"Vera" di Villiers de l'Isle-Adam (1874)


Alla signora contessa d'Osmoy

"La forma del corpo gli è più essenziale della sua sostanza" (La fisiologia moderna)


L'Amore è più forte della Morte, ha detto Salomone: sì, il suo misterioso potere è illimitato.
Era il cader di una sera d'autunno, in questi ultimi anni, a Parigi. Verso l'oscuro faubourg Saint-Germain, alcune carrozze, già illuminate, passavano, in ritardo dopo l'ora del Bois. Una di esse si fermò davanti al portone di un grande palazzo signorile, circondato da giardini secolari; il portale era sovrastato dal blasone di pietra con lo stemma dell'antica famiglia dei conti d'Athol, cioè azzuro con stella in abisso d'argento, col motto "Pallida Victrix" sotto la corona orlata di ermellino del copricapo principesco. I pesanti battenti di scostarono. Un uomo di trentacinque anni, vestito a lutto, dal viso mortalmente pallido, discese. Sulla scalinata alcuni servi taciturni reggevano delle torce. Senza vederli, egli salì i gradini ed entrò. Era il conte d'Athol.
Barcollando, salì le bianche scale che conducevano a quella camera nella quale, il mattino stesso, aveva adagiato nella bara di velluto e avvolto di violette, in flutti di batista, la sua signora di voluttà, la sua pallida sposa. Vera, la sua disperazione. In alto, la dolce porta girò sul tappeto; egli sollevò il tendaggio.
Tutti gli oggetti erano al posto in cui la contessa li aveva lasciati il giorno prima. La Morte, subitanea, aveva colpito come un fulmine. La notte scorsa, la sua amata era svenuta in gioie così profonde, si era perduta in amplessi così squisiti che il suo cuore, spezzato dalle delizie, aveva ceduto: le sue labbra si erano bruscamente bagnate di una porpora mortale. Aveva appena avuto il tempo di dare allo sposo un bacio d'addio, sorridendo, senza una parola: poi le sue lunghe ciglia, come veli da lutto, si erano abbassate sulla bella notte dei suoi occhi. Il giorno senza nome era passato. Verso mezzogiorno, il conte d'Athol, dopo l'atroce cerimonia nella cripta di famiglia, aveva congedato al cimitero la nera scorta. Poi, chiudendosi solo con la sepolta fra le quattro mura di marmo, aveva accostato alle sue spalle la porta di ferro del mausoleo. Dell'incenso bruciava su un tripode davanti al feretro; una corona luminosa di lampade, al capezzale della giovane defunta, splendeva su di lei.
Egli, in piedi, assorto, con l'unico sentimento di una tenerezza senza speranza, era rimasto lì tutto il giorno. Verso le sei, al crepuscolo, era uscito dal luogo sacro. Mentre richiudeva il sepolcro, aveva strappato dalla serratura la chiave d'argento e, sollevandosi sull'ultimo gradino della soglia, l'aveva delicatamente gettata nell'interno della tomba. L'aveva lanciata sul lastricato interno attraverso il trilobo che sormontava il portale.
Perché l'aveva fatto?... Sicuramente per qualche misteriosa decisione di non ritornarci più.
E ora rivedeva la camera vedova.
La finestra, sotto i vasti drappeggi di cachemire color malva ricamati d'oro, era aperta: un ultimo raggio della sera illuminava, in una cornice di legno antico, il grande ritratto della defunta. Il conte guardò intorno a sé la veste gettata, la sera prima, su una poltrona; sul caminetto i gioielli, la collana di perle, il ventaglio semichiuso, i pesanti flaconi di profumi che Lei non avrebbe più respirato. Sul letto d'ebano dalle colonne tortili, rimasto disfatto, vicino al guanciale sul quale l'impronta della testa adorata e divina era ancora visibile in mezzo ai merletti, scorse il fazzoletto arrossato di gocce di sangue sul quale la sua  giovane anima aveva battuto le ali per un istante; il pianoforte aperto, che reggeva una melodia incompiuta per sempre; i fiori indiani colti per lei nella serra, che morivano in vecchi vasi di Sassonia; e ai piedi del letto, su una pelliccia nera, le pantofoline di velluto orientale, sulle quali brillava un motto scherzoso di Vera, ricamato in perle: "chi vedrà Vera l'amerà". I piedi nudi dell'amata vi giocavano ieri mattina, baciati, a ogni passo, dalle piume dei cigni! E là, là, nell'ombra, la pendola, di cui egli aveva spezzato la molla, perché non suonasse più altre ore. Così era partita!... Per dove dunque?... Vivere ora? - Per far che?... Era impossibile, assurdo.
E il conte s'inabissava in pensieri sconosciuti.
Pensava a tutta l'esistenza passata. Sei mesi erano trascorsi da quel matrimonio. Non era stato all'estero, al ballo di un'ambasciata, che egli l'aveva vista per la prima volta?... Sì. Quell'istante risuscitava davanti ai suoi occhi, ben distinto. Ella gli appariva lì, radiosa. Quella sera, i loro sguardi si erano incontrati. Si erano riconosciuti, intimamente, della stessa natura, e fatti per amarsi per sempre.
Le frasi ingannatrici, i sorrisi che osservano, le insinuazioni, tutte le difficoltà che il mondo suscita per ritardare l'inevitabile felicità di coloro che si appartengono, si erano dissolti davanti alla tranquilla certezza che essi ebbero, all'istante stesso, l'uno dell'altra.
Vera, stanca delle cerimoniose insulsaggini del suo ambiente, era venuta verso di lui fin dalla prima circostanza irritante, semplificando così, in modo augusto, i banali processi in cui si perde il tempo prezioso della vita.
Oh! come, alle prime parole, i vani apprezzamenti degli indifferenti nei loro confronti apparvero loro un volo d'uccelli notturni che rientrano nelle tenebre! Che sorriso si scambiarono! Che ineffabile abbraccio!
Eppure la loro natura era delle più strane, in verità! Erano due esseri dotati di sensi meravigliosi, ma esclusivamente terrestri. Le sensazioni si prolungavano in loro con un'intensità inquietante. Si dimenticavano di se stessi a forza di provarle. D'altra parte, certe idee, quelle dell'anima, per esempio, dell'Infinito, di Dio stesso, erano come velate al loro discernimento. La fede di un gran numero di viventi nelle cose soprannaturali era per loro soltanto un tema di vaghi stupori: lettera morta di cui non si preoccupavano, dato che non erano competenti a condannare o giustificare. Così, riconoscendo che il mondo era loro estraneo, si erano isolati, subito dopo la loro unione, in questo vecchio e tetro palazzo, in cui lo spessore dei giardini attutiva i rumori dell'esterno.
Là, i due amanti si seppellirono nell'oceano di quelle gioie languide e perverse in cui lo spirito si mescolò alla carne misteriosa! Spossarono la violenza dei desideri, i fremiti e le tenerezze sperdute. Divennero il battito dell'essere l'uno dell'altra. In loro, lo spirito penetrava così bene il corpo, che le loro forme parevano loro intellettuali, e i baci, anelli ardenti, li incatenavano in una fusione ideale. Lungo abbagliamento! D'un tratto, l'incantesimo si rompeva: l'incidente terribile li disuniva: le loro braccia si erano separate. Quale ombra gli aveva preso la sua cara morta? Morta! no. Forse che l'anima dei violoncelli è portata via nel grido di una corda che si spezza?
Le ore passavano.
Egli guardava, attraverso la finestra, la notte che avanzava nei cieli: e la Notte gli appariva personale; gli sembrava una regina che incedeva, malinconica, in esilio, e il fermaglio di diamante della sua tunica di lutto, Venere, sola, brillava sopra gli alberi, perduta in fondo all'azzurro.
"è Vera", pensò.
A questo nome, pronunciato sottovoce, egli trasalì come chi si risveglia; poi, rizzandosi, guardò intorno a sé.
Gli oggetti, nella camera, erano ora illuminati da una luce finora imprecisa, quella di una lampada, che azzurrava le tenebre, che la notte, salita al firmamento, faceva apparire come un'altra stella. Era la lampada, dai profumi d'incenso, di un'iconostasi, reliquia di famiglia di Vera.
Il trittico, di antico legno pregiato, era sospeso, per la sua spartaneria russa, tra lo specchio e il quadro. Un riflesso degli ori dell'interno cadeva, vacillando, sulla collana, fra i gioielli del camino.
L'aureola della Madonna in abiti di cielo brillava, rosacea per la croce bizantina i cui fini e rossi lineamenti, fusi nel riflusso, adombravano di una tinta di sangue l'oriente così illuminato delle perle. Fin dall'infanzia, Vera compiangeva, con i suoi grandi occhi, il viso materno e così puro dell'ereditaria madonna, e, per sua natura, ahimé! non potendole consacrare altro che un amore superstizioso, glielo offriva talvolta, ingenua, pensosamente, quando passava davanti alla lampada.
Il conte, a questa vista, commosso da ricordi dolorosi fin nel più profondo dell'anima, si levò, spense in fretta la luce santa, e, tastoni, nell'ombra, tendendo la mano verso un cordone, suonò.
Apparve un servo: era un vecchio vestito di nero; reggeva una lampada, che posò davanti al ritratto della contessa. Quando si voltò, con un brivido di terrore superstizioso vide il suo signore in piedi e sorridente, come se non fosse accaduto nulla.
"Raymond", disse tranquillamente il conte "questa sera, siamo sopraffatti dalla stanchezza, la contessa ed io; servirai la cena verso le dieci. A proposito, abbiamo deciso di isolarci ancor di più, qui, fin da domani. Nessuno dei miei servitori, all'infuori di te, deve passare la notte nel palazzo. Darai loro lo stipendio di tre anni, e che si ritirino. Poi chiuderai la sbarra del portone; accenderai i candelabri da basso, nella sala da pranzo; tu ci basterai. Non riceveremo nessuno, in futuro."
Il vecchio tremava e lo guardava attentamente.
Il conte acceso un sigaro e scese nel giardino.
Il servitore pensò all'inizio che il dolore troppo grave, troppo disperato, aveva fatto smarrire il senno al suo padrone.
Lo conosceva dall'infanzia; comprese, all'istante, che l'urto di un risveglio troppo improvviso poteva essere fatale a quel sonnambulo. Il suo dovere, in primo luogo, era il rispetto di un tale segreto.
Abbassò la testa. Una complicità votata a questo religioso sogno? Obbedire?... Continuare a servirli senza tener conto della Morte? Che strana idea!... Sarebbe durata una notte?... Domani, domani, ahimè!... Ah! chi poteva sapere?... Forse!... Progetto sacro, dopo tutto! Che diritto aveva di giudicare?...
Uscì dalla camera, eseguì gli ordini alla lettera e, la sera stessa, l'insolita esistenza incominciò.
Si trattava di creare un miraggio terribile. Il disagio dei primi giorni passò presto. Raymond, dapprima con stupore, poi per una specie di deferenza e di tenerezza, si era a tal punto ingegnato a essere naturale, che, prima che fossero trascorse tre settimane a momenti, si sentiva quasi ingannato lui stesso dalla sua buona volontà. Il pensiero riposto impallidiva! A volte, provando una specie di vertigine, sentì il bisogno di dirsi che la contessa era effettivamente defunta. Si lasciava trascinare da questo funebre gioco e dimenticava a ogn istante la realtà. Ben presto gli fu necessaria più di una semplice riflessione per convincersi e riprendersi. Vide che avrebbe finito per abbandonarsi tutto intero al magnetismo spaventoso di cui il conte permeava a poco a poco l'atmosfera intorno a loro. Aveva paura una paura indecisa, dolce.
D'Athol, in effetti, viveva assolutamente nell'incoscienza della morte della sua amata! Non poteva fare a meno di trovarla sempre presente, tanto la forma della giovane donna era mescolata alla sua. Talvolta, su una panca del giardino, nei giorni di sole, leggeva, ad alta voce, le poesie che ella amava; talvolta, la sera, accanto al fuoco, con le due tazze da tè su un tavolino, parlava con l'illusione sorridente, seduta, per i suoi occhi, sull'altra poltrona.
I giorni, le notti, le settimane volarono. Né l'uno né l'altro sapevano che cosa facessero. E ora accadevano fenomeni singolari, in cui diveniva difficile distinguere fino a che punto l'immaginario e il reale erano identici. Una presenza galleggiava nell'aria: una forma si sforzava di trasparire, di intessersi nello spazio divenuto indefinibile.
D'Athol viveva doppio, da illuminato. Un viso dolce e pallido, intravisto come un lampo, tra due batter di ciglia; un tenue accordo suonato sul pianoforte, tutt'a un tratto; un bacio che gli chiudeva la bocca nel momento in cui stava per parlare, delle affinità di pensieri femminili che si destavano in lui in risposta a ciò che egli diceva, uno sdoppiamento di sé tale che egli sentiva, come in una nebbia fluida, il profumo vertiginosamente dolce dell'amata presso di sé, e di notte, tra il sonno e la vaglia, delle parole intese pianissimo; tutto l'avvertiva. Era una negazione della Morte innalzata, insomma, a una potenza sconosciuta!
Una volta, d'Athol la sentì e la vide così bene presso di sé, che la prese tra le braccia: ma questo movimento la dissipò.
"Bambina!", mormorò sorridendo.
E si riaddormentò come un innamorato respinto dall'amante ridente e assonnata. Il giorno del suo onomastico, infilò, per scherzo, un semprevivo nel mazzo di fiori che gettò sul guanciale di Vera.
"Visto che crede di essere morta", disse.
Grazie alla profonda e onnipotente volontà del signor d'Athol, che, con la forza dell'amore, forgiava la vita e la presenza di sua moglie nel palazzo solitario, questa esistenza aveva finito per diventare d'un fascino oscuro e persuasore. Raymond, anche lui, non provava più alcuno spavento, poiché si era gradatamente abituato a queste impressioni.
Un vestito di velluto nero scorto alla curva d'un viale; una voce ridente che lo chiamava nel salone; un suono di campanello il mattino al suo risveglio, come un tempo; tutto ciò gli era divenuto familiare: si sarebbe detto che la morta giocasse a fare l'invisibile, come una bambina. Si sentiva talmente amata! Era proprio naturale.
Un anno era passato.
La sera dell'Anniversario, il conte, seduto accanto al fuoco, nella camera di Vera, le aveva appena letto una favola fiorentina: "Callimaco". Chiuse il libro, poi servendosi del tè:
"Dushka", disse, "ti ricordi della Valle delle Rose, delle rive di Lahn, del castello delle Quattro Torri?...Questa storia te li ha fatti ricordare, vero?" 
Si alzò, e, nello specchio bluastro, si vide più pallido del solito. Prese un braccialetto di perle in una coppa e guardò le perle attentamente. Vera non se le era tolte dal braccio, or ora, prima di svestirsi? Le perle erano ancora tiepide e il loro oriente più addolcito, come dal calore della sua carne. E l'opale di quella collana siberiana, che amava il bel seno di Vera fino a impallidire, morbosamente, nel suo graticcio d'oro, quando la giovane lo dimenticava per un po' di tempo! Una volta la contessa amava per questo quel gioiello fedele! Quella sera l'opale brillava come se fosse appena stato abbandonato e come se il magnetismo squisito della bella morte lo penetrasse ancora. Mentre posava la collana e la pietra preziosa, il conte toccò per caso il fazzoletto di batista le cui gocce di sangue erano umide e rosse come garofani sulla neve!... Là, sul pianoforte, chi dunque aveva voltato la pagina finale della melodia di una volta? Come! la lampada sacra si era riaccesa nel reliquiario! Sì, la sua fiamma dorata illuminava misticamente il volto, dagli occhi chiusi, della Madonna! E quei fiori orientali, colti di fresco, che sbocciavano là, nei vecchi vasi di Sassonia, quale mano ve li aveva posti? La camera sembrava gioiosa e ricca di vita, in modo più significativo e intenso del solito. Ma nulla poteva sorprendere il conte! Ciò gli sembrava talmente normale, che non prestò nemmeno attenzione al fatto che quella pendola ferma da un anno, batteva l'ora. Quella sera, tuttavia, si sarebbe detto che dal fondo delle tenebre la contessa Vera si sforzasse adorabilmente di ritornare in quella camera tutta profumata di lei! Vi aveva lasciato tanto della sua persona! Tutto ciò che aveva costituito la sua esistenza ve l'attirava. Il suo fascino vi aleggiava; le lunghe violenze compiute dalla volontà appassionata del suo sposo dovevano avervi disciolto i vaghi legami dell'Invisibile intorno a lei!...
Ella vi era resa necessaria. Tutto ciò che amava, era lì.
Ella doveva aver voglia di venire a sorridersi ancora in quello specchio misterioso in cui aveva tante volte ammirato il suo viso di giglio!
La dolce morta, laggiù, aveva trasalito, certo, nelle sue violette, sotto le lampade spente; la divina morta aveva fremuto, nella cripta, tutta sola, guardando la chiave d'argento gettata sul lastricato. Voleva anch'essa venire verso di lui! E la sua volontà si perdeva nell'idea dell'incenso e dell'isolamento. La Morte non è una circostanza definitiva che per coloro che sperano nei Cieli, ma la Morte, e i Cieli, e la Vita, per lei, non erano il loro amplesso? E il bacio solitario del suo sposo attirava le sue labbra, nell'ombra. E il suono passato delle melodie, le parole ebbre di un tempo, le stoffe che coprivano il suo corpo e ne conservavano il profumo, questi magici gioielli che la volevano, nella loro oscura simpatia - e soprattutto l'immensa e assoluta impressione della sua presenza, opinione condivisa alla fine delle cose stesse, tutto la chiamava là, l'attirava là da tanto tempo, e così insensibilmente, che guarita infine dalla dormiente Morte, mancava ormai Lei sola!
Ah! le Idee sono esseri viventi!... Il conte aveva scavato nell'aria la forma del suo amore, e bisognava pure che questo vuoto fosso colmato dal solo essere che gli era omogeneo, o altrimenti l'Universo sarebbe crollato. L'impressione passò, in quel momento, definitiva, semplice, assoluta, che Ella doveva esserci, nella camera! Egli ne era altrettanto tranquillamente certo come della propria esistenza, e tutte le cose, intorno a lui, erano sature di questa convinzione. La si vedeva! E, poiché mancava ormai solo Vera stessa, tangibile, esteriore, bisognava pure che ella si trovasse e che il grande Sogno della Vita e della Morte socchiudesse per un momento le sue porte infinite! Il cammino di risurrezione era inviato dalla fede fino a lei!
Una fresca risata musicale rischiarò con la sua gioia il letto nuziale; il conte si voltò. Ed ecco, davanti ai suoi occhi, fatta di volontà e di ricordo, appoggiandosi coi gomiti, fluida, sul guanciale di pizzo, reggendo i pesanti capelli neri con la mano, la bocca deliziosamente schiusa in un sorriso che esprimeva un paradiso di voluttà, bella da morire,  la contessa Vera lo guardava, ancora un po' addormentata. "Roger"...", disse con una voce lontana.
Egli si avvicinò a lei. Le loro labbra si unirono in una gioia divina, dimentica, immortale!
E si accorsero, allora, che essi erano, in realtà, un solo essere.
Le ore sfiorarono d'un volo estraneo quell'estasi in cui si mescolavano, per la prima volta, la terra e il cielo.
D'un tratto, il conte d'Athol trasalì, come colpito da una reminiscenza fatale.
"Ah, ora ricordo!...", disse. "Che ho dunque? Ma tu sei morta!"
Nello stesso istante, a quella parola, la mistica lampada dell'iconostasi si spense. L'aurora pallida del mattino - d'un mattino banale, grigiastro e piovoso - filtrò nella camera attraverso gli interstizi delle tende. Le candele vacillarono e si spensero, lasciando fumare acremente i loro stoppini rossi; il fuoco disparve sotto uno strato di ceneri tiepide; i fiori sbiadirono e seccarono in pochi minuti; il bilanciere della pendola riprese gradualmente la sua immobilità. La certezza di tutti gli oggetti sparì improvvisamente. L'opale, morto, non brillava più: le macchie di sangue erano sbiadite pure loro, sulla batista, accanto ad esso; e disparendo fra le braccia disperate che volevano invano stringerla ancora, l'ardente e bianca visione rientrò nell'aria e vi si perdette. Un debole sorriso d'addio, distinto, lontano, giunse fino all'anima di Roger. Il conte si sollevò; si era appena accorto di essere solo. Il suo sogno si era dissolto di colpo: egli aveva spezzato il magnetico filo della sua trama radiosa con una sola parola. L'atmosfera era, ora, quella dei defunti.
Come quelle lacrime di vetro, aggregate illogicamente, e tuttavia così solide che un colpo di mazza sulla loro parte spessa non le romperebbe, ma che cadono in una subitanea e impalpabile polvere se se ne rompe l'estremità più fine della punta d'un ago, tutto era sparito.
"Oh!", mormorò, "è dunque finito! Perduta!.... Tutta sola! Qual è la starda, ora, per giungere fino a te? Indicami il cammino che può condurmi verso di te!..."
All'improvviso, come una risposta, un oggetto brillante cadde nel letto nuziale, sulla pelliccia nera, con un suono metallico; un raggio dell'orrendo giorno terrestre lo illuminò!... L'abbandonato si chinò, lo afferrò, e un sorriso sublime illuminò il suo viso quando riconobbe quell'oggetto: era la chiave della tomba.