscamente le redini e, ritto sulle staffe, girò gli occhi spaventati su tutta la sinistra altura. Scorse soltanto il colle scosceso, l'acqua luccicante e muta, le travi, i cadaveri. Pensò che forse era un'illusione della notte o l'audacia d'un qualche demonio errante.
E serenamente, spronò il cavallo, senza soprassalto o paura, come in una via di Segovia. Ma, dietro a lui, la voce si riudì, e lo richiamò, con più premura, ansiosa, quasi afflitta:
"Cavaliere, attendete, non andatevene, voltatevi, venite qui!"
Di nuovo Don Ruy si fermò, e, giratosi sopra la sella, scrutò coraggiosamente i quattro corpi penzolanti dalle travi.
Da quel lato risuonava la voce, che, essendo umana, poteva soltanto uscire da una forma umana! Uno di quegli impiccati, dunque, lo chiamava con tanta ansia e premura.
Restava forse ad alcuno, per miracolosa grazia di Dio, respiro e vita? O forse, per più vivo miracolo, una di quelle carcasse mezzo imputridite lo fermava, per trasmettergli un avviso dall'Aldilà?... Ma uscisse la voce dal petto d'un vivo o d'un morto, era grande viltà fuggire, terrorizzato, senza fermarsi ad udirla. Spinse subito su, per l'erta del Colle, il cavallo che tremava, e diritto e fermo, con la mano sul fianco, dopo aver fissato ad uno ad uno i quattro corpi sospesi, gridò:
"Chi di voi, o uomini impiccati, osò chiamare Don Ruy de Cardenas?"
Allora, quello che voltava le spalle alla luna piena rispose, dall'alto della corda, tranquillamente e naturalmente, come un uomo che dalla sua finestra conversa verso la strada: "Signore, sono stato io."
Don Ruy fece avanzare il cavallo fino a lui. Non gli distingueva il volto, affondato nel petto, celato nelle lunghe e nere ciocche dei capelli penzolanti. Avvertì soltanto che aveva le mani slegate e slegati pure i piedi nudi, già rinsecchiti e color del bitume.
"Che vuoi?"
L'impiccato, sospirando, mormorò: "Signore, fatemi la grande grazia di tagliarmi questa corda a cui sto appeso."
Don Ruy trasse la spada e con un colpo sicuro tagliò la corda mezzo imputridita. Con un sinistro scricchiolio di ossa che cozzavano, il corpo cadde al suolo, su cui giacque un momento disteso. Ma, immediatamente, si rizzò sui piedi malsicuri e ancora intorpiditi, e rivolse a Don Ruy una faccia morta, ch'era quella d'un cadavere con la pelle stirata e più gialla della luna che batteva su di essa. Gli occhi non avevano né luce né movimento. Le labbra erano stirate in un sorriso impietrito. Fra i denti, molto bianchi, usciva la punta di una lingua tutta nera.
Don Ruy non manifestò né terrore né ribrezzo. E ringuainando serenamente la spada: "sei morto o sei vivo?", chiese.
L'uomo si strinse lentamente nelle spalle: "Signore, non so... chi sa che cosa sia la vita? Chi sa che cosa sia la morte?"
"Ma che vuoi da me?"
L'impiccato, con le lunghe dita scarne, allentò la corda che ancora gli stringeva il collo e dichiarò sicuro e sereno:
"Signore, io voglio venir con voi a Cabril, dove voi andate."
Il cavaliere sussultò così forte, tirando le redini, che il suo buon cavallo si impennò come spaventato esso pure.
"Con me a Cabril?!..."
L'uomo curvò la schiena, di cui si vedevano tutte le ossa, più acute dei denti d'una sega, attraverso un lungo brandello di camicia di stamigna: "Signore", supplicò, "non negatemelo. Perché io riceverò un grande premio se vi renderò un grande servizio!"
Allora Don Ruy pensò all'improvviso che quella poteva essere una formidabile astuzia del Demonio. E, fissando gli occhi ardenti in quella faccia morta che si levava verso di lui, ansiosa, nell'attesa del consenso, tracciò lento ed ampio il segno della Croce.
L'impiccato abbassò gli occhi con timorosa riverenza:
"Signore, perché volete provarmi con questo segno? Soltanto per suo mezzo otteniamo remissione, soltanto da esso spero misericordia."
Allora Don Ruy pensò che se quell'uomo non era mandato dal Demonio, ben poteva esser mandato da Dio! E subito devotamente, con un gesto sottomesso, col quale si rimetteva al Cielo, acconsentì e accettò il terrificante compagno: "Vieni con me, dunque, a Cabril, se Dio ti manda! Ma io nulla ti domando e tu non domandarmi nulla."
Fece discendere subito il cavallo nella strada, tutta illuminata dalla luna. L'impiccato gli camminava di fianco, con passo così leggere che, anche quando Don Ruy galoppava, egli continuava a rimanere presso la staffa, come portato da un vento silenzioso. A volte, per respirar più liberamente, allentava il nodo della corda che gli stringeva il collo. E quando passavano attraverso siepi odoranti di fiori silvestri, l'uomo mormorava con sollievo e delizia: "Quant'è bello correre!"
Don Ruy andava, assorto in una meraviglia, in una tormentosa preoccupazione. Ben comprendeva, ora, che quello era un cadavere rianimato da Dio per uno strano e misterioso servizio. Ma perché Dio gli dava un così spaventoso compagno?! Per proteggerlo? Per impedire che Dona Leonor, amata dal Cielo per la sua pietà, cadesse in colpa mortale? E per una così divina incombenza, di così alta grazia, non aveva, il Signore, angeli nel Cielo? Era necessario ricorrere a un suppliziato?... Come avrebbe allegramente girate le redini verso Segovia, se non fosse stato per galante lealtà di cavaliere, orgoglio di non indietreggiae, e sottomissione agli ordini di Dio, che sentiva incombere su di sé...
Dall'alto della strada, all'improvviso scorsero Cabril, le torri del convento francescano biancheggianti nel plenilunio, i casali addormentati fra gli orti. In gran silenzio, senza che un cane latrasse dietro i cancelli o dall'alto d'un muretto, discese sul vecchio ponte romano. Dinanzi al Calvario, l'impiccato cadde in ginocchio sulle pietre, congiunse le livide ossa delle mani, e rimase a lungo assorto in preghiere, tra lunghi sospiri.
Poi, all'entrata del sentiero, bevette copiosamente con sollievo, da una fonte che correva e cantava sotto le fronde di un salice. Poiché il sentiero era molto stretto, egli camminava innanzi al cavaliere, tutto curvo, con le braccia incrociate sul petto, senza rumore.
La luna se ne andava alta nel cielo. Don Ruy considerava con amarezza quel disco, pieno e lucente, che spargeva tanto chiarore con così poca discrezione, sul suo segreto. Ah, come si sciupava quella notte che doveva esser divina! Una luna enorme sorgeva dietro i mondi illuminando ogni cosa. Un impiccato aveva lasciato la sua forca per seguirlo e tutto conoscere. Dio così aveva ordinato. Ma che tristezza giungere alla dolce porta, dolcemente promessa, con tale intruso al suo lato, sotto quel cielo così chiaro!
Bruscamente l'impiccato si fermò, alzando il braccio, da cui pendeva una manica a brandelli.
Erano giunti al termine del sentiero che sbucava in una strada più larga e più battuta: e innanzi a loro biancheggiava il lungo muro della proprietà del signor de Lara, che presentava in quel luogo un belvedere, con terrazzino di pietra e tutto rivestito d'edera.
"Signore", mormorò l'impiccato, reggendo con rispetto la staffa di Don Ruy "a pochi passi da questo belvedere vi è la porta per cui dovete entrare nel giardino. è necessario che lasciate qui il cavallo, legato ad un albero, se lo sapete sicuro e fedele, poiché nell'impresa a cui stiamo per andare incontro è già di troppo il rumore dei nostri piedi!..." 
Silenziosamente Don Ruy balzò a terra, e legò il cavallo, che sapeva fedele e sicuro, al tronco d'un olmo rinsecchito.
E si sentiva così sottomesso a quel compagno imposto da Dio, che senz'altra osservazione lo seguì lungo il muro illuminato dalla luna.
Con profonda cautela, e sulla punta dei piedi nudi, l'impiccato ora avanzava, scrutando la sommità del muro, l'oscurità della siepe e fermandosi ad ascoltare rumore che soltanto da lui potevano essere percepiti, perché Don Ruy non aveva mai veduta notte più profondamente addormentata e muta.
E tale paura, in un essere che avrebbe dovuto essere indifferente ai pericoli umani, andò lentamente riempiendo pure il valoroso cavaliere di così viva diffidenza, che egli tirava il pugnale dalla guaina, arrotolava il mantello sul braccio, camminava all'erta, con l'occhio acceso, come per una strada d'imboscata e di rissa. Giunsero così ad una bassa porta, che l'impiccato sospinse, e che s'aprì senza gemere sui cardini. Entrarono in un sentiero fiancheggiato da folti tassi, e giunsero ad uno stagno pieno d'acqua, su cui galleggiavano foglie di nenufari, e che rustici banchi di pietra circondavano, coperti dai rami di arbusti in fiore.
"Da questa parte", mormorò l'impiccato, stendendo il braccio incartapecorito.
Vi era, oltre lo stagno, un viale a cui i fronzuti e vecchi alberi formavano un'oscura volta. In esso s'immersero come ombre nell'ombra; l'impiccato camminava davanti, e Don Ruy lo seguiva con passo leggero, senza sfiorare un ramo, calcando appena la ghiaia. Un leggero filo d'acqua sussurrava tra le erbe. Lungo i tronchi salivano rose rampicanti, che olezzavano dolcemente. Il cuore di Don Ruy cominciò a battere d'amorosa speranza.
"Ssss!", mormorò l'impiccato.
E Don Ruy urtò quasi il sinistro uomo, che stava con le braccia aperte come i ferri d'una cancellata.
Davanti a loro quattro gradini di pietra portavano a un terrazzo, su cui la chiarità era ampia e diffusa. Tutti curvi, salirono i gradini, e in fondo a un giardino senz'alberi, tutto aiuole di fiori ben curati, contornate da bosso tagliato, scorsero un lato della casa sotto il plenilunio. In mezzo, tra le finestre della facciata principale, un balcone di pietra, con mascheroni agli angoli, aveva le vetrate spalancate. Il silenzioso appartamento, all'interno, era come un buco tenebroso nella chiarità della facciata che la luna inondava. E appoggiata al balcone stava una scala con gradini di corda.
Allora l'impiccato sospinse vivamente Don Ruy dai gradini verso l'oscurità del viale. E lì, frettolosamente, dominando il cavaliere, esclamò:
"Signore! è ora necessario che mi diate la vostra cappa e il vostro cappello! Voi rimanete qui, nell'oscurità di questi alberi. Io salirò quella scala e guarderò in quella camera. E se tutto è come desiderate, tornerò qui, e con Dio siate felice..."
Don Ruy indietreggiò per l'orrore che una tale creatura salisse a quella finestra.
Batté il piede, e gridò sordamente:
"No, per Dio!"
Ma la mano dell'impiccato, livida nell'oscurità, bruscamente gli strappò il cappello dalla testa e la cappa di sul braccio. E già se ne copriva, già se ne avvolgeva, mentre ancor mormorava in un'ansiosa supplica:
"Non negatemelo, signore, che se vi renderò un grande servizio, guadagnerò un grande premio!"
Salì i gradini: si trovava ora sull'ampio e luminoso terrazzo.
Don Ruy attese, meravigliato, e guardò. Ma... era lui, Don Ruy, tutto lui, nella figura e nel portamento, quell'uomo che, tra le aiuole e il bosso tagliato, avanzava, gentile e lieve, con la mano sul fianco, il volto sorridente levato verso la finestra, la lunga piuma scarlatta del cappello ondeggiante trionfalmente. L'uomo avanzava nello splendore del plenilunio. L'amorosa stanza stava là in attesa, spalancata ed oscura. E Don Ruy guardava, con occhi che brillavano, tremando di stupore e di collera. L'uomo era
giunto alla scala: si svolse dalla cappa, e appoggiò il piede sul primo gradino della scala di corda!
"Ah... sale lassù, il maledetto", ruggì Don Ruy.
L'impiccato saliva. Già l'alta figura, ch'era la figura di lui, Don Ruy, si trovava a mezza scala, tutta nera contro la parete bianca. Si fermò!... No, non s'era fermata: saliva, era giunto... ormai posava il ginocchio prudente sul davanzale della terrazza. Don Ruy guardava, disperatamente, con gli occhi, con l'anima, con tutto l'essere suo... Ed ecco che, all'improvviso, dalla nera stanza esce una massa nera, un'infuriata voce grida: "Vile! vile!" e la lama d'una daga brilla, s'abbassa, e un'altra volta si leva e brilla, e si abbatte, e ancora rifulge e ancora s'immerge!...Come un fardello, dall'alto della scala, pesantemente, l'impiccato cade sopra la terra molle. Le vetrate, le porte del balcone si chiudono tosto con fragore. E non vi fu più che il silenzio, la molle serenità, la luna alta e tonda nel cielo d'estate.
In un lampo Don Ruy aveva compreso il tradimento, e aveva sguainata la spada, indietreggiando nell'oscurità del viale; allorché miracolosamente, correndo attraverso il terrazzo, apparve l'impiccato, che gli afferrò la manica e gli gridò: "A cavallo, signore, e fuggite, che l'appuntamento non era d'amore, ma di morte!"
Percorsero entrambi frettolosamente il viale, costeggiarono lo stagno, sotto il riparo degli arbusti in fiore, penetrarono per la stretta strada fiancheggiata dai tassi, oltrepassarono la porta, e si fermarono un momento, ansanti, nella strada, che la luna, più fulgida, più tonda, illuminava a giorno. E allora, soltanto allora, Don Ruy scoprì che l'impiccato conservava piantata nel petto, fino alla lama, la daga, la cui punta gli usciva dal dorso, lucida e limpida!... Ma lo spaventevole personaggio lo sospingeva, lo pressava: "A cavallo, signore, e in tutta fretta, che sta ancora sopra di noi il tradimento!"
Tremante, nell'ansia di finire un'avventura così piena di miracolo e di orrore, Don Ruy raccolse le redini, e si mise a galoppare furiosamente. E subito, in gran fretta, l'impiccato saltò egli pure in groppa al cavallo fedele. Il buon cavaliere provò raccapriccio nel sentir sfiorare il suo dorso da quel corpo morto, staccatosi da una forca, attraversato da una daga. E con quale angoscia galoppò allora per la strada interminabile! Malgrado la violenta cavalcata l'impiccato non oscillava, rigido in groppa, come un bronzo su d'un piedistallo. E Don Ruy sentiva crescere istante per istante un freddo intenso che gli gelava le spalle, come se vi portasse sopra un sacco di ghiaccio. Passando sul crocevia mormorò: "Signore, proteggetemi!". Oltrepassato il crocevia il raccapriccio lo pervase, per la chimerica paura che un così funebre compagno gli restasse al fianco per sempre, e che gli toccasse il destino di galoppare attraverso il mondo, in una notte eterna, portando un morto in groppa... E non si contenne, ma gridò, dietro di sé, nel vento della corsa che lo flagellava: "Dove volete che vi porti?"
L'impiccato, stringendosi tanto a Don Ruy da ammaccarlo con l'elsa della daga, mormorò:
"Signore, è necessario che mi lasciate sul Colle!"
Infinito, dolce sollievo per il buon cavaliere, poiché il Colle era vicino, e già si scorgevano nel pallido chiarore i pilastri e le nere travi... Presto arrestò il cavallo che tremava, bianco di spuma.
Tosto l'impiccato, silenziosamente, scivolò di groppa e assicurò come un buon servo la staffa di Don Ruy. E col teschio eretto, la lingua nera più sporgente fra i bianchi denti, mormorò con rispettosa preghiera: "Signore fatemi ancora la grande grazia d'appendermi un'altra volta alla mia trave."
Don Ruy rabbrividì d'orrore: "In nome di Dio... io, dovrei impiccarvi?"
L'uomo sospirò, aprendo le lunghe braccia: "Signore, per volontà di Dio e per volontà di Colei che è più cara a Dio!"
Allora, rassegnato, sottomesso al volere dell'Altissimo, Don Ruy saltò a terra e cominciò a seguire l'uomo che saliva il Colle, meditanondo, col dorso curvo, da cui usciva, luccicante, la punta della daga. Si fermarono entrambi sotto la trave vuota. Intorno, dalle altre travi, pendevano le altre carcasse. Il silenzio era più triste e più profondo degli altri silenzi della terra. L'acqua dello stagno s'oscurava. La luna tramontava e impallidiva.   
Don Ruy considerò la trave, su cui restava, penzolante nell'aria, il pezzo di corda che egli aveva tagliato con la spada.
"Come volete che vi appenda?", esclamò, "Non posso raggiungere quel pezzo di corda con la mano. Né io solo basto per issarvi lassù."
"Signore", rispose l'uomo, "lì in un angolo vi deve essere un lungo rotolo di corda. Attaccherete un'estremità d'essa al nodo che mi stringe il collo, e l'altra estremità la lancerete in cima alla trave, e spingendo poi, forte come siete, mi potrete appendere di nuovo."
Curvi entrambi, con passo lento, cercarono il rotolo di corda. E fu l'impiccato che lo trovò e lo srotolò... Allora Don Ruy sfilò i guanti. E guidato dal defunto (che così bene aveva imparato dal carnefice) attaccò un'estremità della corda al laccio che l'uomo conservava ancora al collo, e lanciò forte l'altra estremità, che ondeggiò nell'aria, passò sopra la trave, cadde penzolante fino a sfiorare il suolo. E il gagliardo cavaliere, puntando i piedi, tendendo le braccia, spinse, issò l'uomo, fino a che egli se ne rimase sospeso nell'aria, nero, come un impiccato naturale, fra gli altri impiccati.
"State bene così?"
Lenta e soffocata, la voce del morto rispose:
"Signore, sto come devo,"
Intanto Don Ruy, per fissarla, rotolò la corda, in ampi giri, intorno al pilastro di pietra. Quindi posò il cappello, asciugandosi con la costa della mano il sudore che lo inondava, poi contemplò il suo sinistro e miracoloso compagno. Stava là, rigido come prima, con la faccia pendula, sotto la capigliatura ricadente, i piedi irrigiditi, imputridito come una vecchia carcassa.
Nel petto conservavo la daga infilzata. Sulla trave due corvi dormivano quieti.
"E ora che cosa volete ancora?", domandò Don Ruy, cominciando a infilarsi i guanti.
Con voce cavernosa dall'alto, l'impiccato mormorò:
"Signore, di gran cuore ancora vi prego, che al vostro arrivo a Segovia confessiate tutto fedelmente a Nostra Signora del Pilar, vostra Madrina, poiché da lei spero una grande grazia per l'anima mia, in cambio del servizo che, per ordine suo, vi ho reso col mio corpo!"
Allora Don Ruy de Cardenas comprese ogni cosa, e inginocchiandosi devotamente, sopra quella terra di dolore e di morte, recitò una lunga orazione per quel buon impiccato.
Poi galoppò verso Segovia. Albeggiava allorché oltrepassò la porta di San Mauros. Nell'aria sottile le chiare campane suonavano il Mattutino. Ed entrando nella chiesa di Nostra Signora del Pilar, ancor sotto l'impressione della sua terribile giornata, Don Ruy, prostrato innanzi all'altare, narrò alla sua Divina Madrina l'infausta tentazione che l'aveva condotto a Cabril, il soccorso che aveva ricevuto dal Cielo e con calde lacrime di pentimento e di gratitudine le giurò che mai più avrebbe rivolto il suo desiderio ove vi fosse peccato, e che mai più avrebbe albergato nel suo cuore un pensiero che provenisse dal Mondo e dal Male.

(*) Come già dicevo, qui c'è un errore teologico. Maria non è divina, perché non è una Dea. è la serva obbediente, sottoposta a dio.


IV

Alla stessa ora, a Cabril, Don Alonso de Lara, con gli occhi sbarrati per l'angoscia e il terrore, scrutava tutti i sentieri, e gli angoli e le ombre del suo giardino. Quando all'alba, dopo aver origliato alla porta della camere in cui quella notte aveva chiuso Dona Leonor, egli era disceso cautamente in giardino e non aveva trovato, sotto il terrazzo, ai piedi della scala, come deliziosamente sperava, il corpo di Don Ruy de Cardenas, aveva pensato che certo quell'uomo odioso, cadendo, con ancor un debole resto di vita, si era trascinato, sanguinando e ansando, nel tentativo di raggiungere il cavallo e di allontanarsi da Cabril...
Ma con quella poderosa daga con cui tre volte egli gli aveva trapassato il petto, e che nel petto gli aveva lasciata, il vile non aveva certo potuto fare molta strada, e doveva pur giacere in qualche angolo, freddo e rigido. Scrutò allora ogni sentiero, ogni ombra, ogni macchia d'arbusti. Ma, fatto straordinario, non scoprì né corpo né orme né terra rimossa, né alcuna macchia di sangue! E tuttavia, con mano sicura e famelica di vendetta, tre volte gli aveva piantata la daga nel petto, e nel petto gliel'aveva lasciata!
Ed era Ruy de Cardenas l'uomo che egli aveva ucciso, perché molto bene e subito l'aveva riconosciuto, dall'oscuro fondo della stanza da dove stava spiando, quand'egli, nel chiarore lunare, veniva attraverso il terrazzo, fiducioso, disinvolto, con la mano alla cintura, il volto sorridente, eretto, e la piuma del cappello trionfalmente dondolante! Come poteva essere accaduto l'impossibile fatto che un corpo mortale sopravvivesse ad un ferro, che per tre volte gli aveva attraversato il cuore, e nel cuore era rimasto inflitto? E più impossibile ancora era che sul suolo, sotto il terrazzo dove si stendeva lungo il muro una fila di viole e di gigli, quel corpo vigoroso, cadendo da tanta altezza, pesantemente, inertemente, come un fardello, non avesse lasciato segno!
Non un fiore calpestato, ma tutti diritti, rigogliosi, freschi, cosparsi di lievi gocce di rugiada! Immobile d'uno spavento ch'era quasi terrore, Don Alonso de Lara rimaneva lì assorto, a considerare il balcone, a misurare l'altezza della scala, guardando stralunato le viole diritte, fresche, senza uno stelo o una foglia piegata. Poi ricominciava a percorrere come un folle il terrazzo, il viale, il sentiero dei tassi, sempre nella speranza d'incontrare un'orma, un ramo spezzato, una macchia di sangue sulla sabbia fine.
Nulla! Tutto il giardino offriva un ordine insolito, una serenità nuova, come se sopra di esso non fosse passato né il vento che sfoglia, né il sole che avvizzisce.
Allora, all'imbrunire, divorato dall'incertezza e dal mistero, prese un cavallo, e, senza scudiero o stalliere, partì per Segovia.
Curvo, in gran segreto, come un fuoriuscito, entrò nel suo palazzo per la porta del frutteto: e la sua prima cura fu di correre alla galleria degli archi, spalancare i battenti della finestra, e scrutare avidamente la casa di Don Ruy de Cardenas. Tutte le persiane della vecchia casa dell'arcidiacono erano buie, aperte, a respirare la freschezza della notte, e alla porta, seduto su un banco di pietra, un mozzo di stalla accordava accuratamente la mandòla.
Don Alonso de Lara discese nella sua camera, livido, pensando che non potevano certo essere accadute disgrazie in una casa in cui tutte le finestre erano spalancate per dar aria, e sulla porta di strada i domestici oziavano. Allora batté le palme, chiese furiosamente la cena. E appena seduto a capotavola, sulla sua alta seggiola di cuoio lavorato, mandò a chiamare l'intendente, a cui offrì subito con strana familiarità, una coppa di vecchio vino. E mentre l'uomo, in piedi, beveva rispettosamente, Don Alonso, accarezzandosi la barba, e sforzando la sua fosca faccia a sorridere, cominciò ad interrogarlo sulle novità e sui pettegolezzi di Segovia. In quei giorni della sua permanenza a Cabril, nessun fatto aveva destato per la città spavento o scandalo?
L'intendente si asciugò le labbra, per affermare che nulla era accaduto a Segovia che potesse destare mormorazioni, se non che la figlia del signor Gutierrez, giovanissima e ricchissima, aveva preso il velo nel convento delle Carmelitane Scalze. Don Alonso insisteva, fissando voracemente l'intendente. E non v'era stata qualche grande rissa? ...Non s'era trovato ferito sulla strada di Cabril un giovane cavaliere assai noto?... L'intendente si strinse nelle spalle: non aveva udito nulla, nella città, di risse o di cavalieri feriti. Con un brusco cenno Don Alonso congedò l'intendente.
Dopo aver cenato parcamente, ritornò subito nella galleria, a scrutare le finestre di Don Ruy. Erano ancora chiuse; all'ultima, nell'angolo, tremolava un leggero chiarore. Don Alonso vegliò tutta la notte, rimuginando instancabilmente il suo terrore. Come aveva potuto fuggire quell'uomo, con una daga che gli trapassava il cuore? Come aveva potuto?... All'alba prese una cappa, un largo cappello, discese nella piazzetta, tutto imbacuccato, e si mise a ronzare innanzi alla casa di Don Ruy. Le campane suonavano il Mattutino. I mercanti, con i giubboni male abbottonati, uscivano ad aprire le porte dei negozi e ad appendere i cartelli. Già gli ortolani, pungolando gli asini, carichi di ceste, annunziavano a grida i loro freschi ortaggi, e frati scalzi, con le bisacce sulle spalle, chiedevano l'elemosina, benedicevano le ragazze.
Beghine imbacuccate, con grossi rosari neri, correvano golosamente verso la chiesa. Poi il banditore della città, fermatosi ad un angolo della piazzetta, suonò una tromba, e con una voce tremenda cominciò a leggere un editto. Il signor de Lara s'era fermato presso la fontana, smarrito, come sperduto nel canto dei tre cannelli d'acqua. Ad un tratto pensò che quell'editto letto dal banditore della città poteva forse riferirsi a Don Ruy, alla sua sparizione...
Corse all'angolo della piazza, ma già l'uomo rotolava la sua carta, e si allontanava maestosamente, battendo sopra le lastre con la sua bacchetta bianca.
E allora, quando Don Alonso si voltò per spiare di nuovo la casa, i suoi occhi attoniti incontrarono Don Ruy. Don Ruy che egli aveva ucciso, e che se ne veniva verso la chiesa di Nostra Signora, svelto, allegro, con la faccia sorridente ed eretta nella fresca aria mattutina, il corsetto e le piume del cappello in tinta chiara, con una mano posato sul fianco e l'altra che giocherellava distrattamente con un bastoncello dai fiocchi di cordoncino dorato.
Don Alonso rientrò allora in casa con passo strascicato e senile. Alla sommità della scala di pietra trovò il suo vecchio cappellano ch'era venuto a ossequiarlo e che entrando con lui nell'anticamera, dopo aver rispettosamente domandato notizie della signora Dona Leonor, gli narrò un prodigioso avvenimento che provocava per la città grandi commenti e vivo terrore. Il giorno prima, verso sera, essendo andato il corregidor a visitare il Colle degli Impiccati, poiché si avvicinava la festa dei Santi Apostoli, aveva scoperto, con grande meraviglia e grande scandalo, che uno degli impiccati portava una daga piantata nel petto!
Era stato lo scherzo di un sinistro briccone? Una vendetta che neppure la morte aveva saziato?... E per maggior prodigio ancora, il corpo era stato staccato dalla forca, trascinato in un orto o in un giardino (poiché si trovarono attaccate ai vecchi cenci del morto delle tenere foglie) e poi nuovamente impiccato e con una corda nuova!... E così andavano i tempi, turbolenti al punto che neppure i morti sfuggivano a oltraggi!
Don Alonso ascoltava con le mani che gli tremavano e i capelli irti. E subito, in un'ansiosa agitazione, ruggendo, inciampando contro le porte, volle partire e verificare con i propri occhi la funebre profanazione. Su due mule bardate in fretta partì per il Colle degli Impiccati, trascinando seco il cappellano stordito.
Molta gente di Segovia s'era già raccolta sul Colle, stupita del fatto meraviglioso e orrendo: il morto ch'era stato ucciso!... Tutti si scostarono innanzi al nobile signore de Lara che, slanciatosi sulla sommità del Colle, s'era fermato a guardare, stralunato e livido, l'impiccato e la daga che gli trafiggeva il petto. Era la sua daga: era stato lui che aveva ucciso il morto! Galoppò terrorizzato sino a Cabril. E lì giunto, si chiuse con il suo segreto, cominciando subito a ingiallire, a dimagrire, evitando Dona Leonor, nascosto nei più oscuri sentieri del giardino, mormorando parole al vento, finché all'alba di San Joan un'ancella che tornava dalla fontana con la sua brocca, lo rinvenne morto sotto il balcone di pietra, lungo disteso a terra, con le dita sprofondate fra le piante delle viole, dove sembrava aver a lungo scavato la terra, per cercare...


V

Per sfuggire a tali angosciose memorie, Dona Leonor, ereditiera di tutti i beni di casa de Lara, si ritirò nel suo palazzo di Segovia. Ma poiché ora sapeva che Don Ruy de Cardenas era sfuggito
miracolosamente all'imboscata di Cabril, e poiché ogni mattina, spiando attraverso le persiane socchiuse, lo seguiva con occhi che non si saziavano e si inumidivano allorché egli attraversava la piazzetta per entrare in chiesa, ella non volle, per timore dell'impazienza del suo cuore, visitare la Signora del Pilar finché durasse il suo lutto. Poi, un mattino di domenica, quando, invece che di nero crespo, poté vestirsi di seta violetta, discese la gradinata del suo palazzo, oltrepassò la porta della chiesa. Don Ruy de Cardenas stava inginocchiato innanzi all'altare, dove aveva posato il suo fascio votivo di garofani gialli e bianchi. Al fruscio delle fini sete alzò gli occhi colmi d'una speranza purissima, tutta fatta di grazia celeste, come se un angelo l'avesse chiamato. Dona Leonor si inginocchiò col petto ansante, così pallida e così felice che la cera delle torce non era più pallida, né più felici erano le rondini che battevano le ali libere, per le ogive della vecchia chiesa.
Innanzi a quell'altare, inginocchiati su quelle lastre, essi furono uniti in matrimonio dal vescovo di Segovia, Don Martinho, nell'autunno dell'anno di grazia 1475, regnando già in Castiglia Isabel e Fernando, potenti sovrani e ferventi cattolici, per mezzo dei quali Dio operò grandi cose sulla terra e sul mare.