Shakespeare (6): secondo commento al "Macbeth"

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Anche a proposito del "Macbeth", come delle maggiori tragedie shakespeariane, va detto che è anzitutto necessario non ingabbiare - e così snaturare - l'opera nello schema di una definizione psicologica. Troppo spesso, anche sulla scorta dello psicologismo romantico, si tende a parlare del "Macbeth" come della tragedia dell'ambizione, allo stesso modo in cui si parla dell'"Otello" come della tragedia della gelosa e del "Re Lear" come una tragedia dell'ingratitudine filiale. Che sono tutte, naturalmente, definizioni esatte se tendono a individuare un aspetto, magari il più evidente, dell'opera; ma che risultano fuorvianti e riduttive se presumono di esprimere il significato globale dell'opera stessa. Il che non significa che nel caso del "Macbeth" non si debba parlare di ambizione, anche se altri sentimenti e disposizioni dell'animo vengono analizzati e rappresentati. L'ambizione c'è ed è centrale: non solo, ma, più ancora che nell'"Otello", la passione dominante è indagata da vari punti di vista. L'ambizione è vista non soltanto attraverso Macbeth (in cui essa è colta nel suo primo nascere, durante il primo incontro con le streghe, e poi seguita nel suo graduale svilupparsi ed esplodere come forza che domina e ossessiona la sua ragione, fino a portarlo alla follia), ma anche, in grado diverso, attraverso Lady Macbeth (nella quale essa acquista altre e diverse connotazioni) e - in modo persino più sottile, oltre che più cauto - attraverso Banquo (il quale non è soltanto la vittima di Macbeth ma è, almeno moralmente, suo complice perché è a sua volta roso dall'ambizione che l'incontro con le streghe ha suscitato anche in lui).  In realtà lo studio dell'ambizione  è così attento e appassionato, nel "Macbeth", e la rappesentazione di essa così corposa e drammatica che il tema si carica di risonanze universali. I personaggi assumono dimensioni mitiche, risultando non immemori dei grandi archetipi di Lucifero o di Prometeo e per quello che riguarda Macbeth e Lady Macbeth, di Adamo ed Eva nel loro peccato, della loro grande trasgressione.
Proprio questi legami con una problematica più complessa e più universale confermano, d'altra parte, che identificare con lo studio dell'ambizione il significato ultimo del "Macbeth" significherebbe ridurre grandemente la portata di quest'opera straordinaria. Vi sono certamente altri temi: l'amore, che è una componente spesso trascurata del dramma e che pure esiste: il rapporto tra Lady Macbeth e Macbeth è un rapporto amoroso, che può portare alla corruzione, al disgregamento anche fisico  del personaggio ma che è una delle motivazioni che spingono Lady Macbeth, la quale compie la sua azione negativa in gran parte per amore del marito.

Altro tema è la solitudine: i personaggi passano dall'appartenenza a una comunità a una condizione di totale solitudine: e si pensi a Macbeth che, nelle scene finali, è simile a una belva braccata e a Lady Macbeth nelle scene del sonnambulismo.

E, ancora, la sterilità, la paura, l'angoscia, e soprattutto il male - seguito passo passo nel suo cammino distruttivo non solo attraverso i protagonisti, colpevoli o vittime che siano, ma attraverso tutti i personaggi dell'opera. Un male studiato nella sua natura, nelle conseguenze che provoca, nelle reazioni che suscita, nei mezzi di cui si avvale per penetrare nel tessuto umano: dall'ambizione all'inganno, dall'illusione alla follia. Siamo di fronte a una rappresentazione agghiacciante, a un incubo che pervade l'intera opera, riflettendosi e riverberando in ogni suo aspetto, dalla scenografia (con quella notte il cui colore è il colore stesso del dramma) all'azione, al linguaggio. Davvero viene data forma tangibile, nel Macbeth, al male del mondo, viene comunicato il segreto pauroso delle potenzialità negative che si annidano nella nostra anima, delle forze che, scatenandosi, possono produrre l'orrendo meccanismo, l'angosciosa prigione in cui Macbeth, come un personaggio di Poe, rinchiude se stesso. Ma proprio perché il male è indagato così capillarmente nella sua essenza e in tutti i suoi rapporti con gli altri sentimenti e le altre forze della vita, nemmeno questo tema, pur così vasto, rimane fino a se stesso ma inevitabilmente l'analisi e la rappresentazione del male diventano tout court analisi e rappresentazione dela vita vista come continuo conflitto, come grande palcoscenico in cui si scontrano le forze che vivono nella condizione umana. Uno dei principi strutturali su cui quest'opera poggia è quello della conflittualità, della contrapposizione. E ciò a tutti i livelli: da quello dell'azione a quello dei personaggi, da quello della scenografia a quello del linguaggio. Tutti i temi contengono il loro opposto: la vita non è mai vista univocamente ma sempre in modo conflittuale, magari contraddittorio, come perenne ambiguità e contrasto. Macbeth e Lady Macbeth non sono incarnazioni statiche e assolute del male ma esseri dotati di una loro grandezza umana, di virtù che rendono la loro caduta tanto più grave e memorabile. All'inzio dell'opera Macbeth è presentato soprattutto come un guerriero valoroso, un suddito fedele, un uomo altrettanto ricco di potenzialità positive quanto di inclinazioni negative: e di fatto la vittoria del male su di lui avviene faticosamente, con grande travaglio, con grande sofferenza.

Parimenti, Lady Macbeth è personaggio molto più ricco di elementi umani e propriamente femminili di quanto spesso non si noti.  Certo ella agisce da strumento del male, da vera e propria tentatrice, ma per assumere questo ruolo deve esorcizzare quanto c'è in lei di femminile, invocare gli spiriti del male e distruggere le proprie disposizioni. Il conflitto, d'altra parte, è in tutta l'opera; come il male è contrapposto e lotta con il bene, così il cielo è contrapposto all'inferno, la natura (intesa sia come ricchezza umana, vita del cuore, sia come paesaggio) alla non-natura, il paesaggio esterno al castello. Quest'ultima è una delle contrapposizioni fondamentali, di origine medioevale: all'esterno c'è la natura benigna, in cui l'umano e il divino sembrano fondersi, all'interno c'è il male, l'azione negativa, il sangue, il delitto. E ancora, le immagini della sterilità a quelle della fecondità, le immagini della malattia a quelle della salute; gli uccelli della notte a quelli del giorno, le belve agli animali benigni. Tutta l'opera (vero simbolo, in questo senso, dell'arte drammatica) è stupendamente costruita in questo modo, e non in una contrapposizione schematica ma in un'immagine totale che si rifrange in mille immagini particolari, un'unica, complessa, lacerante e lacerata visione che è quella della vita, intesa come terreno su cui le opposte forze si scontrano, si abbattono a vicenda, si mescolano, si confondono, si intersecano l'una con l'altra. Ma se il dramma è lo strumento attraverso il quale viene individuato e rappresentato il conflitto che lacera la vita, esso è anche la scena su cui il drammaturgo opera per tentare di comporre il conflitto, di restituire un qualche ordine al disegno frammentario di una realtà che la crisi epocale, il passaggio dalle certezze del Medioevo al dubbio e alla precarietà dell'Età moderna, ha reso difficile e oscura. Così, se nel "Macbeth" c'è la rappresentazione della sconfitta dell'uomo c'è anche quella di una sua pur fragile possibilità di vittoria. Macbeth è travolto dal male, perde gradualmente ogni attributo umano, giunge alla disperata constatazione che la propria storia è solo "urlo e furore" finché il suo corpo è ridotto a una testa mozza conficcata su un palo. Ma di fronte a questo frammento di corpo c'è Malcolm, il figlio del re ucciso Duncan, il nuovo Principe che tenta di restaurare l'ordine, di recuperare i valori che Macbeth ha distrutto in sé, negli altri, nella società.
Ecco dunque che il "Macbeth", se è un'opera oscura e sanguinosa (il sangue la percorre tutta, nella realtà, nell'immaginazione dei personaggi e nel linguaggio) in cui le forze del male si scatenano con inaudita violenza e il tessuto malefico della natura umana è individuato con angosciosa precisione, appare anche come un dramma in cui proprio questa lucida e sgomenta rappresentazione del male, questa consapevolezza della crisi del mondo, offrono valori costruttivi che saranno precari ma esisteranno. Dalla distruzione del mondo che Macbeth ha operato emergono i lineamenti di un mondo nuovo, senza certezze, da conquistare giorno per giorno, ma che è l'unico mondo possibile all'uomo moderno. La grandezza del "Macbeth" (scritto intorno al 1605-6, e quindi dopo "Amleto" e "Otello" e contemporaneamente al "Re Lear") sta anche nel riconoscimento, come già in Amleto, che l'uomo moderno deve accettare la conflittualità e l'incertezza come condizione del vivere; è in questa accettazione che sta l'elemento di speranza, creativo, positivo, di un'opera così disperata, e così tragica.




Approfondimento: Cioran e Macbeth


Cioran citava spesso Shakespeare; nel bellissimo "L'inconveniente di essere nati", così parlava di  Macbeth:

"Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire Amen."

Anche in "La caduta nel tempo" e nel sublime "Sommario di Decomposizione", riprendeva la riflessione su Macbeth:

"Il suo gesto più infimo sarà preparato, sarà il risultato di una tensione e di una strategia, come se dovesse prendere d'assalto ciascuno istante, non potendo calarvisi naturalmente. Smania e si agita, ora, nella vana speranza di ricostituire quell'essere che lui stesso ha demolito. Come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata; anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze. Esse si risvegliano, e vengono ad ossessionarlo e a turbarlo; e in effetti lo turbano, ma poiché egli non si abbassa al rimorso, contempla il corteo delle sue vittime con un malessere temperato dall'ironia. Che gliene importa ora di queste recriminazioni di fantasmi? Distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all'esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l'odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l'ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale persino l'autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale, nel più profondo delle origini, prima di quella contesa fra la materia e il germe che si prolunga attraverso la serie degli esseri, dall'insetto al più tribolato dei mammiferi.     
Poiché né la vita né la morte eccitano più il suo spirito, egli è meno reale di quelle ombre di cui ha appena subito i rimproveri. Non c'è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello. La sua mancanza di curiosità raggiunge dimensioni tali da confinare con la totale rinuncia con un nulla più denudato di quello di cui i mistici s'inorgogliscono o si lamentano dopo le loro peregrinazioni attraverso il "deserto" della divinità. Nella sua ebetudine, senza incrinature, un solo pensiero ancora lo assilla, un solo interrogativo, stupido risibile, ossessivo: "Che cosa faceva Dio quando non faceva nulla? In che modo riempiva, prima della creazione, i suoi terribili ozi?"
"La beffa ha abbassato al rango di pretesto ogni cosa, tranne il Sole e la Speranza, tranne le due condizioni della vita: l'astro del mondo e l'astro del cuore, l'uno splendente, l'altro invisibile. Uno scheletro che si riscaldasse al sole e che sperasse sarebbe più vigoroso di un Ercole disperato e stanco della luce; un essere totalmente permeabile alla Speranza sarebbe più potente di Dio e più vivo della Vita. Macbeth, "aweary of the sun", è l'ultima delle creature, dato che la vera morte non è la putredine, ma il disgusto per qualsiasi irradiazione, la ripulsa per tutto ciò che è germe, per tutto ciò che sboccia sotto il calore dell'illusione.
L'uomo ha profanato le cose che nascono e muoiono sotto il sole, ma non il sole; le cose che nascono e muoiono nella speranza, ma non la speranza. Non avendo avuto il coraggio di andare oltre, egli ha imposto dei limiti al proprio cinismo. Ma un cinico che si proclami coerente di fatto lo è solo a parole; i suoi gesti lo rendono il più contraddittorio degli esseri: nessuno potrebbe vivere dopo aver decimato le proprie superstizioni. Per arrivare al cinismo totale occorrerebbe uno sforzo inverso a quello della santità, e almeno altrettanto considerevole; oppure immaginare un santo che, giunto all'apice della purificazione, scoprisse la vanità della pena che si è dato - e la ridicolaggine di Dio...
Un simile mostro di chiaroveggenza cambierebbe i dati della vita: avrebbe la forza e l'autorità di mettere in discussione le condizioni stesse della propria esistenza; non rischierebbe più di contraddirsi; nessuna debolezza umana smorzerebbe più il suo ardire; e avendo perduto il rispetto religioso che, nostro malgrado, portiamo alle ultime illusioni, si farebbe gioco del proprio cuore e del sole...