Shakespeare (1): Commento ai personaggi tragici

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A differenza di quanto avviene nel teatro greco, nelle opere del più grande trageda dei tempi moderni, Shakespeare, il seme della tragedia che travolge i protagonisti non viene dalla dura e ineluttabile volontà del Fato, ma germina nascosto in un difetto inerente alla loro personalità: l'eroe shakespeariano è di solito un uomo degno di stima, valoroso, onesto: ma nel profondo della sua anima si annida un difetto, una fatale fonte di errori, che a poco a poco ingigantendo finirà col travolgere il protagonista e quanti gli stanno intorno nel rogo di un orribile dramma.
Libero dalle convenzioni delle "unità" aristoteliche, che avevano ristretto l'azione del dramma antico a svolgersi in un unico luogo, in un'unica giornata e con un succedersi di fatti strettamente concatenati, Shakespeare può narrarci nei suoi drammi, senza bisogno di ricorrere a narrazioni retrospettive, tutta la storia di una vita e di un'anima, dal momento in cui si affaccia libera e lieta alle promesse dell'amore e della gloria, a quella in cui, travolta dal suo errore, sprofonda infine nel silenzio del nulla.
Nell'Amleto, la più grande, forse, e la più misteriosa delle sue tragedie, (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2022/02/i-personaggi-dellamleto-e-il-suicidio.html) il dubbio e l'indecisione del protagonista gli impediscono di rivendicare il trono usurpato e travolgono nella vendetta finale non solo l'usurpatore assassino, ma anche la madre di Amleto, Amleto stesso e la dolce Ofelia, di null'altro colpevole se non di aver amato ingenuamente il principe, il quale, tutto preso dai suoi doveri di vendicatore, l'ha creduta strumento dei suoi nemici, le ha ucciso il padre, e l'ha trattata con un'ira e un disprezzo che la povera fanciulla non è riuscita a comprendere e che le hanno sconvolto la mente.




Nel Macbeth, (*) forse la più cupa delle grandi tragedie, terribile dramma nordico, dove un raggio di serenità e di amore, se non forse il profondo legame coniugale che unisce Macbeth e la sua ferocemente ambiziosa Lady,



scende a illuminare la lunga catena di carneficina e di orrori, è l'ambizione sfrenata che travolge il signore scozzese di delitto in delitto, fino a che non giungono dalla vicina Inghilterra gli eserciti vendicatori. Poco prima che la foresta di Birnam, divelta dai soldati che si nascondono sotto le fronde, degli alberelli recisi, si incammini avverando la profezia delle streghe


su per l'erta di Dunsinane, Lady Macbeth, già da tempo in preda alla follia e divorata dai rimorsi, è morta. Il dolore di Macbeth all'annuncio è il solo raggio di luce che illumini questa cupa figura di tiranno, così come il rimorso che strazia Lady Macbeth nella famosa scena della follia è l'unica nota che renda la figura della donna ambiziosa e assassina oggetto non più di sdegno ma di umana pietà. Perché per Shakespeare ci sono uomini e donne, con il loro tormento e la loro umanità; non malvagi del tutto e vittime del tutto innocenti, come nella maggior parte degli altri tragediografi del Rinascimento inglese, da Marlowe a Kyd, a Otway. Così non c'è malvagio che non abbia nel suo carattere qualche tratto buono, o qualche giustificazione alla sua malvagità e alla sua follia.
Il Macbeth è anche, fra le tragedie, quella in cui compare un elemento che può ricordare, trasformato e avvolto nelle brume nordiche, la presenza del Fato del teatro greco: le streghe, che con le loro ingannevoli profezie, spingono Macbeth sulla via dell'ambizione e del delitto.
Ma, paradossalmente, le streghe costituiscono anche l'unico intermezzo comico della tragedia: il loro incontro nel vento, la loro danza intorno al calderone dell'incantesimo, con la sua raccapricciante ricetta, enunciata con i toni di un Artusi stregonesco e con il ritmo di un'allegra giga, strappano volutamente il sorriso. Queste streghe fatali non sono, per Shakespeare, uomo del Rinascimento, prodotto altissimo dell'Umanesimo, che bizzarre caricature di vecchie comari.









L'ambizione ha travolto Macbeth, l'indecisione ha impedito il trionfo di Amleto, la credulità e la gelosia indurranno Otello a distruggere ciò che più ama al mondo, la follia senile porterà Re Lear all'estrema infelicità e condurrà alla morte della candida e generosa Cordelia.
Qual'è dunque il difetto, il tarlo interiore che porta alla morte Giulietta e Romeo, gli infelici amanti di Verona,


questi due ragazzi così dolcemente innamorati, così gioiosi e limpidi nell'entusiasmante scoperta dell'amore?
Shakespeare non è mai uguale a se stesso: la sua conoscenza dell'animo umano, il suo amore e la sua comprensione per l'umanità e l'altezza della sua fantasia gli vietano di attenersi a una formula, di rimanere fisso, da una tragedia all'altra, nello stesso concetto filosofico. Giulietta e Romeo non hanno colpe, non ispirano che tenerezza e pietà. Il loro trepido amore si ammanta di altissima poesia, dei versi più lirici e sognanti che mai abbiano cantato e descritto una passione umana. Giulietta e Romeo non sono vittime delle proprie colpe, ma di quelle degli adulti, ostinati a condurre un'irragionevole lotta faziosa.
Nella galleria dei personaggi shakespeariani, gli amanti infelici di Verona non appartengono al rango dei grandi eroi tragici, ma piuttosto a quello dolente e soave delle vittime degli errori e delle follie altrui: Desdemona disprezzata e uccisa dal marito che ama, Ofelia, spinta dalla sventura e dalla follia al suicidio, Cordelia che perisce nel tentativo di soccorrere quel padre che l'aveva respinta, il buon re Duncan ucciso da quel Macbeth che aveva appena insignito di un'alta dignità.

(*) Nota di Lunaria: Cioran citava spesso Shakespeare; nel bellissimo "L'inconveniente di essere nati", così parlava di  Macbeth:

"Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire Amen."
Anche in "La caduta nel tempo" e nel sublime "Sommario di Decomposizione", riprendeva la riflessione su Macbeth:
"Il suo gesto più infimo sarà preparato, sarà il risultato di una tensione e di una strategia, come se dovesse prendere d'assalto ciascuno istante, non potendo calarvisi naturalmente. Smania e si agita, ora, nella vana speranza di ricostituire quell'essere che lui stesso ha demolito. Come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata; anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze. Esse si risvegliano, e vengono ad ossessionarlo e a turbarlo; e in effetti lo turbano, ma poiché egli non si abbassa al rimorso, contempla il corteo delle sue vittime con un malessere temperato dall'ironia. Che gliene importa ora di queste recriminazioni di fantasmi? Distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all'esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l'odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l'ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale persino l'autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale, nel più profondo delle origini, prima di quella contesa fra la materia e il germe che si prolunga attraverso la serie degli esseri, dall'insetto al più tribolato dei mammiferi.     
Poiché né la vita né la morte eccitano più il suo spirito, egli è meno reale di quelle ombre di cui ha appena subito i rimproveri. Non c'è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello. La sua mancanza di curiosità raggiunge dimensioni tali da confinare con la totale rinuncia con un nulla più denudato di quello di cui i mistici s'inorgogliscono o si lamentano dopo le loro peregrinazioni attraverso il "deserto" della divinità. Nella sua ebetudine, senza incrinature, un solo pensiero ancora lo assilla, un solo interrogativo, stupido risibile, ossessivo: "Che cosa faceva Dio quando non faceva nulla? In che modo riempiva, prima della creazione, i suoi terribili ozi?"
"La beffa ha abbassato al rango di pretesto ogni cosa, tranne il Sole e la Speranza, tranne le due condizioni della vita: l'astro del mondo e l'astro del cuore, l'uno splendente, l'altro invisibile. Uno scheletro che si riscaldasse al sole e che sperasse sarebbe più vigoroso di un Ercole disperato e stanco della luce; un essere totalmente permeabile alla Speranza sarebbe più potente di Dio e più vivo della Vita. Macbeth, "aweary of the sun", è l'ultima delle creature, dato che la vera morte non è la putredine, ma il disgusto per qualsiasi irradiazione, la ripulsa per tutto ciò che è germe, per tutto ciò che sboccia sotto il calore dell'illusione.
L'uomo ha profanato le cose che nascono e muoiono sotto il sole, ma non il sole; le cose che nascono e muoiono nella speranza, ma non la speranza. Non avendo avuto il coraggio di andare oltre, egli ha imposto dei limiti al proprio cinismo. Ma un cinico che si proclami coerente di fatto lo è solo a parole; i suoi gesti lo rendono il più contraddittorio degli esseri: nessuno potrebbe vivere dopo aver decimato le proprie superstizioni. Per arrivare al cinismo totale occorrerebbe uno sforzo inverso a quello della santità, e almeno altrettanto considerevole; oppure immaginare un santo che, giunto all'apice della purificazione, scoprisse la vanità della pena che si è dato - e la ridicolaggine di Dio...
Un simile mostro di chiaroveggenza cambierebbe i dati della vita: avrebbe la forza e l'autorità di mettere in discussione le condizioni stesse della propria esistenza; non rischierebbe più di contraddirsi; nessuna debolezza umana smorzerebbe più il suo ardire; e avendo perduto il rispetto religioso che, nostro malgrado, portiamo alle ultime illusioni, si farebbe gioco del proprio cuore e del sole..."

Nota di Lunaria: una delle copertine Gothic Metal più belle è proprio quella del debutto dei Macbeth,  "Romantic Tragedy's Crescendo"



peccato che poi la band sia diventata sempre più commerciale rinnegando il sound delle origini!!!


"Il coinvolgimento nella tirannia del Macbeth" 

"Per un'inevitabile concatenazione di eventi Macbeth, che ha esordito come uomo coraggioso e niente affatto cattivo, finisce per essere la tipica figura del tiranno oppresso dal terrore, odiato e temuto da tutti, circondato da spie, assassini e sicofanti, che vive nell'incubo del tradimento e della ribellione. In effetti è una specie di primitiva versione medioevale del moderno dittatore fascista." (Orwell)

Ci si potrebbe attendere che a questa asserzione seguano messaggi di lotta e appelli alla resistenza contro i totalitarismi. Ma Orwell non si sofferma sulla dimensione eroica, tutt'altro:
"Eppure - e questa è la massima conquista psicologica del dramma - Macbeth resta sempre, riconoscibilmente, lo stesso uomo, adopera lo stesso tipo di linguaggio, è spinto di delitto in delitto non da una sua originaria crudeltà ma da ciò che gli appare come una necessità ineludibile. In "Macbeth" il tema è semplicemente l'ambizione."
Insomma, Macbeth sarebbe sì "la storia di Hitler e Napoleone", ma anche la storia di "un qualunque impiegato di banca che falsifichi un assegno", illudendosi che l'infrazione possa rimanere un episodio circoscritto e che la sua vita s'incanali poi in  un corso di rispettabilità. Orwell pensa che, rispetto a quanto avviene in altre tragedie shakespeariane, "la principale attrattiva di questa storia sia la sua essenziale ordinarietà (...) la situazione di Macbeth è più vicina alla vita quotidiana" (anche se la maggior parte di noi non commette omicidi). Per ribadire questo quadro di normalità, Orwell si spinge a sostenere che l'introduzione della magia e della stregoneria non sono essenziali, dato che, come in una tragedia greca, lo spettatore è in grado di prevedere da sé l'esito della vicenda. Anziché parlare di stregoneria, un autore moderno parlerebbe dell'inconscio di Macbeth.

Nota di Lunaria: qui http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/08/shakespeare-10-il-simbolismo-esoterico.html dimostro che le Tre Streghe sono essenziali, all'opera!

"Macbeth è l'unico dei drammi di Shakespeare in cui il cattivo e l'eroe sono lo stesso personaggio. Mentre Otello o Lear, uomini buoni, erano sottoposti ai rovesci della fortuna, in Macbeth il delitto e la caduta sono una cosa sola: un uomo che non possiamo avvertire come del tutto malvagio compie azioni malvagie"
L'apporto di Orwell consiste nell'indicare una fruizione della tragedia basata sul coinvolgimento, sulla presa d'atto della facilità con cui, nel contesto della vita di ogni giorno, ciascuno di noi è soggetto a invischiarsi nel Male diventando così un potenziale Macbeth.


Una selezione dei miei versi preferiti

"Vieni densa Notte e avvolgiti nel più scuro fumo d'Inferno affinché il mio coltello acuminato non veda la ferita che fa, né il cielo attraverso la coltre del buio s'affacci per gridare "Ferma!Ferma!"

"è un pugnale questo che vedo, con l'elsa offerta alla mia mano?
Ti vedo e adesso lama ed elsa si irrorano di sangue.
è il fantasma della mia azione di sangue.
Terra solida e ferma, ignora i passi miei dove vanno;
che le tue pietre tacciono il mio cammino e non turbino il necessario orribile silenzio di qust'ora."

SEYTON - "È morta la regina, monsignore."    

MACBETH - "Doveva pur morire, presto o tardi; 
il momento doveva pur venire 
di udir questa parola...
Domani, e poi domani, e poi domani,
il tempo striscia, un giorno dopo l'altro,
a passetti, fino all'estrema sillaba
del discorso assegnato; e i nostri ieri
saran tutti serviti 
a rischiarar la via verso la morte
a dei pazzi. Breve candela, spegniti!
La vita è solo un'ombra che cammina,
un povero attorello sussiegoso
che si dimena sopra un palcoscenico
per il tempo assegnato alla sua parte,
e poi di lui nessuno udrà più nulla:
è un racconto narrato da un idiota,
pieno di grida, strepiti, furori,
del tutto privi di significato!"

"La vita non è che un'ombra
che cammina, un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora
sulla scena e del quale poi
non si ode più nulla: è una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore
e furia, che non significa nulla"

"Ora i tizzi consunti rosseggiano e la civetta col suo stridulo grido ricorda all'infelice sofferente il freddo abbraccio del sudario.
è l'ora della notte, in cui ogni tomba spalancata, lascia vagare gli spettri lungo i sentieri bui del cimitero..." ("Sogno di una notte di mezza estate")

"Che il tempo infaticabile conduce l'estate nell'inverno orrido e ve l'affonda linfa stretta dal gelo, vive foglie perdute, beltà  sommersa in neve e squallore dovunque, se allor e non rimanesse l'essenza dell'estate, liquida prigioniera chiusa in mura di vetro..."

"Contempla in me quell'epoca dell'anno quando le foglie ingiallite, poche o nessuna, pendono da quei rami tremanti contro il freddo, nudi cori in rovina ove dolci cantaron gli uccelli.
Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno, quale dopo il tramonto svanisce all'occidente, subito avvolto dalla notte nera, gemella della Morte che tutto sigilla nel riposo.
Tu vedi in me il languire di quel fuoco che aleggia sulle ceneri della propria giovinezza, come sul letto di morte su cui dovrà  spirare, consunto da ciò che già fu suo alimento."

"Di qui il tuo nome trarrà vita immortale anche s'io debba, morto, non lasciar più ricordo, la terra a me darà sol la fossa comune mentre tu avrai tomba degli uomini negli occhi.
Tuo sepolcro saranno i miei versi soavi, che occhi non ancor nati leggeranno...
Così tu nutrirai di Morte, che d'uomini si nutre e morta Morte più non accadrà di morire...."


Commento ad Amleto

Amleto è senza dubbio il più moderno tra i personaggi di Shakespeare. Tutti i suoi personaggi sono moderni, nel senso che appartengono a tutti i tempi: l'impronta del genio li ha resi immortali. Ma Amleto lo è specificamente: tutti i conflitti psicologici dell'epoca attuale si rispecchiano in lui. Come l'Ottocento prediligeva Otello, con il suo rammarico contrasto tra luce e tenebre, tra lealtà e tradimento, tra il nero e la bianca, così il nostro secolo si riconosce in Amleto. è il primo personaggio teatrale a proposito del quale si possa parlare di incomunicabilità nel senso moderno dell'espressione. L'incomunicabilità lo circonda come un muro: lo rende estraneo agli altri, ai suoi simili, alla donna che lo ama, e del pari estraneo anche a se stesso, come se il suo vero Io fosse fuggito in qualche remota e inaccessibile regione dell'essere. Amleto ha l'aria di un uomo che vi parla dall'altra riva del fiume. Si sente in lui il prodotto di un mondo in crisi: nel crearlo Shakespeare sembra abbia risentito della diffusa tetraggine di quella "fine del secolo" che era anche la fine del regno di Elisabetta. Amleto, principe studente, riflette i conflitti, le frustrazioni, le velleità e l'ironia dei giovani in età crepuscolare che ritrovavano in Amleto una specie di fratello maggiore, con le stesse idiosincrasie - a proposito della vanità della vita, della futilità, dell'azione eroica, del carattere mortificante di ogni esperienza carnale, con la discussione presto trasformata in soliloquio. Dal fosco dramma pre-esistente a Shakespeare, che l'Autore utilizza a grandi linee, sullo sfondo cupo e truculento fa apparire un eroe che, nel carattere, è tutto nuovo e tutto suo: un eroe che è l'antieroe per eccellenza, quasi un simbolo del malessere esistenziale, quel disagio complesso che prova l'anima a contatto con la vita. La sua vendetta sulla madre adultera e sul nuovo consorte in nome del padre assassinato apparve agli inizi in Eschilo. Ma Amleto non ha nulla in comune con Oreste, se non le circostanze esteriori: essere orfano di un uomo ucciso a tradimento, vedere i suoi assassini sul trono sapendo che uno di essi è la propria madre. Sia Amleto sia Oreste aspirano alla giustizia; ma se Oreste è sicuro di poterla avere, Amleto no. Mentre Oreste non ha dubbi, Amleto porta sulle scene teatrali un elemento nuovo: il dubbio, come atteggiamento dello spirito.



Su Ofelia, vedi questa poesia di Rimbaud, tratta da questa antologia




I

Sul fiume calmo e nero dove dormono i cieli
stellati, ondeggia Ofelia pallida, giglio d'onda;
ondeggia lentamente, presa nei lunghi veli,
giunge un suono di corni dalla selva profonda.

Sono più di mille anni che per l'equorea via
passa la triste Ofelia, bianca sull'onda nera:
sono più di mill'anni che la dolce follia
le sue romanze mormora al vento della sera.

Le bacia il vento i seni e dispiega in corolle
i veli amplii cullati dalla tenue corrente;
un brividìo di salici piange sopra la folle,
chino è sull'ampia fronte il canneto stormente.

Qualche ninfea d'intorno i suoi sospiri esala,
ella ridesta a volte nell'assopito ontano
i nidi, onde si levano lievi palpiti d'ala.
Su lei dagli astri d'oro discende un canto arcano.


II

Pallida e dolce Ofelia, bella come la neve,
ti prese in sua rapina un fiume violento.
Dai monti di Norvegia scese a te, piuma lieve,
a parlarti dell'aspra libertà, forse, il vento.

Un vento, un soffio ignoto, la tua capigliatura
sferzò, ti recò strani brusii, cuore sognante,
cui parlò l'ineffabile voce della Natura
con sospiri notturni, con gemiti di piante.

La voce aspra dei mari, un rantolo di fiere,
infranse il troppo umano tuo seno di fanciulla.
Un mattino d'aprile, un pazzo, un cavaliere
pallido, ai tuoi ginocchi stette senza dir nulla.

Tu ti fondesti a lui come la neve al sole.
Libertà... Cielo.... Amore.... mutevole sussurro
mendace. Il tuo bel sogno ti strozzò le parole,
e l'orrendo infinito ti sbarrò l'occhio azzurro.


III

Dice il poeta: i fiori che tu, bimba, coglievi
vieni a cercare a lume di stelle, a notte fonda;
egli ha visto sull'acque, adagiata su lievi
veli, ondeggiare Ofelia pallida, giglio d'onda.
























ALCUNE IMMAGINI DEDICATE AD AMLETO