Introduzione ai Poeti Crepuscolari

Nota di Lunaria: nei prossimi mesi farò uscire un approfondimento su Sergio Corazzini, il mio preferito.


Qui riporto solo alcuni estratti di Corazzini, Palazzeschi e Govoni , e altri poeti del Novecento, che avevo fatto uscire diversi anni fa in singoli pdf

Info tratte da


La poesia del Novecento è influenzata sul piano espressivo dalle innovazioni introdotte dal Decadentismo, sul piano tematico dagli eventi che sconvolsero l'Europa nella prima metà del secolo, in particolare dalle Guerre Mondiali, i cui echi si avvertono nelle opere degli scrittori più significativi del Novecento, da Ungaretti a Montale a Quasimodo.

La produzione poetica di questi anni si articola in varie correnti letterarie che, pur nella loro diversità, presentano alcuni tratti comuni:

1) Il poeta non si atteggia più a vate, ma dichiara esplicitamente la propria inutilità e marginalità e si identifica con "un fanciullo che piange" (Corazzini), o con "un saltimbanco" (Palazzeschi) o un "uomo di pena" (Ungaretti). Egli non ha messaggi rassicuranti da inviare al lettore e può solo mettere a nudo, spesso con toni irridenti e provocatori o con espressioni amare e dolenti (Montale) la negatività dell'esistenza.

2) Le poesie sono solitamente brevi e scritte con linguaggio aspro ed essenziale, segno della profonda sofferenza esistenziale del poeta e della fatica con cui egli scava ogni parola nel profondo del suo animo.

3) è evidente in questi atteggiamenti il rifiuto di D'Annunzio e dell'immagine sontuosa e aristocratica del poeta e della poesia che egli aveva imposto con i suoi versi e stile di vita.

Le tendenze poetiche-artistiche e i personaggi più significativi del Novecento, in Italia, sono:

- Crepuscolarismo
- Futurismo
- Ungaretti e Montale
- l'esperienza isolata e controcorrente di Saba
- Ermetismo

***

Con il termine "poeti crepuscolari" si indica un gruppo di scrittori che operano in Italia nel primo decennio del Novecento, e sono accomunati dal gusto per una poesia dai toni grigi, dimessi, quotidiani, malinconici. La loro produzione letteraria faceva pensare alla luce incerta del crepuscolo, dove lo splendore della grande stagione poetica dannunziana e pascoliana, invece, poteva essere paragonata alla luce accecante del meriggio.

Il movimento ebbe precisi limiti cronologici, gli anni tra il 1903 e il 1911 e un ben definita collocazione spaziale: si sviluppò a Roma, Torino, Ferrara.
A Roma vissero Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, a Torino Guido Gozzano, Carlo Chiaves, Nino Oxilia.
Si accostarono al Crepuscolarismo anche Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni http://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/corrado-govoni.html
e Marino Moretti.
Vissuti in un'epoca in cui era ancora imperante il modello dannunziano sia negli atteggiamenti di vita sia nelle scelte culturali, i poeti crepuscolari si distaccano nettamente dai toni trionfali e vitalistici, prediligono semmai la poesia pascoliana delle piccole cose e si agganciano a modelli come Paul Verlaine, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Francis Jammes, Jules Laforgue, scrittori intimisti e malinconici.

Questi poeti non si sentivano integrati nella realtà; avvertivano il vuoto e la falsità degli ideali ottocenteschi (Patria, Dio, Umanità, parole che Gozzano definirà "nauseose"), non sanno adattarsi alle leggi della società borghese, gretta, meschina, nei confronti dei quali assumono un atteggiamento oscillante tra rifiuto e rassegnata ironica accettazione.

Muta anche la funzione attribuita alla poesia: i crepuscolari non credono più al "poeta vate", dai versi alla maniera carducciana e dannunziana. Sanno che questo ruolo si è esaurito e che nella moderna società di massa la poesia non ha più niente da dire, si vergognano quasi di essere poeti e assumono atteggiamenti dimessi e autoironici. Corazzini dichiara di non essere un poeta, ma "un piccolo fanciullo che piange"; Moretti intitola una sua poesia "Poesie scritte col lapis", Palazzeschi provocatoriamente intitola "E lasciatemi divertire!"; Gozzano ringrazia Gesù di non averlo fatto "gabrieldannunziano" e si definisce "un coso con due gambe\detto guidogozzano"

Le tematiche predilette da questi poeti sono i piccoli eventi della vita provinciale e monotona, quieti e noiosi pomeriggi domenicali, giardini abbandonati abitati da statue consumate dal tempo, corsie d'ospedale, organetti di Barberìa, suorine pallide e silenziose, interni di case borghesi. Sul versante stilistico il lessico è umile, la sintassi lineare, i versi lunghi e zoppicanti, le rime imperfette e spesso facili.
Le donne che compaiono in questi componimenti non hanno nulla di fatale o misterioso, hanno nomi rassicuranti ed una bellezza semplice e campagnola.
Una sensazione di malinconia, di stanchezza, una lieve ombra di morte attraversa questo mondo umile e dimesso, in sintonia con l'esistenza stessa degli autori, alcuni dei quali morirono giovani (Corazzini, Gozzano) consunti dalla malattia del secolo: la tisi.

Pur restando apparentemente ai margini del panorama letterario italiano, i poeti crepuscolari hanno esercitato una notevole influenza sulla poesia del Novecento che ne ha ereditato atteggiamenti, tematiche e tecniche espressive. Anche la definizione stessa di crepuscolari è duplice e ambigua: come il crepuscolo indica quel momento di passaggio tra la luce e il buio che si verifica sia al tramonto sia all'alba, così la poesia crepuscolare segna per un verso la conclusione della grande stagione poetica di fine Ottocento, per l'altro l'inizio della poesia moderna.

 I versi più belli


tratte da questa serie di antologie



GIOVANNI GIUDICI

"La Bovary c'est moi"

Vorrei poterti abolire
abolendo me stessa
come abolendo te stesso
tu mi potresti
abolire per fare a tutti
dire:
"di cosa mai parla questa pazza senza pudore,
senza il coraggio di morire per amore"


GIANPIETRO LUCINI (Crepuscolare)

"Cristalli di luce ed ombra"

Un mio pensiero Ophelia triste e stanca,
naviga alla deriva di un torrente,
la terra resupina, molle e bianca,
dorme sull'acque sussurranti e lente?
S'attarda il corso, s'attenua manca ed estua
in una gora putrescente.
A che pensiero morbido si stanca a languire
sul volto pigramente?
Muoija il pensiero!
Ophelia è morta e sta sopra il letto dell'acqua immemoriale.
Tonda la Luna, topazio ed opale solecchia sullo stagno.
Il teschio ride; (*)
ghigno convulso di luce s'include.
Brividi lunghi e fredde ambiguità. 


(*) è il teschio celebre dell'"Amleto"



RICCARDO BACCHELLI (Rondista)

"Epitaffio"

Che cosa c'è,
che cos'è Lei
la Morte lo sa
ma lo racconta solo ai morti.


ATTILIO BERTOLUCCI (Ermetismo)

"Inverno"

Inverno, gracili sogni sfioriscono sugli origlieri,
giardini lontani fra nebbie nella pianura,
che sfuma in mezzo alle luci dell'alba.
Voci come un ricordo d'infanzia,
prigioniere del gelo: s'allontanano verso la campagna.
Ninfee dagli occhi dolci e chiari
fra gli alberi spogli, sotto il cielo grigio,
cacciatori che attraversano un ruscello,
mentre uno stormo d'uccelli s'alza in volo.


GUIDO GOZZANO

da "L'analfabeta"

[...] Anche dice talvolta, se mi mostro
taciturno: "Tu hai l'anima ingombra.
Tutto è fittizio in noi: e Luce e Ombra:
giova molto foggiarci in modo nostro!

E se l'ombra s'indugia e tu rimuovine
la tristezza. Il dolore non esiste 
per chi s'innalza verso l'ora triste
con la forza di un cuore sempre giovine.

da "L'amica di nonna Speranza"

[...] Non vuole morire, non langue il giorno. S'accende
più ancora
di porpora: come un'aurora stigmatizzata di sangue.

si spenge, infine, ma lento. I monti s'abbrunano in coro: 
il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.

da "Invernale"

[...] Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti...

da "Della Testa di Morto - Acherontia Atropos - "

Nelle sere illuni
fredde stellate di settembre
quando il crepuscolo già cede alla notte...

da "La signorina Felicita ovvero la felicità"

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.


"Cocotte"

IV

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono 
state... 
(...) Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacerò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.


ALESSANDRO PARRONCHI (Ermetismo)

"Tacciono i corvi"

Il tempo s'è rinchiuso
non è da sperare che prima di sera l'orizzonte rischiari.
Ma è finito il comizio, più nessuno contesta all'erba
di crescere sui greti e dare all'anno il suo nuovo colore,
in silenzio le strade risalgono al borgo che vela il capo nella nebbia.
Tacciono i corvi mentre in cuore si sveglia
in un rimescolio dolce la voluttà.


GIOVANNI TESTORI

"Tutto puoi dire di me"

T'ho amato con pietà
con furia ti ho adorato,
t'ho violato, sconciato,
bestemmiato.
Tutto puoi dire di me
tranne che t'ho evitato.


ALDO PALAZZESCHI

"Riflessi"

Rasentano piano gli specchi invisibili
avvolti di nebbia, non lasciano traccia
nell'ombra, gli specchi non hanno riflessi,
non cade su loro dell'ombra una macchia
neppure la macchia dell'oro.
Un raggio vien fuori dal centro
di luce giallastra.
Sul raggio rimangono lievi, impalpabili,
impronte sfumate di luce, di nebbie: riflessi.


ANGELO BARILE: "Il peccato"

Non l'udivamo respirare calmo a noi,
dapresso bocche giunte, il sangue in avvio per meandri
al dolce abisso, non ne udivamo frangere la voce.
Ci toccò ch'eravamo melodia svenata
grido, che cade trafitto, e le complici bocche
erano estuanti all'amarezza,
tornavano labbra, tra poco dissonavano.
Allo foce stagnò l'istante,
il silenzio sciacquò in quello il mare,
inazzurrò la stanza,
battè alla sponda del nostro origliere:
a noi notturni, maculati
infanzia novità della terra che respira,
a noi nemico paradiso.
L'anima con i gigli grevi si destò
dei padri sulle rive fuggite, e le sentimmo ritremare.
Cadevamo, due pietre,
per quella prima purità a foreste e nascondigli d'alghe.
Sorelle, al nostro oscuro tremito,
sommerse chiome smarrite sul tuo volto d'Eva.


ELIO FILIPPO ACCROCCA

"A due voci"

Che altro vuoi da me Disperazione?
Hai colpito nel segno, Crudeltà.
Hai colmato il bicchiere, Solitudine.
Mi stai nutrendo, Ira.
Sono tuo pasto, Follia.
Mi avvolgi nel tuo manto, Bestemmia.
Integralmente mi percorri, Orrore.
Abiterò in te, Vuoto.
Mi hai piegato, Nulla...
Sei finalmente appagata, Negazione?
Sarò sempre tuo ospite, Tenebra?
Mai più risalirò da questo Abisso?

... Padre nostro non so dove tu sia:
ti chiedo solo un grammo di speranza.


ARTURO ONOFRI (Ermetismo)

"Vincere il drago"

Ma qui ti mando il grido del mio sangue
ch'agita la foresta della veglia.
Oh mio rosso cavallo...
O conscia anima angelica,
O racchiusa crisalide
il tuo guscio era un morire
della tua luce entro la notte oscura
d'un antico tuo male inconosciuto.
Or che tu stessa infrangi
la parete del tuo passato,
irromperà la morte in quel tuo chiuso
e sveglierà dal cupo del sonno antico
un angelo primevo che aprirà le sue grandi ali di fuoco,
rari all'amore che ti volle vita.


GIORGIO VIGOLO (Ermetismo)

"Circe"

E chissà che questa non sia la morte,
pallide strade perdonsi nell'erba stridula
al vento della sera fredda:
alberi non vedo, né casolari.
Ma solo il circo dei monti deserti
che orla ancora un tramonto solo.
A mano a mano che inoltro mi spoglio d'umanità
nel desolato vespero.
I prati, il cielo, mi vuotano l'anima
e mi sento lentamente
svenire dalla solitudine che m'assorbe.
Non resisti alla gran forza dei monti che ti si bevono
come una pioggia e i ricordi scendono sotto terra,
che nome avevi adesso non sai più.
Tremendi i colori della campagna
quando consumano i tuoi sensi umani
e a poco a poco ti mutano in terra.
Quando ti fanno diventare prato,
distesa d'acque,
orrore di pietraia.
E non ti puoi più alzare in piedi e chi amare.
Solitudine, hai vinto.


"I fantasmi di pietra: corale"

La musa della morte mi s'inghirlanda di rose di fuoco
e offre il ramo d'oro al re dell'ombre perchè mi lasci
passare di là. Sento che la mia musica
è alla fine, ma ogni lutto l'anima si sgombra
e il canto spiega tutto
stese l'ali a un sole che illumina dal fondo.


ADRIANO GRANDE

"Coro sul lete"

Ora sappiamo il nulla di ogni cosa:
ma per vivere ancora accetteremmo
d'esser la pietra su cui l'acqua scorre,
il fango ove l'insetto si riposa,
l'erba sulle rovine di una torre.

"Ghironda"

Nella notte la fratta e la giuncaia
han voci di ghironda, acute strida meccaniche,
confuse a lagni umani.
Escono come da un antro teatrale dalla valletta concava
che accoglie la tramontana
e ne imprigiona il gelo.
La superficie dello stagno è immota,
non ha più sguardo. è come la pupilla d'un cadavere,
e in tanto alberi ed erbe vibrano sino alle radici,
sino alle fibrille. Viene di lontano,
dalle alte nevi. I colli e le pianure,
le regole, le strade nere e grigie,
e i sentieri ancor verdi,
tutto fustiga, tutto l'inverno castiga.
Giudizio, immute e senza scampo,
punizione della natura spensierata.
è simile, ohimé, questo rovaio alla vecchiezza dell'uomo.
Allora che tepor cercando ai ricordi si volge: e in essi
incontra la giuncaia e gli sterpi dell'errore,
la voce di ghironda dei rimorsi.


ADOLFO DE BOSIS

"I Notturni"

Il tramonto disfiora sue magiche
ghirlande lento; e una dolce spande
malinconia per l'ora.
Nuotano i sogni ancora a elisie lande...?
Ma l'anima il pure grande tuo bacio
O Notte, implora.
Ben tu venga, O Possente Notte!
L'augusta calma piovi a le cose ed elle
bevan l'oblio fluente dal sen tuo vasto.
E l'alma vigil, con le stelle
Quali rive quiete la nostra anima corse placida?
O questa è forse la pigra acqua d'un lete?
Quali or dunque segrete virtù piovver da l'orse fatali?
O chi mai forse l'onda a l'oscura sete?
Notte, ahimé, che improvviso brivido,
fuor da l'urna gelida, effondi! E in lente spire
l'antico riso tenue, 
o taciturna, dai lacrimosamente.
   

GIROLAMO COMI

"La morte"

Notte velata d'aliti d'eterno:
il tempo è un sogno fermo sullo spazio che si dilata
e freme custode della crescita di un seme che sa di terra e di umanità...
Il tempo - intendo - pare intatto e fermo - zaffiro acceso nell'oscurità della notte che regna illimitatamente sulla zolla pregna di morti ansiosi d'immortalità.

"Nella memoria: oh bei paesaggi uniti"

Nella memoria: oh bei paesaggi uniti
dalle diverse età
dell'anima le aurore fra caligini argentee ed auree di fiore
hanno l'alito di giardini mitici.
....
Canti inespressi: ma di essi il tremore
(illimitato fra più pause e resse d'inviti forti d'arcane promesse) è segno e pegno di sfere d'amore.
Oh tempo che bruciando ti trasformi senza limite di stagioni e giorni di luce universale di costanti armonie accese,
di sorgivi incanti, di te nutriti e nel tuo giro immessi
ricuperiamo spiriti e sembianti della nativa effigie di noi stessi.


EUGENIO MONTALE

"Non recidere, forbice, quel volto"

Non recidere, forbice,
quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso
in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala...
Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé
scrolla il guscio di cicala
nella prima belletta
di Novembre.

"Forse un mattino andando in un'aria di vetro"

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di getto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


CAMILLO SBARBARO

Una mortale pesantezza
il cuore m'opprime
inerte vorrei esser fatto.
Come qualche antichissima
rovina e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutare i passi, i cieli,
all'alba colorirsi, scolorirsi
a sera....


Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata


Forse. Ma il gesto che ti incise dentro
io non ricordo, e stillano in me dolce
parole che non sai di aver detto


ARDENGO SOFFICI

"Rallumina il viso disfatto dalle antiche stagioni..."

Navigo nell'assoluto mia patria e vorrei dimenticare il corpo che sempre è con noi. La forma della libellula matematica che è il mio destino.


ANTONIA POZZI

"Lieve offerta"

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s'accendono al
sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia.
Vorrei condurti con le mie parole
per un deserto viale, segnato
d'esili ombre -
fino a una valle d'erboso silenzio,
al lago ove
tinnisce per un fiato d'aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l'acqua non profonda.
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un
ponte,
sottile e saldo,
bianco sulle
oscure voragini
della terra.


MARIO NOVARO

"Quante volte ancora"

Questi pini,
questi cipressi,
e le rose, come sangue
rosse, quante volte ancora
quando io più non sia,
stupita guarderà la Luna,
mute cennando
guarderan le stelle,
sul colle che solo restava
con me nel silenzio notturno a meditare!


MARINO MORETTI

"La Domenica di Bruggia"

è, sì, in questo crepuscolare giorno
che l'anima prova
il bisogno di una nuova
solitudine e d'andare...


Non ode. Volta. Pallide inquiete mani.
La testa fra le due candele.
Anima dammi un poco del tuo fiele
un poco del tuo male, anima: ho sete.


UMBERTO SABA

"Prima Fuga"

Nero come là dentro è nel mio cuore;
il cuore dell'uomo è un antro di castigo.


Su CORAZZINI vedi: http://poesiamondiale.blogspot.com/2015/08/sergio-corazzini.html


GIOVANNI PRATI: Nato a Campomaggiore, presso Dasindo, Trentino, nel 1814 e morto a Roma nel 1884. Perseguitato dall'Austria per le sue idee liberali, si rifugiò in Piemonte, sotto la protezione di Casa Savoia, della quale cantò, in versi piuttosto retorici, le glorie insieme a quelle della Patria. è il rappresentante più noto del Secondo Romanticismo.
Piacque molto ai contemporanei, per la facile musicalità delle sue rime; alla fine della sua vita, però, si vide oscurato dalla fama del Carducci.

"E continuo..."

In questo sonetto, della raccolta "Psiche", ritroviamo ancora un paesaggio notturno così caro ai poeti romantici. Il silenzio si diffonde nella selva e un lieve bisbiglio, simile a tenue lamento di anime del Purgatorio, viene dalle foglie. Al poeta sembra che sia la voce del tempo infinito che viene a lui insieme a quella dei suoi cari scomparsi e l'anima sua si placa, sebbene per poco, in quel mondo misterioso che lo distoglie dalla realtà triste del presente.

Quando la sera, senz'ala di vento,
per la tacita selva si diffonde
lieve un bisbiglio, e par sott'ogni fronde
esser ascosa un'anima in lamento (1) 
i' me ne vo solingo e a passo lento
per quel rumor che viene i' non so d'onde,
e ciò ch'ei mi palesa o mi nasconde
somiglia a ciò che di più arcano io sento. (2) 
L'ombra, il tempo infinito e i suoi misteri,
con l'amore e il dolor di ciò che sparve,(3) 
odo tutto nel suon di quelle foglie.
E continuo a formar passi e pensieri:
e questo mondo, (4) foss'ei pur di larve,
per poco all'altro, ch'è peggior, mi toglie. (5) 

1) Un'anima del Purgatorio che mandi tenui lamenti 
2) Ai sentimenti vaghi e misteriosi che si agitano nell'anima mia.
3) Dei morti a me cari
4) Infinito e pieno di mistero, anche se formato di fantasmi vani 
5) Mi fa dimenticare, sebbene per poco, la realtà dolorosa nella quale vivo.


"Silenzio"

è uno dei sonetti più sereni del Prati; è notte alta: un vasto silenzio si diffonde nel cielo illuminato dalla luna sorgente, sul mare sconfinato e calmo, sui monti immersi nel buio, sul camposanto dove i morti dormono il loro sonno lungo, in attesa del giorno del giudizio. Il poeta accoglie assorto le parole misteriose che esso mormora alla sua anima pensosa.

Il silenzio del ciel, quando v'ascende
il notturno e solingo astro d'argento;
il silenzio del mar, quando si stende
sconfinato, senz'onda e senza vento;
il silenzio del'alpi, ove né armento
bela, né foco di pastor s'accende;
e il silenzio del verde, (1) ove ogni spento (2) 
trae la gran notte, e il suo mattino attende:
un'infinita novità di cose (3) 
va mormorando nell'amara valle
questo silenzio all'anime pensose.
E in compagnia di questo, (4) andar sovente
piacemi per lo mio romito calle, (5) 
mentre aggrada far altro a l'altra gente.

1) Del camposanto, cioè coperto sempre di verde.
2) Dove tutti i morti [ogni spento] dormono il sonno della morte [la gran notte], aspettando la risurrezione [il suo mattino]
3) Il soggetto è "questo silenzio": questo silenzio suggerisce in questa nostra terra, amara valle di lacrime, tanti sentimenti nuovi alle anime pensose.
4) è sottointeso "silenzio"
5) Per il mio solitario cammino     

Shakespeare (10): il simbolismo esoterico del "Macbeth"

Il Simbolismo Esoterico del Macbeth, nelle figure delle Tre Streghe e di Lady Macbeth

Tratto da


Il Macbeth si suppone scritto tra il 1603 e 1606, e fu rappresentato alla corte di Giacomo I nel 1606. (vedi https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/08/shakespeare-9-giacomo-i-la-stregoneria.html) Il materiale leggendario su cui è fondata la trama si ritrova in diverse varianti nei cronisti scozzesi. Fonti del dramma sono due sezioni delle "Cronache" (1587) e forse anche passi della "Rerum Scoticarum Historia" di George Buchanan; i due songs accennati nell'In-Folio e poi stampati nell'In-Quarto del 1673 appaiono in un dramma di Thomas Middleton "La Strega" ("The Witch", scritto tra il 1609 e 1616)
Coleridge capì per primo l'importante funzione di questo rapido prologo, di cui disse che "fa risuonare la nota dominante di tutto il dramma"; le streghe, associate al Maligno e all'orripilante, ritengono che l'orrido sia bello e il bello (anche morale) lo respingono come schifoso.

Luogo aperto. Tuoni e lampi. Entrano tre streghe.
Prima Strega: Quando noi tre ci rivedremo ancora? Con tuono, lampo o pioggia? Quando, allora? [...] E il luogo?
Seconda Strega: Alla brughiera.
Terza Strega: Laggiù dobbiamo andare, Macbeth ad incontrare.
Tutte e tre: "Per noi il bello è brutto, il brutto è bello" fra la nebbia planiamo e l'aer fello.

La scena appare oggi essenziale alla tragedia, di cui annuncia il nucleo ossimorico, il tema oracolare, il doppio tempo umano e numinoso.
Occorre precisare che nel testo le tre streghe non sono delle proiezioni di Macbeth; sono esseri oggettivi, e difatti Banquo le vede così come Orazio vede il fantasma nell'Amleto. Shakespeare le rappresenta con la tipologia del folklore, proprio come quelle streghe nordiche che nella fonte incontrano a Forres i due condottieri dell'esercito di Duncan. E già Holinshed riportava "l'opinione comune che queste donne erano o le Sorelle Destinatrici (Weird Sisters) cioè si potrebbe dire le Dee del Destino", oppure delle ninfe o delle fate, dotate di saggezza profetica grazie alla loro scienza necromantica, perché ogni cosa si attuava così come esse avevano detto".
W. Farnham ricorda che "hag" e "witch" potevano indicare sia la persona che ha fatto un patto col Demonio sia anche un demone; piuttosto che semplici streghe, le Sorelle Fatali, legate ad Ecate [a sua volta Triplice. Nota di Lunaria], appaiono come emissarie del destino.
Esse si limitano a comunicare a Macbeth le proprie profezie, senza mai invitarlo a realizzarle e senza mai dare istruzioni.

Il loro numero rimanda alla Trinità delle Moire o Parche (e in effetti Gavin Douglas, traducendo nel 1553 il terzo libro dell'Eneide rende con "Weird Sisters" le Parcae virgiliane).
Kittredge nella sua edizione di Shakespeare commenta che esse sono delle Norne, cioè "grandi potenze del Destino, grandi minestre del Fato: hanno determinato il passato, governano il presente, non solo predicono ma stabiliscono il futuro."
Hegel nella "Fenomenologia dello Spirito" accosta all'oracolo greco le ambigue Sorelle del Destino, che spingono al delitto con le loro ermetiche previsioni: ciò che dicono le potenze oracolari non è il modo in cui appare la verità (cioè la pienezza della sostanza) ma un segno ammonitore dell'inganno, dell'irriflessione, della singolarità e accidentalità del sapere umano, della limitatezza della coscienza.

Il numero 3 evocato all'inizio si dissemina magicamente nella storia: tre profezie, tre apparizioni, tre assassinii...

Infine, una nota sul termine "The Weird Sisters": il termine "weird" è quello dell'antico inglese "wyrd" e del medio inglese "werd" che significano "destino". Holinshed le chiama appunto "Le Tre Dee del Destino" ("The Goddess of Destiny")


Nota di Lunaria: il concetto di Trinità è presente pure in altre religioni. Basta vedere l'Induismo, che ha ben due Trinità!, una tutta maschile e l'altra tutta femminile!



Anche l'idea di "Tre Donne tutte assieme" è presente nella tradizione cristiana: le  "Tre Marie" (anche se in realtà il testo biblico è abbastanza ambiguo e non si capisce se intenda 3 o 4 donne, così come per "le donne al sepolcro"...) 


 le "tre donne al sepolcro"...


Peraltro, c'è pure questa curiosa trinità in odore di eresia: non si sa se sia Maria o lo Spirito Santo con fattezze femminili...



UN ALTRO COMMENTO ALLE STREGHE

Innumerevoli sono, nell'opera di Shakespeare, i personaggi  soprannaturali o aventi rapporto con le potenze soprannaturali:  maghi come Prospero, fate come Mab o Titania, spiriti folletti come Ariele, fantasmi come il padre di Amleto appaiono dotati di non minore plausibilità e verità poetica di quanta ne abbiano i personaggi reali, usciti dalla vita quotidiana. Ma fra tutti questi esseri misteriosi, nessuno ha presa sulla fantasia dei lettori quanto le tre "favellatrici oscure", le streghe che incontrano Macbeth in una remota landa della Scozia, battuta da venti tempestosi, e gli predicono la sua futura grandezza, e più tardi la rovina. è stato detto con insistenza che la tragedia del "Macbeth" fu scritta in onore di Giacomo I di Stuart, e che i personaggi delle streghe furono introdotti in omaggio all'interesse di studioso che il sovrano manifestava nei confronti della magia nera: era autore di un trattato di demonologia. In realtà, non soltanto Giacomo I, ma tutto il pubblico credeva nell'esistenza delle streghe. Le cantilene che esse intonano e persino il loro aspetto fisico ("figure tutte grinzose, selvagge nel vestire... il dito rugoso sulle smunte labbra") sembra siano state prese da un libro che circolava in Inghilterra sul fenomeno della stregoneria. Quanto alla minaccia che la prima proferisce, di recarsi ad Aleppo  "navigando in uno staccio", per punire il marinaio la cui moglie l'ha trattata con disprezzo, sembra che lo staccio, permeabile all'acqua da tutti i buchi, fosse il mezzo favorito di navigazione per le streghe. Giacomo I credeva fermamente che non meno di 200 streghe imbarcate su altrettanti stacci, avessero tentato con ogni mezzo di ostacolare il viaggio di sua moglie, Anna di Danimarca,  verso le coste britanniche. Se Shakespeare condividesse queste idee non si sa; ma è certo che le sue streghe hanno una singolare forza di suggestione. Alle tre "fatali sorelle" è assegnata una parte di  capitale importanza: senza le loro profezie non si scatenerebbe la selvaggia ambizione di Macbeth; ed è ancora il loro vaticinio che gli svela l'avvicinarsi della fine. Nel corso dei secoli esse sono state interpretate nelle più varie maniere: un tempo secondo la tradizione veristica, come tre vecchie cenciose e sinistre; più  tardi come voci senza volto e senza corpo; oppure trasformate in  streghe nere, esperte di riti voodoo.Il "Macbird" di Barbara Garson, satira contro il presidente Johnson  e la famiglia Kennedy, ha mutato sesso alle streghe, facendone tre agitatori politici: ogni epoca ha sempre le sue streghe e i suoi stregoni.


E ORA.. LADY MACBETH!

La scena dell'incontro tra Macbeth e la sua donna catalizza il passaggio dall'incertezza dell'eroe alla sua ferma accettazione del proprio destino. Nell'ombra di Lady Macbeth sono state viste le bibliche Eva e Lilith ma i modelli diretti della "donna di ferro" mascolina e spietata sono certamente nella tragedia greca, da Clitemnestra a Medea (*) e all'Elettra di Euripide.
C'è da notare che Lady Macbeth nel proclamare la propria giustizia (Dike) e nel farsi strumento di quel destino che lei chiama "aiuto metafisico" ci dà un'immagine di Macbeth che mal si concilia con quella già formatasi: qui il feroce capo-clan "rivela" una natura intima che sarebbe priva di malizia, legalista e timida pur nella sua ambizione: una natura che non sospettavamo di certo.
Infine, potremmo fare notare che prima e dopo che Macbeth e Lady Macbeth commettano gli omicidi, per la notte risuonano strida inquietanti di animali: il corvo, la civetta, i grilli.

"Anche il corvo, con la sua voce rauca,
gracchia il fatale ingresso di Duncano
sotto i miei spalti... O spiriti
che v'associate ai pensieri di morte,
venite, snaturate in me il mio sesso,
e colmatemi fino a traboccare,
dalla più disumana crudeltà.
Fatemi denso il sangue;
sbarratemi ogni accesso alla pietà
[...] Vieni, o notte profonda, e fatti un manto
del più tetro vapore dell'inferno,
così che l'affilato mio coltello
non veda la ferita che produce,
e non si sporga il cielo
dalla coltre della notturna tenebra
a gridare al mio braccio Ferma! Ferma!
[...] (S'ode il verso di una civetta)
Quella era la civetta,
la campanara sinistra il cui strido
porge la più crudele buona notte.
[...] Macbeth: Fatto! Hai udito dei rumori?
Lady Macbeth: Una civetta ed il cantar dei grilli.

Il fatto che Lady Macbeth noti il corvo (e la civetta) e poi citi il sangue, lascerebbe intendere un'ipotesi suggestiva: Shakespeare potrebbe essersi ispirato a Morrigan, la Dea irlandese della battaglia e del sangue, legata ai corvi, per il personaggio di Lady Macbeth?
Avevamo già visto che per le Tre Streghe, Shakespeare si era ispirato alle Parche e alle Norne: forse anche Lady Macbeth allude a Morrigan. Si ricordi che era una Dea Triplice. La civetta, comunque, era associata non solo a Lilith, ma anche ad Atena (e quindi, la Sapienza); oggigiorno la troviamo ancora associata a Lakshmi, come simbolo di bellezza e fortuna.

Lilith, inoltre, è proprio una Dea civetta.


Ma c'è di più: se Morrigan è solo "suggerita", Ecate è nominata espressamente e compare Ella stessa nella tragedia, prima citata da Macbeth, poi in persona nell'atto terzo:

"Vedo del sangue che prima non c'era...
Ma no, che una tal cosa non esiste!
è solo la mia impresa sanguinaria
che prende una tal forma agli occhi miei.
A quest'ora, su una metà del mondo
la natura par quasi che sia morta,
ed empi sogni vanno ad ingannare
il sonno chiuso dietro le cortine.
Le streghe celebran le loro ridde
ad Ecate la pallida..."
  
Avevamo già visto che le Tre Streghe "preannunciavano" proprio la Triplice Ecate

"Le streghe celebran le loro ridde\ad Ecate la pallida; svegliato\dall'allarme della sua sentinella\l'ululato del lupo\l'assassinio s'avvia furtivamente alla sua impresa\come un fantasma a passo lungo e lieve"

e agli oracoli e alle profezie delle streghe. (vedi l'atto quarto o la scena quinta dell'atto terzo): 

"Ecate: non ne ho forse ragione, vegliarde
fattucchiere insolenti e beffarde?
Trafficar con Macbeth io v'ho scorte
in enigmi e maneggi di morte;
mentr'io, vostra regina e bandiera,
orditrice d'ogni arte più nera,
la mia parte non ebbi all'incanto,
né dell'opra l'onore, né il vanto.
(...) Voi d'incanti, di filtri e malie
apprestate le specie più rie.
Io n'andrò per la tenebra oscura
preparando un'arcana sciagura
(...) Sulla cima del corno lunare
altra stella cadente m'appare
e raccoglier la stilla mi giova"

Shakespeare fa apparire Ecate come ipostasi ctonia di Artemide, associandola alla "pallida luna"
e agli oracoli e alle profezie delle streghe. (vedi l'atto quarto o la scena quinta dell'atto terzo);
è significativo che l'Autore la citi anche nel "Re Lear", in bocca al protagonista, per diseredare Cordelia. Gli omicidi si compiono sotto lo sguardo di Ecate che assiste alla scena messa in atto da Macbeth, perché Ella è anche Mater Terribilis, come Coatlicue e Kali: da Lei la Morte, da Lei la Vita.


   
 (*) Curiosamente, anche nella bibbia. La figura di Giaele, che uccide Sisara, "trapanandogli la testa con un surrogato del pene": il grosso chiodo


Comunque, si tenga presente che la vicenda può essere intesa anche in senso erotico, come si suggeriva in questo libro:


prima Sisara possiede la donna - coito o stupro - penetrandola con un vero pene; poi lei si vendica penetrandolo alla testa con un surrogato di fallo: il chiodo.
Probabilmente la soglia della tenda e l' "intima soglia femminea" (vagina) nel quale l'uomo penetrava, in entrambi i casi, nel simbolismo semita, vennero a coincidere. Peraltro, anche nel contesto islamico, il "velo", inizialmente "cortina" nella casa, coincide poi con il pudore (e quindi il corpo, e soprattutto, la vagina) della donna.


Shakespeare (9): Giacomo I, la stregoneria e il "Macbeth"

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In "Macbeth" il discorso sul potere non riguarda solo l'ambito della politica sessuale ma anche quello della politica tout court.
Il problema della stregoneria come potenziale elemento di sovversione e più in particolare come insidia alla corona e alla vita di re Giacomo I, era all'ordine del giorno.

Le streghe, asservite alle potenze infernali, avevano già dimostrato di poter attentare alla monarchia, specchio terreno del potere celeste.
Prima che diventasse re d'Inghilterra, Giacomo



aveva voluto assistere al processo intentato contro un gruppo di persone accusate di aver suscitato con arti magiche una tempesta per affondare la nave che lo riportava in patria dalla Danimarca insieme alla consorte Anna.
Nel 1597, Giacomo aveva scritto un trattato intitolato "Demonologia"; sette anni più tardi inasprì le leggi sulla stregoneria emanate da Elisabetta I fino a prevedere la pena di morte per chi evocasse spiriti maligni.
Non furono comunque le streghe a mettere in serio pericolo la vita del sovrano. Il fallimento della Congiura delle polveri (5 novembre 1605) che si proponeva l'impresa inaudita di far saltare in aria il re con l'intero Parlamento, aveva provocato un ulteriore giro di vite contro i cattolici. E una buona concentrazione di cattolici era presente nel Warwickshire; anche Stratford, città natale di Shakespeare, fu toccata dalla dura reazione monarchica. Parenti e amici del drammaturgo vennero coinvolti nella nuova ondata repressiva.

Shakespeare, come tutto il mondo teatrale (e non solo) a lui contemporaneo era sottoposto a censura; è più o meno acquisito che "Macbeth" sia stato rappresentato a corte al cospetto di Giacomo I; se è vero, come si ipotizza, che sia stato addirittura il re a commissionare un dramma di argomento scozzese al gruppo di Shakespeare (compagnia che si fregiava del titolo "King's Men"), si capirà quanto l'autore potesse avvertire la delicatezza di una tale incombenza. Se l'opera fu composta a ridosso del processo e della condanna a morte dei congiurati (inverno-primavera 1606) sarà anche chiaro come le circostanze non ammettessero diversioni o licenze poetiche.
Il messaggio contenuto nel "Macbeth" doveva essere recepito come un panegirico dell'ordine costituito, di quell'assolutismo regio di cui Giacomo I aveva una concezione sostanzialmente religiosa. Tutto ciò potrebbe dar forza all'ipotesi che Shakespeare intendesse creare un'opera più che rassicurante dal punto di vista dell'ortodossia politica. E spiegherebbe la singolarità per cui le streghe nella loro ultima comparsa sembrano intenzionate non a sovvertire ma a corroborare l'ordine - l'ordine dell'Inghilterra secentesca degli Stuart, non quello della Scozia dell'XI secolo - offrendo a re, presente fra gli spettatori, un corteo altamente idealizzato dei suoi antenati.

Integro con un commento di Terry Eagleton sulle streghe...

Le streghe sarebbero l'inconscio, l'esiliato e represso, del dramma. Le Sorelle Fatali insidierebbero l'ordine costituito sul piano sociale (sono esenti dalla logica dei legami familiari), su quello sessuale (per la loro androginia: sono infatti "femmine barbute") e su quello linguistico (per la loro anarchia espressiva): "Sono Poetesse, Profetesse, Adepte di un culto femminile, separatiste radicali che irridono al potere maschile smascherando il vuoto frastuono e la furia che ne sono alla base."

Insomma: visto che Macbeth rappresenta il potere tirannico, androcentrico, assetato di dominio, che non esita a distruggere e tradire i rapporti virili e feudali di amicizia (l'uccisione del fido Banquo o di re Duncan, che pure aveva premiato Macbeth) paradossalmente sono proprio le streghe, donne magiche, al di fuori di questo sistema patriarcale, ad essere le uniche depositarie stabili dell'unità e della fedeltà le une alle altre: la Sorellanza! Tra l'altro, è interessante notare quest'altro aspetto: le tre donne sono streghe, e perciò odiate e invise dalla mentalità cristiana che permea la Scozia del XI secolo; ma la malvagità, all'interno di tale sistema, viene proprio compiuta dai paladini di tale Scozia cristiana...


p.s notate come questa suggestiva immagine enfatizzi ancora di più la prospettiva ginocentrica: la "V" è la forma stilizzata delle parti intime femminili, oltre che uno dei primi segni tracciati da mano umana, come hanno dimostrato le ricerche di Marija Gimbutas.


Shakesperare (8): la femminilità nel "Macbeth"

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è stato necessario attendere la critica femminista perché il re venisse denudato. Non si parla solo di Duncan o dell'usurpatore Macbeth: il re, in termini figurati, è l'elemento maschile che predomina in modo indiscusso nel testo. Come osserva con grande acume Marilyn French, "le prime parole umane che risuonano sul palcoscenico sono quasi un'epitome del dramma: What bloody man is that?"
Motivi metrici hanno determinato la resa italiana "Chi è quell'uomo che sanguina?"; ma l'originale, pur chiaro nel suo significato primario, presenta ben altri sottotoni, a cominciare dal "what" che può suggerire non tanto un'interrogazione sull'identità del singolo personaggio comparso in scena quanto un dubbio più generale su che cosa sia l'Uomo coperto di sangue che può assurgere a emblema di questa tragedia (e si aggiunga che "bloody" non corrisponde solo a "insanguinato" ma anche "sanguinario, maledetto").
Nel mondo del "Macbeth" i valori vincenti sono quelli "virili", sono l'epica delle teste mozzate, del nemico scucito "dall'ombelico fino alla mascella", mentre il principio femminile è martoriato o irriso, stravolto.
Si pensi alla feroce uccisione di Lady Macduff, priva della protezione di un marito che ha abbandonato la Scozia per motivi di strategia politica (motivi, cioè, di pertinenza esclusivamente maschile).
Re Duncan è insistentemente dotato di caratteristiche "femminili": ha un cuore traboccante, che lo rende incline alle lacrime e si esprime per metafore naturali; è insomma tanto gentile e mite da soccombere a Macbeth (Nota di Lunaria: che in una celebre battuta, afferma che Lady Macbeth dovrebbe partorire solo maschi).  Al contrario, Macduff che ucciderà il tiranno, è tanto poco "infettato" dall'elemento femminile, da essere stato strappato al ventre materno con lo squarcio violento di un parto cesareo.
è vero che sono le donne a mettere in moto gli sviluppi dell'azione, ma si tratta di donne innaturali, donne che si inoltrano in un terreno a loro precluso.
Le Sorelle Fatali sono femmine barbute (donne dotate di attributi maschili; donne che ribaltando l'ordine sociale - quindi naturale, quindi divino - aspirano al potere, quanto meno a quello della conoscenza). Lady Macbeth, quasi assumendo inconsciamente l'androginia delle streghe (Nota di Lunaria: Banquo infatti le apostrofa con "che creature son queste, tanto vizze e selvatiche d'aspetto (...) dovreste essere donne, pur se quelle barbe m'impediscono di pensarvi tali") invoca che le venga estirpato il sesso per potersi inserire in un universo virile e brutale che la rende capace di azioni, ancora una volta, "innaturali" per una donna; lo dimostra l'infanticidio teorico che prospetta a Macbeth nel momento in cui lo vede "svirilizzato", dall'incertezza e dai dubbi. E sappiamo che Lady Macbeth pagherà amaramente questa sua trasgressione, questa incursione nel dominio dell'altro sesso.

Nota di Lunaria: l'idea di donna barbuta è presente anche nel cristianesimo:


La morte di Macbeth determina una circolarità, una restaurazione dell'ordine iniziale e dei suoi valori, fondati sulla legittimità del massacro "lealista". Nell'immagine che in chiusura di dramma mostra il giovane re circondato dai suoi baroni, il potere torna ad essere l'unica preoccupazione e l'ultima realtà. In scena non restano che uomini: le streghe sono scomparse, e Lady Macbeth, inesorabile sposa fallica del tiranno, si è suicidata forse proprio nel momento in cui la sua natura "femminile" accennava a riprendere il sopravvento (un Jekill ante litteram?)

Nota di Lunaria: nel film di Polanski (1971) Lady Macbeth è rappresentata da un'attrice che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ha fattezze angeliche e delicate, in vestiti dai toni pastello.


 Il principio femminile, "il latte dell'umana gentilezza", è sparito dai cieli della Scozia.

Shakespeare (7): Lady Macbeth

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Delle due figure che campeggiano nella tragedia di Macbeth - un uomo e una donna che l'avidità di potere travolge nel delitto e nella rovina - la figura femminile è la più allucinante.



Shakespeare non la chiama per nome: essa viene designata mediante il titolo di suo marito: Lady Macbeth; ma l'antica cronaca da cui è desunta la vicenda le dà un nome dal suono sinistro: Gruoch.
Gruoch è una sorta di genio del male. Nella lunga e ferraginosa narrazione di Holinshed, lo storiografo inglese da cui Shakespeare attinge la materia del dramma, i due assassini godono di un certo respiro: dopo il delitto che lo colloca sul trono, Macbeth regna 17 anni, e anzi, il cronista gli dà credito di "degne azioni e principeschi fatti".
Nulla di simile nella tragedia di Shakespeare: i crimini sono i medesimi di quelli elencati da Holinshed ma il tempo dell'azione è abbreviato e precipita verso la catastrofe con la stessa rapidità ed inevitabilità con cui cadono, dopo un giorno d'inverno, le tenebre.


Macbeth domina la scena, ma la moglie domina lui: anche quando non la si vede, se ne avverte l'oscura presenza.
Occorre tenere presente come il Cinquecento fu un'epoca di regine terribili: i genitori di Shakespeare e tutti gli inglesi della generazione precedente a lui rammentavano il regno di Maria la Sanguinaria; Shakespeare aveva 8 anni quando Caterina de' Medici scatenò a Parigi la strage di san Bartolomeo.
è probabile che una qualche reminiscenza di queste poderose figure femminili, avvolte dal duplice riverbero della regalità e del terrore, sia entrata nella creazione del personaggio di Lady Macbeth, regina di Scozia, a prezzo di una catena di delitti.


Shakespeare avrebbe potuto farne un'incarnazione della malvagità, senza chiaroscuri e pentimenti, sul modello di Iago o Riccardo III. Invece l'assassina è pur sempre una donna, capace di tremori e rimorsi, e persino di uno sgomento in cui trema un'ombra di pietà, come quando in Duncan addormentato e prossimo ad essere ucciso le pare di vedere il suo vecchio padre, e non può colpirlo.



Ma tutti questi impulsi sono violentemente ricacciati in fondo all'animo dalla passione dominante, la selvaggia brama di dominio che non arretra nemmeno davanti al sangue.
è in nome di questa che Lady Macbeth chiede agli spiriti del Male di essere liberata dalla sua natura femminile: "Venite alle mie poppe di donna e prendetevi il mio latte in cambio del vostro fiele, o voi ministri d'assassinio, dovunque (nelle vostre invisibili forme) siate pronti a servire il male degli uomini"
Questa donna non più donna partorisce il delitto. Lei, che la natura aveva formata perché desse la vita, dà la morte. [*]
Vale la pena di rammentare il commento di Victor Hugo: "La prima cosa che fa Adamo con Eva è Caino. La prima cosa che fa Macbeth con Gruoch è l'assassinio."

Ma il rimorso non le dà tregua.
Mentre Macbeth che sulle prime si confessa "novizio" al delitto, più avanti, indurito fra gli orrori, diventa inaccessibile a qualunque umano sgomento, la regina naufraga in una sorta di cupa follia, ossessionata dal ricordo del sangue sparso e delle immagini delle sue vittime: non la uccideranno i nemici che premono da ogni parte, la uccideranno i morti.

[*] Si potrebbe fare un parallelo con Eva, "la madre dei viventi" che, sedotta dal serpente, cede alla tentazione e per la quale "la morte è entrata nel mondo". Nota di Lunaria.





Shakespeare (6): secondo commento al "Macbeth"

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Anche a proposito del "Macbeth", come delle maggiori tragedie shakespeariane, va detto che è anzitutto necessario non ingabbiare - e così snaturare - l'opera nello schema di una definizione psicologica. Troppo spesso, anche sulla scorta dello psicologismo romantico, si tende a parlare del "Macbeth" come della tragedia dell'ambizione, allo stesso modo in cui si parla dell'"Otello" come della tragedia della gelosa e del "Re Lear" come una tragedia dell'ingratitudine filiale. Che sono tutte, naturalmente, definizioni esatte se tendono a individuare un aspetto, magari il più evidente, dell'opera; ma che risultano fuorvianti e riduttive se presumono di esprimere il significato globale dell'opera stessa. Il che non significa che nel caso del "Macbeth" non si debba parlare di ambizione, anche se altri sentimenti e disposizioni dell'animo vengono analizzati e rappresentati. L'ambizione c'è ed è centrale: non solo, ma, più ancora che nell'"Otello", la passione dominante è indagata da vari punti di vista. L'ambizione è vista non soltanto attraverso Macbeth (in cui essa è colta nel suo primo nascere, durante il primo incontro con le streghe, e poi seguita nel suo graduale svilupparsi ed esplodere come forza che domina e ossessiona la sua ragione, fino a portarlo alla follia), ma anche, in grado diverso, attraverso Lady Macbeth (nella quale essa acquista altre e diverse connotazioni) e - in modo persino più sottile, oltre che più cauto - attraverso Banquo (il quale non è soltanto la vittima di Macbeth ma è, almeno moralmente, suo complice perché è a sua volta roso dall'ambizione che l'incontro con le streghe ha suscitato anche in lui).  In realtà lo studio dell'ambizione  è così attento e appassionato, nel "Macbeth", e la rappesentazione di essa così corposa e drammatica che il tema si carica di risonanze universali. I personaggi assumono dimensioni mitiche, risultando non immemori dei grandi archetipi di Lucifero o di Prometeo e per quello che riguarda Macbeth e Lady Macbeth, di Adamo ed Eva nel loro peccato, della loro grande trasgressione.
Proprio questi legami con una problematica più complessa e più universale confermano, d'altra parte, che identificare con lo studio dell'ambizione il significato ultimo del "Macbeth" significherebbe ridurre grandemente la portata di quest'opera straordinaria. Vi sono certamente altri temi: l'amore, che è una componente spesso trascurata del dramma e che pure esiste: il rapporto tra Lady Macbeth e Macbeth è un rapporto amoroso, che può portare alla corruzione, al disgregamento anche fisico  del personaggio ma che è una delle motivazioni che spingono Lady Macbeth, la quale compie la sua azione negativa in gran parte per amore del marito.

Altro tema è la solitudine: i personaggi passano dall'appartenenza a una comunità a una condizione di totale solitudine: e si pensi a Macbeth che, nelle scene finali, è simile a una belva braccata e a Lady Macbeth nelle scene del sonnambulismo.

E, ancora, la sterilità, la paura, l'angoscia, e soprattutto il male - seguito passo passo nel suo cammino distruttivo non solo attraverso i protagonisti, colpevoli o vittime che siano, ma attraverso tutti i personaggi dell'opera. Un male studiato nella sua natura, nelle conseguenze che provoca, nelle reazioni che suscita, nei mezzi di cui si avvale per penetrare nel tessuto umano: dall'ambizione all'inganno, dall'illusione alla follia. Siamo di fronte a una rappresentazione agghiacciante, a un incubo che pervade l'intera opera, riflettendosi e riverberando in ogni suo aspetto, dalla scenografia (con quella notte il cui colore è il colore stesso del dramma) all'azione, al linguaggio. Davvero viene data forma tangibile, nel Macbeth, al male del mondo, viene comunicato il segreto pauroso delle potenzialità negative che si annidano nella nostra anima, delle forze che, scatenandosi, possono produrre l'orrendo meccanismo, l'angosciosa prigione in cui Macbeth, come un personaggio di Poe, rinchiude se stesso. Ma proprio perché il male è indagato così capillarmente nella sua essenza e in tutti i suoi rapporti con gli altri sentimenti e le altre forze della vita, nemmeno questo tema, pur così vasto, rimane fino a se stesso ma inevitabilmente l'analisi e la rappresentazione del male diventano tout court analisi e rappresentazione dela vita vista come continuo conflitto, come grande palcoscenico in cui si scontrano le forze che vivono nella condizione umana. Uno dei principi strutturali su cui quest'opera poggia è quello della conflittualità, della contrapposizione. E ciò a tutti i livelli: da quello dell'azione a quello dei personaggi, da quello della scenografia a quello del linguaggio. Tutti i temi contengono il loro opposto: la vita non è mai vista univocamente ma sempre in modo conflittuale, magari contraddittorio, come perenne ambiguità e contrasto. Macbeth e Lady Macbeth non sono incarnazioni statiche e assolute del male ma esseri dotati di una loro grandezza umana, di virtù che rendono la loro caduta tanto più grave e memorabile. All'inzio dell'opera Macbeth è presentato soprattutto come un guerriero valoroso, un suddito fedele, un uomo altrettanto ricco di potenzialità positive quanto di inclinazioni negative: e di fatto la vittoria del male su di lui avviene faticosamente, con grande travaglio, con grande sofferenza.

Parimenti, Lady Macbeth è personaggio molto più ricco di elementi umani e propriamente femminili di quanto spesso non si noti.  Certo ella agisce da strumento del male, da vera e propria tentatrice, ma per assumere questo ruolo deve esorcizzare quanto c'è in lei di femminile, invocare gli spiriti del male e distruggere le proprie disposizioni. Il conflitto, d'altra parte, è in tutta l'opera; come il male è contrapposto e lotta con il bene, così il cielo è contrapposto all'inferno, la natura (intesa sia come ricchezza umana, vita del cuore, sia come paesaggio) alla non-natura, il paesaggio esterno al castello. Quest'ultima è una delle contrapposizioni fondamentali, di origine medioevale: all'esterno c'è la natura benigna, in cui l'umano e il divino sembrano fondersi, all'interno c'è il male, l'azione negativa, il sangue, il delitto. E ancora, le immagini della sterilità a quelle della fecondità, le immagini della malattia a quelle della salute; gli uccelli della notte a quelli del giorno, le belve agli animali benigni. Tutta l'opera (vero simbolo, in questo senso, dell'arte drammatica) è stupendamente costruita in questo modo, e non in una contrapposizione schematica ma in un'immagine totale che si rifrange in mille immagini particolari, un'unica, complessa, lacerante e lacerata visione che è quella della vita, intesa come terreno su cui le opposte forze si scontrano, si abbattono a vicenda, si mescolano, si confondono, si intersecano l'una con l'altra. Ma se il dramma è lo strumento attraverso il quale viene individuato e rappresentato il conflitto che lacera la vita, esso è anche la scena su cui il drammaturgo opera per tentare di comporre il conflitto, di restituire un qualche ordine al disegno frammentario di una realtà che la crisi epocale, il passaggio dalle certezze del Medioevo al dubbio e alla precarietà dell'Età moderna, ha reso difficile e oscura. Così, se nel "Macbeth" c'è la rappresentazione della sconfitta dell'uomo c'è anche quella di una sua pur fragile possibilità di vittoria. Macbeth è travolto dal male, perde gradualmente ogni attributo umano, giunge alla disperata constatazione che la propria storia è solo "urlo e furore" finché il suo corpo è ridotto a una testa mozza conficcata su un palo. Ma di fronte a questo frammento di corpo c'è Malcolm, il figlio del re ucciso Duncan, il nuovo Principe che tenta di restaurare l'ordine, di recuperare i valori che Macbeth ha distrutto in sé, negli altri, nella società.
Ecco dunque che il "Macbeth", se è un'opera oscura e sanguinosa (il sangue la percorre tutta, nella realtà, nell'immaginazione dei personaggi e nel linguaggio) in cui le forze del male si scatenano con inaudita violenza e il tessuto malefico della natura umana è individuato con angosciosa precisione, appare anche come un dramma in cui proprio questa lucida e sgomenta rappresentazione del male, questa consapevolezza della crisi del mondo, offrono valori costruttivi che saranno precari ma esisteranno. Dalla distruzione del mondo che Macbeth ha operato emergono i lineamenti di un mondo nuovo, senza certezze, da conquistare giorno per giorno, ma che è l'unico mondo possibile all'uomo moderno. La grandezza del "Macbeth" (scritto intorno al 1605-6, e quindi dopo "Amleto" e "Otello" e contemporaneamente al "Re Lear") sta anche nel riconoscimento, come già in Amleto, che l'uomo moderno deve accettare la conflittualità e l'incertezza come condizione del vivere; è in questa accettazione che sta l'elemento di speranza, creativo, positivo, di un'opera così disperata, e così tragica.




Approfondimento: Cioran e Macbeth


Cioran citava spesso Shakespeare; nel bellissimo "L'inconveniente di essere nati", così parlava di  Macbeth:

"Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire Amen."

Anche in "La caduta nel tempo" e nel sublime "Sommario di Decomposizione", riprendeva la riflessione su Macbeth:

"Il suo gesto più infimo sarà preparato, sarà il risultato di una tensione e di una strategia, come se dovesse prendere d'assalto ciascuno istante, non potendo calarvisi naturalmente. Smania e si agita, ora, nella vana speranza di ricostituire quell'essere che lui stesso ha demolito. Come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata; anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze. Esse si risvegliano, e vengono ad ossessionarlo e a turbarlo; e in effetti lo turbano, ma poiché egli non si abbassa al rimorso, contempla il corteo delle sue vittime con un malessere temperato dall'ironia. Che gliene importa ora di queste recriminazioni di fantasmi? Distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all'esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l'odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l'ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale persino l'autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale, nel più profondo delle origini, prima di quella contesa fra la materia e il germe che si prolunga attraverso la serie degli esseri, dall'insetto al più tribolato dei mammiferi.     
Poiché né la vita né la morte eccitano più il suo spirito, egli è meno reale di quelle ombre di cui ha appena subito i rimproveri. Non c'è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello. La sua mancanza di curiosità raggiunge dimensioni tali da confinare con la totale rinuncia con un nulla più denudato di quello di cui i mistici s'inorgogliscono o si lamentano dopo le loro peregrinazioni attraverso il "deserto" della divinità. Nella sua ebetudine, senza incrinature, un solo pensiero ancora lo assilla, un solo interrogativo, stupido risibile, ossessivo: "Che cosa faceva Dio quando non faceva nulla? In che modo riempiva, prima della creazione, i suoi terribili ozi?"
"La beffa ha abbassato al rango di pretesto ogni cosa, tranne il Sole e la Speranza, tranne le due condizioni della vita: l'astro del mondo e l'astro del cuore, l'uno splendente, l'altro invisibile. Uno scheletro che si riscaldasse al sole e che sperasse sarebbe più vigoroso di un Ercole disperato e stanco della luce; un essere totalmente permeabile alla Speranza sarebbe più potente di Dio e più vivo della Vita. Macbeth, "aweary of the sun", è l'ultima delle creature, dato che la vera morte non è la putredine, ma il disgusto per qualsiasi irradiazione, la ripulsa per tutto ciò che è germe, per tutto ciò che sboccia sotto il calore dell'illusione.
L'uomo ha profanato le cose che nascono e muoiono sotto il sole, ma non il sole; le cose che nascono e muoiono nella speranza, ma non la speranza. Non avendo avuto il coraggio di andare oltre, egli ha imposto dei limiti al proprio cinismo. Ma un cinico che si proclami coerente di fatto lo è solo a parole; i suoi gesti lo rendono il più contraddittorio degli esseri: nessuno potrebbe vivere dopo aver decimato le proprie superstizioni. Per arrivare al cinismo totale occorrerebbe uno sforzo inverso a quello della santità, e almeno altrettanto considerevole; oppure immaginare un santo che, giunto all'apice della purificazione, scoprisse la vanità della pena che si è dato - e la ridicolaggine di Dio...
Un simile mostro di chiaroveggenza cambierebbe i dati della vita: avrebbe la forza e l'autorità di mettere in discussione le condizioni stesse della propria esistenza; non rischierebbe più di contraddirsi; nessuna debolezza umana smorzerebbe più il suo ardire; e avendo perduto il rispetto religioso che, nostro malgrado, portiamo alle ultime illusioni, si farebbe gioco del proprio cuore e del sole...

Shakespeare (5) Primo commento al "Macbeth"

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Macbeth fu pubblicato per la prima volta nell'in-folio del 1623; il testo è uno dei più brevi dell'opera di Shakespeare e ciò ha fatto supporre che esso abbia subito del tagli, alcuni dei quali forse dovuti a motivi di censura. Tuttavia tale ipotesi non sembra molto convincente mentre è assai probabile che il testo proprio per la sua brevità, abbia subito delle interpolazioni. Dubbi sono stati avanzati sull'autenticità di ben dieci scene ma la critica è ora concorde nell'indicare come spurie soltanto la quinta scena del terzo atto in cui compare Ecate, e parte della prima scena del quarto atto (la ricomparsa di Ecate e la danza delle streghe). A motivi stilistici e strutturali si aggiunga il fatto che in entrambe le scene sono usate canzoni tratte da "The Witch", dramma di Middleton scritto tra il 1606 e 1616, alcuni anni dopo il "Macbeth".

Scritto dopo "Othello" e "King Lear", "Macbeth" conclude la grande fase tragica di Shakespeare. "Macbeth" si apre tra tuoni e lampi con la comparsa delle streghe e si chiude col capo mozzato di Macbeth portato in scena dal suo uccisore, in un susseguirsi di delitti, narrazioni di eventi innaturali e fatti sinistri, apparizioni fantastiche. Gran parte dell'azione si svolge di notte, con la complicità delle tenebre che Macbeth invoca a nascondere i suoi stessi desideri prima ancora che i suoi misfatti.
L'elemento soprannaturale, reso ancor più pauroso dalla tenebra che l'avvolge, non solo dovette esercitare un orrido fascino sul pubblico del Seicento e poi giù giù fino ai romantici e a Verdi, ma rappresenta tuttora il segno caratterizzante della tragedia.
Con il nero della notte, l'altro colore dominante di Macbeth è il rosso del sangue. La tragedia gronda di sangue, dall'ingresso del capitano sanguinante nella seconda scena sino alla testa mozzata del finale: al sangue degli uccisi, che si raggruma su mani e pugnali, si aggiunge quello delle immagini, tra le più agghiaccianti della poesia di Shakespeare, come quando Macbeth si domanda se basterà tutto l'oceano a lavare la sua mano o come quando valuta, quasi con distacco, la situazione in cui è venuto a trovarsi:

"Tanto in là ho camminato nel sangue
che fermarmi e tornare sarebbe fatica
più aspra che il procedere" (III. 4. 135-7)

Il sangue, vero o immaginato, nei fatti o nelle parole, è costantemente davanti agli spettatori di questa tragedia, che Jan Kott ha definito la tragedia dell'assassinio, laddove altri l'hanno definita la tragedia del male, della dannazione, dell'ambizione, della paura; nel "Macbeth" la storia è mostrata come un incubo, è ridotta ad un unico aspetto e ad un'unica primordiale distinzione: quelli che uccidono e quelli che vengono uccisi.

Il tema di fondo, nel "Macbeth", è l'indagine della condizione e della natura dell'uomo, sia pure in rapporto al problema del potere e del suo esercizio.
Tale indagine passa attraverso le figure di Macbeth e di Lady Macbeth, che giganteggiano nella tragedia schiacciando quasi gli altri numerosi personaggi.


Si è già detto del fascino esercitato dal soprannaturale e dalla tenebra, e l'altro elemento di fascino è dato dall'impatto sinistro dei due protagonisti, grandi nella loro infamia. La mostrosità dei due protagonisti è indubbia, al punto che si è cercato di dimostrare, rapportando le sue tremende invocazioni alla cultura dell'epoca, che Lady Macbeth è praticamente demonizzata.


Accettare la loro infamia non significa però ridurli alla definizione che ne dà Malcolm nel finale, macellaio lui e simile a un diavolo lei. Non sono personaggi monolitici, ma sono percorsi da contraddizioni e incertezze, che né li giustificano, né dovrebbero suscitare pietà, ma che conferiscono loro quella grandezza tragica cui si manifesta la sublime capacità di Shakespeare di indagare nell'animo umano.

Sin dalla prima comparsa Lady Macbeth si presenta come una donna animata da una inflessibile e malvagia determinazione: è lei che convince il marito ad uccidere Duncan vincendone le incertezze.
Terribili sono le sue parole:  "cancellate il mio sesso... sbarrate ogni accesso al rimorso... succhiate il mio latte in cambio di fiele"; ed è lei, dopo l'assassinio, a tranquilizzare Macbeth e a gestire la scena della scoperta dell'omicidio. Ma poi c'è la scena del sonnambulismo, nel quinto atto:


le poche frasi pronunciate da Lady Macbeth, in cui si mescolano le parole della determinazione e l'ossessione del sangue sono state oggetto di chiose e ipotesi appassionate, a volte a sostegno di un suo pentimento, nel tentativo di spiegarne la suggestione profonda. Oggi è facile interpretarle come la manifestazione del lavorio dell'inconscio.

Il personaggio di Macbeth segue invece un percorso del tutto diverso. All'inizio della tragedia è presentato come un guerriero valoroso, nobile, che però in seguito alla profezia delle streghe, cede alla tentazione.

è tormentato dal dubbio, caccia i suoi malvagi pensieri ("Se la sorte mi vuole re, può coronarmi, la sorte: senza ch'io faccia un gesto") ma essi ritornano prepotentemente quando Malcolm è nominato erede al trono. Tuttavia non riesce ancora a decidersi, nonostante gli incitamenti di Lady Macbeth; ma poi, quando la moglie gli suggerisce quanto sia facile dare alle guardie la colpa dell'assassinio di Duncan, si risolve ad uccidere il vecchio re: l'ambizione diventa a quel punto lo sprone sufficiente.

La scena del banchetto con l'apparizione del fantasma di Banquo (*) è il momento centrale del "Macbeth".
Lo è materialmente, dividendo in due parti quasi uguali la tragedia, lo è emotivamente, lo è concettualmente. Lo è pure rispetto al rafforzamento della volontà sanguinaria del protagonista: dopo aver sperimentato il terrore dell'irrazionale è ormai "pronto a udire il peggio e con i mezzi peggiori".
Macbeth sprofonda sempre di più nell'infamia senza che per questo venga meno la presa che egli esercita su di noi. Forse perché riusciamo ancora a scorgere in lui un barlume di umanità, come quando urla a Macduff di andarsene perché sulla sua anima già troppo pesa il sangue dei suoi? Forse anche per questo, ma soprattutto perché è umana la sua infamia, perché Shakespeare ci mette di fronte e ingigantisce in questo personaggio gli abissi in cui può precipitare l'animo umano quando dà ascolto nel modo peggiore alla parte peggiore di sé.

Quando Macbeth, in uno dei passi più famosi del teatro shakespeariano, dice che la vita è una storia "narrata da un idiota, colma di suoni e di furia, senza significato" non soltanto dice che la sua vita è senza significato a causa dei suoi crimini, ma lui, assassino sanguinario, costringe noi, miti spettatori, a riflettere sul senso della nostra vita. E forse a dubitarne.


(*) Nota di Lunaria: espediente, quello del fantasma, adottato anche da Vincenzo Monti:

Aristodemo: "Ebben: sia questo adunque l'ultimo orror che dal mio labbro intendi. Come or vedi tu me, così vegg'io l'ombra sovente della figlia uccisa; ed, ahi, quanto tremenda!
Allor che tutte dormon le cose, ed io sol veglio e siedo al chiaror fioco di notturno lume; ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro starmi d'incontro,
ed occupar la porta minaccioso e gigante.
Egli è ravvolto in manto sepolcral, quel manto stesso onde Dirce [è il nome della figlia uccisa da Aristodemo, nota di Lunaria] coperta era quel giorno che passò nella tomba.
I suoi capelli, aggruppati nel sangue e nella polve, a rovescio gli cadono sul volto, e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido volgo altrove la fronte;
e me'l riveggo seduto al fianco.
Mi riguarda fiso, ed imobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome e piovendone sangue, apre la veste, e squarciato m'addita, ahi vista! Il seno di nera tabe
[= sangue] ancor stillante e brutto.
Io lo respingo; ed ei più fiero incalza, e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro traverso i fianchi e mi trascina a' piedi di quella tomba,
e "Qui t'apetto" grida, e ciò detto, sparisce."

Gonippo: "Inorridisco. O sia vero il portento o sia d'afflitta malinconica mente opra ed inganno, ti compiango, mio re. Molto patirne certo tu dèi; ma disperarsi poi debolezza saria. Salda costanza d'ogni disastro è vincitrice. Il tempo, la lontananza dileguar potranno de' tuoi spirti il tumulto e la tristezza. Questi luoghi abbandona, ove nudrito da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo la Grecia tutta, visitiam cittadi, vediamone i costumi. In cento modi t'occuperai, ti distrarrai...Che pensi? Oimè! Che tenti, sconsigliato?"

APPROFONDIMENTO: IL MALE, IL RIMORSO, IL SONNO NEL "MACBETH"

Info tratte da


Nella sua opera, Shakespeare fa un'analisi dell'assurda presenza del  Male nell'uomo.
In "Otello" ne ha affermato l'esistenza concreta e la potenza; in "Macbeth" giunge al nocciolo del problema: scopre dove il Male si origina.

E la scoperta avvolge di tragedia il personaggio, ne fa risaltare insieme l'umanità e l'orrore: il Male è nell'uomo, e lo chiama con una voce che parte dal fondo del suo cuore.

Tre donne incontrano Macbeth, prode e fedele vassallo del re di Scozia, e lo salutano in modo strano. Prima lo chiamano con il suo titolo nobiliare effettivo; poi lo chiamano con un titolo che egli possiede senza saperlo, poiché il re glielo ha attribuito ma deve ancora comunicarglielo; infine lo chiamano con un titolo che egli non possiede ma cui aspira dal fondo più segreto dell'anima: re di Scozia.

Le tre misteriose donne, che rappresentano l'occasione, la sollecitazione che avvia il meccanismo del Male, hanno dato il via all'evoluzione psicologica e morale del personaggio.
Hanno toccato la sua ambizione, l'hanno risvegliata: e Macbeth entra nella sua tragedia.
Con orrore sente che il Male si gonfia dentro di sé, che il delirio dell'ambizione lo snatura: cerca di resistere ma non riesce.

E ucciderà il re; poi, per mascherare il delitto, dovrà uccidere ancora e ancora, in modo sempre più terribile, sempre più orrendo.

Al suo fianco è Lady Macbeth, che vive una tragedia analoga: partecipa al delitto, si fa sua complice e sua istigatrice per amore di lui, più che della potenza.
E Macbeth l'ascolta perché l'ama, forse più di quanto ami se stesso e la sua febbre di sangue.

Siamo così arrivati al cuore della tragedia: il Male agisce contro chi l'ha compiuto, con un rimorso atroce, con la sua caratteristica irrimediabile, assurda logica.

Ecco la fortissima scena del colloquio tra Macbeth, che ha appena compiuto il delitto, e la moglie:

Macbeth: Ho compiuto l'impresa...
uno si è messo a ridere nel sonno e un altro ha gridato: "Assassinio!" e ha voce così alta che 
si sono svegliati tutti e due reciprocamente.
Io ero immobile e li sentivo.
Ma han detto solo le preghiere e si sono addormentati di nuovo.

Lady Macbeth: Eh già, sono due a dormire in quella stanza.

Macbeth: Uno ha detto ad alta voce "Iddio ci benedica" e l'altro ha detto "Amen", proprio come se avessero visto me con queste mie mani di carnefice. Ho prestato attento orecchio alle loro paure; ma quando han detto: "Iddio ci benedica", non fui capace di dire "Amen"  

Lady Macbeth: Non starci ad almanaccare troppo.

Macbeth: Ma perché non fui capace di pronunziare quell'Amen? Avevo tanto bisogno di benedizioni; ma "Amen" mi è rimasto in gola.

Lady Macbeth: Fatti come questi non vanno considerati in questo modo. 
Se continuiamo così, impazziremo.

Macbeth: M'è sembrato di udire una voce che gridava: "Non dormire più! Macbeth assassina il sonno... il sonno innocente" E continuava a gridare "Non dormire più!" a tutta la casa. "Macbeth non dormirà più!"

Macbeth ha assassinato il sonno, il proprio sonno: non dormirà più perché la voce del rimorso lo terrà desto, avviluppato nel suo delirio, per sempre.
La sua insonnia sarà piena delle ombre di coloro che ha ucciso, il suo pensiero "pieno di scorpioni". 
E la stessa Lady Macbeth non dormirà più: fantasma allucinato, si aggirerà sugli spalti del castello guardando inorridita la sua "piccola mano" che le pare sporca di un sangue che nessuna acqua potrà mai lavare, che "tutti i profumi di Arabia non basteranno a levigare"

Il Male ha concluso il suo ciclo: partito dal cuore dell'uomo, vi ritorna come una dannazione che la mente non sa spiegare, che non può spiegare.

Nota di Lunaria: Le Tre Streghe del "Macbeth" sono ispirate alle Parche e alle Norne. Le Streghe sarebbero anche l'inconscio, l'esiliato e represso, del dramma. 
Le Sorelle Fatali insidierebbero l'ordine costituito sul piano sociale (sono esenti dalla logica dei legami familiari), su quello sessuale (per la loro androginia) e su quello linguistico (per la loro anarchia espressiva): "Sono Poetesse, Profetesse, Adepte di un culto femminile, separatiste radicali che irridono al potere maschile smascherando il vuoto frastuono e la furia che ne sono alla base."
Macbeth rappresenta il potere tirannico, androcentrico, assetato di dominio, che non esita a distruggere e tradire i rapporti virili e feudali di amicizia (l'uccisione del fido Banquo o di re Duncan, che pure aveva premiato Macbeth) e paradossalmente sono proprio le streghe, donne magiche, al di fuori di questo sistema patriarcale, ad essere le uniche depositarie stabili dell'unità e della fedeltà le une alle altre: la Sorellanza.
Tra l'altro, è interessante notare quest'altro aspetto: le tre donne sono streghe, e perciò odiate e invise dalla mentalità cristiana che permea la Scozia del XI secolo; ma la malvagità, all'interno di tale sistema, viene proprio compiuta dai paladini della Scozia cristiana...
 
Anche in altre opere di Shakespeare ritroviamo riferimenti alla morte e ai simboli della stregoneria:

"Ora i tizzi consunti rosseggiano e la civetta col suo stridulo grido ricorda all'infelice sofferente il freddo abbraccio del sudario.
è l'ora della notte, in cui ogni tomba spalancata, lascia vagare gli spettri lungo i sentieri bui del cimitero..." ("Sogno di una notte di mezza estate")

"Che il tempo infaticabile conduce l'estate nell'inverno orrido e ve l'affonda linfa stretta dal gelo, vive foglie perdute, beltà  sommersa in neve e squallore dovunque, se allor e non rimanesse l'essenza dell'estate, liquida prigioniera chiusa in mura di vetro..."
 
"Contempla in me quell'epoca dell'anno quando le foglie ingiallite, poche o nessuna, pendono da quei rami tremanti contro il freddo, nudi cori in rovina ove dolci cantaron gli uccelli.
Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno, quale dopo il tramonto svanisce all'occidente, subito avvolto dalla notte nera, gemella della Morte che tutto sigilla nel riposo.
Tu vedi in me il languire di quel fuoco che aleggia sulle ceneri della propria giovinezza, come sul letto di morte su cui dovrà  spirare, consunto da ciò che già fu suo alimento."
 
"Di qui il tuo nome trarrà vita immortale anche s'io debba, morto, non lasciar più ricordo, la terra a me darà sol la fossa comune mentre tu avrai tomba degli uomini negli occhi.
Tuo sepolcro saranno i miei versi soavi, che occhi non ancor nati leggeranno...
Così tu nutrirai di Morte, che d'uomini si nutre e morta Morte più non accadrà di morire...."

Il monologo della cupissima Lady Macbeth rende alla perfezione l'atmosfera tetra e notturna della Tragedia:

"Vieni densa Notte e avvolgiti nel più scuro fumo d'Inferno affinché il mio coltello acuminato non veda la ferita che fa, né il cielo attraverso la coltre del buio s'affacci per gridare "Ferma! Ferma!"

E il monologo di Macbeth, mentre medita pensieri omicidi:

"è un pugnale questo che vedo, con l'elsa offerta alla mia mano?
Ti vedo e adesso lama ed elsa si irrorano di sangue.
è il fantasma della mia azione di sangue.
Terra solida e ferma, ignora i passi miei dove vanno;
che le tue pietre tacciono il mio cammino e non turbino il necessario orribile silenzio di quest'ora."

Riporto lo splendido commento di Agostino Lombardo:

"Ecco dunque che il "Macbeth", se è un'opera oscura e sanguinosa 
(il sangue la percorre tutta, nella realtà, nell'immaginazione dei personaggi e nel linguaggio) in cui le forze del Male si scatenano con inaudita violenza e il tessuto malefico della natura umana è individuato con angosciosa precisione, appare anche come un dramma in cui proprio questa lucida e sgomenta rappresentazione del male, questa consapevolezza della crisi del mondo, offrono valori costruttivi che saranno precari ma esisteranno... l'uomo moderno deve accettare la conflittualità e l'incertezza come condizione del vivere; è in questa accettazione che sta l'elemento di speranza, creativo, positivo, di un'opera così disperata, e così tragica"