Recensione a "Dark Heaven: la carezza dell'angelo"


Trama: è una gelida sera di febbraio a Venezia quando Virginia, 18 anni e i capelli rossi, incontra Damien De Silva. è tardi, le strade sono deserte e lei sta tornando a casa dall'allenamento di pallavolo... all'improvviso, dal buio, spunta un uomo, bellissimo e misterioso. Decisa a non incrociare lo sguardo, Virginia gli scivola accanto con gli occhi bassi. Ma proprio in quel momento sente due parole nella mente: sono tornato. Chi è quell'uomo e cosa sta succedendo?  Il giorno seguente, lo sconosciuto si presenta nella scuola di Virginia come "nuovo professore di italiano", affascinando tutte le ragazze della scuola.  E a Virginia cominciano a capitare strane cose, visioni che le annebbiano la mente... come se lei e Damien si fossero già conosciuti in un'altra vita... Ma chi è davvero Damien? Ci si può fidare di lui?

Commento di Lunaria: "Dark Heaven - La carezza dell'angelo" di Bianca Leoni Capello (*) fa parte di una trilogia


ascrivibile al genere Urban Fantasy. Nonostante in questo particolare settore letterario ormai non ci sia più nessuna originalità e sia piuttosto inflazionato, tanto da rischiare un'"implosione" (personaggi e trame sono intercambiabili, basati sempre sugli stessi clichè svuotati da qualsiasi valenza horror, pur riprendendo le creature tipiche della letteratura del macabro) e "Dark Heaven" riecheggi degli inevitabili riferimenti a "Twilight\Fallen" (una giovane ragazza, angeli, demoni, eventi del passato che si rivelano come flashback, reincarnazione...), non è scritto male e si lascia leggere con piacere. I personaggi sono ben delineati, non c'è nessun "impaludamento" che inficia la lettura, gli elementi inquietanti sono disseminati egregiamente e riesce ad intrigare quel tanto che basta per voler leggere gli altri due libri, dove si darà più spazio all'aspetto paranormale della vicenda.
Il personaggio maschile è "costruito a puntino" per piacere alle lettrici, la protagonista condensa in sé aspettative, desideri e pensieri femminili che sono tipici di tutte le donne (teen ager, ma anche no...), per cui le due autrici hanno ideato e scritto un libro che sicuramente piacerà a tutte le appassionate del genere (a patto che non siano fanatiche e non trovino fastidiose le "citazioni" prese da "Twilight\Fallen", che questo romanzo, come tanti altri, si porta appresso, inevitabilmente).



I detrattori critici faranno notare che questo tipo di romanzi "sono tutti uguali", ma di per sé la ripetizione del solito canovaccio, se è narrata con maestria, può anche starci, in fin dei conti libri come questo servono ad intrattenere emozionando, e assolvono egregiamente lo scopo per il quale sono pensati.

Rispetto ad altri libri del genere, "Dark Heaven" cita anche qualche riferimento letterario illustre (il" Faust", Thomas S. Eliot, Lucrezio... anche se un autore come Milton sarebbe stato più appropriato per una vicenda che parla di angeli e demoni...) e il ritmo narrativo è ben orchestrato (la vicenda riporta due punti di vista sullo svolgersi degli eventi: quello di Virginia e quello di Damien) anche se l'uso del presente (la vicenda è narrata "in presa diretta") a lungo andare può "sfasare" un po' (soprattutto perché è più frequente usare il passato, quando si racconta qualcosa). Devo dire che "Dark Heaven" mi è piaciuto di più, rispetto ad altri libri più "spaparazzati in giro" (mi viene in mente il mediocre "Black Moon: i peccati del vampiro" o il pessimo "Danze dall'inferno")



ma anche rispetto allo stesso "Fallen" (mastodontica saga https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/i-fotogrammi-piu-belli-di-fallen.html in quattro volumi che si poteva ridurre, come storia, ad appena uno o due libri e che presentava parecchi "impaludamenti" che servivano ad infiacchire il ritmo "ingrassando" la vicenda con particolari e disgressioni del tutto inutili e ridondanti,



difetto che peraltro hanno anche Stephen King e Clive Barker; chi ha letto "Imagica" o "Gioco dannato" concorderà con me...)



Per cui sì, paradossalmente "Dark Heaven" l'ho preferito a "Fallen", pur essendo a tutti gli effetti un "epigono" di questi, perché narrato con più maestria e senza "impaludamenti soporiferi". Penso proprio che leggerò anche gli altri due libri che compongono la saga.

(*) pseudonimo di due autrici: Flavia Pecorari e Lorenza Stroppa

Gli stralci più belli: "[...] l'uomo infatti indossa un normale impermeabile scuro le cui lunghe falde danzano nell'aria, mosse dal vento. Distolgo lo sguardo, turbata. Lo sconosciuto, però, continua a fissarmi, e si dirige verso di me. Il mio cuore perde un battito. I suoi occhi, ora che sono più vicina, sono braci ardenti che brillano nella notte [...] è bello da togliere il fiato, ma i lineamenti sono duri, sembrano scolpiti nella pietra. Gli passo accanto velocemente, trattenendo il respiro. Quando lo supero, qualcosa di freddo e pungente si insinua nei miei pensieri: due parole semplici e terrificanti. Sono tornato."
"[...] Un'ultima cosa, dice, poi, abbassando la voce, aggiunge: Ignoratur enim quae sit natura animai, nata sit an contra nascentibus insinuetur...". Mentre recita queste parole, che hanno il suono di un altro tempo e di un altro luogo, vengo catturata dal nero dei suoi occhi, due abissi che mi trascinano lontano. Mi sento risucchiata in un vortice che mi avvolge e cancella ogni traccia di razionalità mentre dico "Et simul intereat nobiscum morte dirempta an tenebras Orci visat vastasque lacunas" (1)
"Si avvicina e mi fissa le labbra con intensità. Ho l'impressione che voglia baciarmi. Vorrei allontanarmi, ma al tempo stesso sento crescere in me un desiderio fortissimo, un'attrazione che fatico a tenere a bada. Ci separano pochi centimetri, i nostri respiri si confondono... Lui mi prende il volto tra le mani e mi guarda negli occhi. Siamo così vicini che, nonostante il buio, riesco a vedere la lieve differenza di tono tra l'iride e la pupilla: "Quando capirai di essere sempre stata mia?", sussurra."
"Cosa sei, Damien? Cosa sei esattamente?", gli chiedo tremando. "Vuoi davvero saperlo?" "Sì". Tace per un attimo, combattuto. Poi mi risponde e la sua voce è quasi un ringhio, profondo, spaventoso. "Io sono il male, Virginia." All'improvviso si alza il vento, scompigliandogli i capelli sulla fronte e facendo alzare le ali del suo impermeabile. è spaventosamente bello, mentre si allontana sotto la luce fioca del lampione. Sembra un angelo venuto dall'Inferno."
"[...] Il prezzo da pagare per poterti stare vicino è alto: devo compiere azioni spietate che vanno contro la mia natura e contro la mia coscienza [...] L'unica sicurezza che ho è che il mio amore non è stato contaminato da queste tenebre, ma se non te la senti di starmi vicino, di conoscere il mio lato oscuro, ti capirò."
"[...] Finalmente comprendo la vera natura di Damien [...] scuoto la testa, cercando di cancellare il ricordo dei suoi baci e pensando ai suoi occhi gelidi, spaventosi, quegli occhi che mi hanno terrorizzata fin dal primo istante, che mi hanno fatta sentire sull'orlo del precipizio."

(1) S'ignora infatti quale sia la natura dell'anima, se sia nata o al contrario s'introduca nei nascenti, se perisca insieme a noi dissolta dalla morte o visiti le tenebre dell'Orco e gli immani abissi

Sullo stesso tema vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/12/recensione-angel.html



Verga e la Scapigliatura

Tratto da



Nota: per un commento critico al Verga verista, vedi: http://intervistemetal.blogspot.com/2018/07/giovanni-verga-1-i-romanzi-e-vita-dei.html
Per la Scapigliatura, vedi anche:
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/06/la-scapigliatura.html
http://armida.unimi.it/bitstream/2170/950/1/Racconti-della-Scapigliatura-milanese.armida.pdf
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/08/introduzione-alla-narrativa-italiana.html
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/06/introduzione-al-racconto-fantastico.html
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/01/boito-e-camerana.html

Un decennio dopo le prime prove letterarie, Verga si trova a Milano, che viveva il pieno della sua stagione scapigliata. L'Arrighi ne aveva anticipato  già nel 1858, la fisionomia bivalente: "Da un lato, il profilo più italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta il lato  simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza,  propagatrice delle brillanti utopie, focolare di tutte le idee generose...  D'altro lato, invece, un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le  impronte delle notti passate nello stravizio e nel giuoco, su cui si adombra  il segreto d'un dolore infinito... i sogni tentatori di una felicità  inarrivabile e le lagrime di sangue e le tremende sfiducie e la finale  disperazione."

Concetti che ribadirà anche Arrigo Boito in una lirica intitolata "Dualismo":  "Son luce ed ombra; angelica farfalla e verme immondo"

Ma chi erano e cosa volevano gli scapigliati?

Per la cronaca mondana erano dei bohémiens, dei poeti maledetti con estremi goliardici e tragici.
Maestro riconosciuto e venerato dalla compagnia era Rovani: se per gli amici  il suo romanzo ("Cento anni") stava almeno alla pari dei "Promessi sposi", la  sua propensione all'assenzio, le stravaganze e le provocazioni scandalistiche erano diventate ben presto per loro un obbligatorio modello di vita.
Nonostante le sbornie e le carnevalate, l'alta società accolse gli  scapigliati nei suoi salotti più privilegiati, nei caffé alla moda, specialmente al Savini, per quanto loro preferissero le osterie di Porta  Ticinese.
Alcuni, Praga e Tarchetti sopra tutti, spinsero il loro rifiuto del mondo contemporaneo a scelte di vita allucinate e macabre, culminante in una  morte-suicidio per alcoolismo o etisia. (Nota di Lunaria: vedi  https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/la-bellezza-la-malattia-e-la-morte-in.html  e  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/12/la-bellezza-dellorrido-nel-romanticismo.html )
Verga conobbe e frequentò la Scapigliatura milanese ma il modello che quella avanguardia imponeva era improponibile ad un convinto borghese siciliano come era lui. La sua lontananza si misura anche nella pietà del ricordo funebre di Emilio Praga, poche parole in una lettera all'amico Cameroni: "povero Praga!... mi pare ancora di vederlo con quel viso disfatto e quell'occhio intelligente perduto nell'ebrezza che stringeva il cuore!"

Più vicino al cuore di Verga invece è Arrigo Boito, il più accademico, anche nel Satanismo, (*) e il più longevo del gruppo. La fisionomia letteraria degli scapigliati è riducibile a precise tematiche comuni. Prima di tutto sono "anti": antiborghesi, antimanzoniani, anticarducciani. Soprattutto ce l'hanno col Manzoni: non sono tanto contro lo scrittore e la sua lezione di stile, ma contro il mito manzoniano e i suoi epigoni. "Odio il mestiere d'imitar Manzoni" scriveva Praga; e ancora nel "Preludio a Penombre": "Casto poeta che l'Italia adora, vegliardo in sante visioni assorto. Tu puoi morir! Degli antecristi è l'ora. Cristo è rimorto"
Anticarducciani, in quanto non accettavano il trionfalismo risorgimentale, la sanità classica, la lezione culturale del grande Carducci. Tra i prosatori scapigliati spiccano Igino Ugo Tarchetti e Carlo Dossi. Gli scritti del Tarchetti, disuguali, talvota incompiuti, propongono una sensibilità eccezionale, torbida, necrofila, con squarci lirici anelanti a purezza e bontà. "Una nobile follia" narra la crisi di un giovane combattente in Crimea, la sua delusione per la vita militare; infine la sua morte, che è sacrificio (e alibi). Il romanzo scandalizzò i benpensanti: più di una caserma fu data alle fiamme. Tarchetti se la cavò con un paio di duelli. Per lui, bellissimo, trepidarono le dame milanesi (e trepidano ancora. Se ci fosse la possibilità di resuscitarlo... Nota di Lunaria)
"Storia di una gamba" narra la cancrena di un arto che si trasmette al resto del corpo. "Fosca", romanzo incompiuto (1869), storia di una donna malata e ripugnante che conquista e plagia il bellissimo ufficiale Giorgio, innamorato di Clara, donna bella e sana, ma traditrice.
Al Verga lettore questi romanzi si presentavano come un'orgia, un sabba di fantasie malate e offendevano soprattutto la sua misura, il suo senso del vero.

(*) Nota di Lunaria: Si tenga presente che il Satanismo letterario ottocentesco (anticipato dal Titanismo) era basato sugli ideali di libertà romantici-patriottici (liberazione dal dominio straniero) o in funzione anticlericale per esaltare la scienza e il progresso contro l'oscurantismo della chiesa. Vedi Lucifero "Portatore di Luce con la fiaccola della Ragione", allegoria che esemplifica al meglio tutto questo, perché "ribelle al dio padre, il tiranno celeste", che nell'ottica degli anticlericali ottocenteschi, rappresentava l'autorità repressiva e il potere della chiesa o dello Stato.
Per un approfondimento, vedi: https://intervistemetal.blogspot.com/2017/11/milton-satana-e-il-black-metal.html


Jonathan Latimer e Poe


Jonathan Latimer è nato a Chicago. Come altri famosi esponenti del "periodo americano" (Burnett, Lardner, ecc.) anche Latimer cominciò la sua carriera nel giornalismo sportivo. La scrittura spigliata e l'amore per i colpi di scena vengono appunto da questa scuola. Latimer ha scritto anche "Red gardenians" e "Dark memory" ma "La dama della morgue", che ha ispirato un film del 1937, rimane il suo capolavoro.

La civiltà americana ha un fondo mortuario e per tutta la letteratura americana corre un filone di mal dissimulata e genuina necrofilia. Anche se le origini di questa macabra inclinazione possono essere rintracciate nela poesia cimiteriale di certi autori inglesi preromantici tra il Sette e l'Ottocento come Young, Gray, Parnell, gli americani vi aggiunsero fin da principio una nota originale e profonda, priva affatto di retorica e di convenzionalità letteraria.
In Poe, principe dei vati sepolcrali, che fu l'iniziatore per non dire lo scopritore della necrofilia americana, l'elegia funeralesca del tipo tradizionale cede il luogo ad un concretissimo terrore o gusto o addirittura amore del cadavere umano.
Siamo ben lontani dal Foscolo dei "Sepolcri" cui la morte assume semmai le sembianze meste e pure che le attribuivano i greci e non è in fondo che un pretesto per esaltare eroicamente la vita.
In Poe la morte è presente con i suoi attributi fisici più materiali: freddezza, rigidezza, immobilità, putrefazione, fetore. I personaggi di Poe sono tutti necrofili e tanatofobi, patiscono tutti di claustrofobia e nello stesso tempo dimostrano una marcata tendenza a visitare cimiteri e sepolcreti e a rinchiudere persone vive o persone morte in tombe o loculi o cripte.
Poe è sicuramente uno dei migliori scrittori americani. A lui si deve, oltre la scoperta di tutto un mondo di sentimenti e di sensazioni legati alla morte fisica, anche la creazione di un genere minore per eccellenza americano, i cui rapporti con la morte sono indubbi: il romanzo poliziesco.
Con le tre novelle famose del poliziotto dilettante Dupin, Poe diede per primo l'avvio ad un prodotto che, pur senza mai più toccare le altezze poetiche dei modelli, doveva diventare rapidamente popolare ed esemplificarsi in milioni di variazioni di quel solo e immobile tema.
Dopo Poe il romanzo poliziesco rimase fedele alla formula primitiva così geniale: una mescolanza di terrore macabro e di raziocinio geometrico. In questa formula scaturita dal cervello del primo genio autoctono d'America, si potrebbe riconoscere il blasone della civiltà americana quale la conosciamo oggi. Una civiltà divisa tra la vita ridotta a pura organizzazione e razionalità e la morte intesa come putrefazione e detrito.


Su Poe, vedi:
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2018/01/poe-e-la-morte-di-virginia.html
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/05/edgar-poe-le-poesie-piu-belle.html
https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/05/commento-ad-edgar-poe-per-la-poesia-il.html


Il Castello del Sangue


IL CASTELLO DEL SANGUE: da una versione inglese di Barbablu, anche questa citata da Shakespeare in "Molto rumore per nulla", intitolata in Jacobs "Mister Fox". Il tema di Barbablu è quello di una donna che sfugge a un demone in un'ennesima variante del ratto di Persefone, dove Persefone, salvo nella versione "borghese e maschilista" di Perrault, si libera da sola.


Era giovane, bella e ardita; non vi era timore in lei né tristezza né esitazione. Molti uomini la amavano, molti uomini le avevano offerto il loro cuore; ma il cuore di lei non aveva risposto a nessuna parola, a nessuno sguardo, a nessun bacio rubato sotto gli alberi del giardino nelle sere di primavera, e Iosbail, fiera della sua bellezza e lieta della della sua gioventù, viveva nella casa del padre, con la compagnia dei due fratelli.
Un pomeriggio d'autunno era a caccia con loro, ma nell'entusiasmo dell'inseguimento si era allontanata dagli altri, e ora cavalcava, dimentica della caccia, gioiosamente sferzata dal vento della corsa, in sella al cavallo grigio che balzava agilmente su siepi e cespugli, palizzate e ruscelli.
L'acqua e la terra sembravano zampillare dagli zoccoli del cavallo; il prato ondulato, interrotto a tratti da macchie di alberi e cespugli fioriti, si stendeva innanzi a lei, e Iosbail, nella gloria dei colori dell'autunno, bella e fiera nella veste scarlatta, galoppava sui prati e tra gli alberi.
Oltre un folto di alberi il prato scendeva bruscamente alle rive del fiume, in un pendio percorso da dorati cespugli di ginestre. Il cavallo scese il pendio senza esitazione; la bella donna rideva felice, e il vento della corsa le strappò il cappello scarlatto scagliandolo ai piedi del pendio, sulle rive del fiume, le sciolse i capelli che si gonfiarono sulle spalle in una fulva onda tempestosa.
Scorgendo le acque profonde del fiume, il cavallo si impennò, e Iosbail, accarezzandogli il collo madido per acquetarlo, scese agilmente a terra.
Un uomo era davanti a lei, sulle rive del fiume, un uomo giovane dagli occhi chiari; aveva tra le mani il suo cappello scarlatto e glielo porse piegando a terra il ginocchio. "Sei bella come una regina", disse, "e come a una regina mi inchino alla tua bellezza"
Quanti uomini avevano rivolto parole non meno appassionate alla bella Iosbail? Quanti l'avevano guardata con occhi nei quali l'ammirazione non era meno profonda? Pure, il cuore di lei non aveva mai risposto alle parole, agli sguardi, ai baci rubati sotto gli alberi del giardino, nelle sere di primavera, ora si destò alle parole e allo sguardo del cavaliere sconosciuto.
Il suo nome era Gorad, e veniva da terre lontane. Era giovane, era coraggioso alla caccia, ricco e cortese nei modi, e Iosbail lo amava. Il padre di lei acconsentì alle nozze che vennero fissate per gli ultimi giorni d'autunno, prima che le nevi invernali ostacolassero il cammino del corteo nuziale.
Gorad era solito parlare del castello che possedeva, in cui avrebbe condotto la giovane moglie, in cui avrebbero vissuto e si sarebbero amati, ma prima delle nozze non volle mostrarglielo, né pregò il padre o i fratelli di lei di recarvisi.
E Iosbail, bella, ardita e curiosa, risolse di visitare il castello dove il suo bel cavaliere l'avrebbe condotta dopo le nozze.
Un giorno in cui i fratelli e il padre erano a caccia, Iosbail si incamminò dunque in cerca del castello del suo bel cavaliere. Questi gliene aveva spesso parlato e ne aveva magnificato la ricchezza, così che Iosbail non dubitava di saperlo riconoscere. La strada per giungervi, le aveva detto, correva lungo il fiumo sulle cui rive si erano incontrati e amati.
Iosbail scese alle rive cavalcando il cavallo grigio, e lo guidò sul sentiero che correva lungo l'impetuoso corso del fiume.
Il giorno era luminoso, e una nebbia dorata saliva dai prati e si distendeva tra gli alberi.
Iosbail cavalcava da tempo senza scorgere alcun castello presso di sé o lontano all'orizzonte, né strade che vi conducessero.
Il cavallo appariva stanco, il corso del fiume diveniva sempre più impetuoso, la nebbia pareva avanzare al suo fianco e farsi sempre più impenetrabile. Ma, se Iosbail si volgeva a misurare la strada percorsa, vedeva le rive del fiume limpide e dorate e la natura risplendere nella gloria dell'autunno.
Innanzi a lei il sentiero era grigio e deserto, i colori dell'autunno offuscati dall'ombra impenetrabile della nebbia. Il fiume pareva tuttavia serbare vita in quell'immobile paesaggio di morte: le acque ribollivano, frangendosi contro sassi aguzzi, contro pietre dalle forme ignote; le acque ribollivano, e, sebbene non vi fossero raggi di sole né foglie accese dal fulgore dell'autunno a riflettervisi, ribollivano cupe e rossastre.
Un banco di nebbia scaturì innanzi a lei; il cavallo, il grigio che la seguiva nelle più ardite imprese, si impennò rifiutando di proseguire e né la frusta né le carezze valsero a nulla. Iosbail smontò, e legò il grigio a un albero, risoluta a proseguire a piedi; non conosceva né esitazione e a proteggersi aveva con sé lo specchio magico, il dono della madrina.
Entrò in quell'ombra impenetrabile; attorno a lei pareva non vi fosse che il vuoto, e lembi di nebbia si impigliavano tra i suoi capelli, si avvolgevano attorno al viso come a soffocarla, le accecavano lo sguardo. Quando pure avesse voluto ritornare sui suoi passi, non vi era che vuoto alle sue spalle.
Un vento gelido si levò, disperse la nebbia: Iosbail vide innanzi a sé il castello. Proseguendo nel suo corso, il fiume si allargava in un fossato che circondava la tetra costruzione di pietra grigia, le torri che la fiancheggiavano perdute nel vuoto della nebbia. L'aria era gelida, le morte acque del fossato immobili come lastre di piombo; alberi inariditi, tronchi spezzati, spaccati e bruciati dal fulmine parevano segnare la strada che conduceva al castello.
Iosbail si sentì gelare il sangue nelle vene; tuttavia proseguì e raggiunse il ponte che attraversava il fossato; un grande cancello di ferro lo chiudeva, e non vi erano battenti che potessero annunciare un visitatore, chiedere che quelle alte sbarre di nudo ferro si aprissero per lui.
Iosbail alzò gli occhi all'architrave che sovrastava il cancello: sotto il suo sguardo lettere d'oro vi si scolpirono, e Iosbail lesse: "Sii forte".
Attraversò il ponte e giunse al cancello, che silenziosamente si aprì innanzi a lei. Si trovava in un breve passaggio a volte dalle pareti umide di muschio; doveva essere costruito sul fiume, poiché un ribollire di acque vi scorreva sotto. Al termine del passaggio si innalzava una scala dagli alti gradini di pietra; sulla balaustra, a custodire la porta rotonda che si apriva in fondo alla scala, due orridi grifoni, i rostri spalancati e le zampe pronte a artigliare, le grandi ali nere che oscuravano la vista. Iosbail arretrò con un grido di spavento: i grifoni non ebbero un fremito e lei comprese che erano di pietra.
Lungo l'arco della porta vide scolpirsi lettere d'argento e tracciare per lei le parole: "Sii forte, ma non troppo forte".
La porta si aprì silenziosamente innanzi a lei.
Era nel grande atrio del castello, due rampe di scale se ne dipartivano e conducevano a una galleria. Iosbail le salì, percorse la galleria e giunse a una porta alta e tetra. Sull'architrave lettere di sangue si scolpirono tracciando per lei le parole: "Sii forte, ma non troppo forte, che non ti stringa il cuore un orrore di morte".
Ma Iosbail voleva sapere. L'ansia di sapere era in lei più ardente della paura, e si avvicinò senza esitare alla porta di ferro alta e tetra, che si aprì silenziosamente innanzi a lei.
Entrò in una stanza vuota di mobili e di arredi, dove avrebbe voluto non essere entrata; il pavimento era rosso di sangue; corpi insanguinati e sfigurati di quelle che un tempo dovevano essere state donne giovani e belle giacevano ovunque, le vesti strappate, lacere, incrostate di sangue. In una pozza di sangue poco oltre la porta affondava un teschio, e uno scheletro orribilmente contorto era davanti alla finestra, come se la donna fosse stata uccisa in un estremo, disperato tentativo di fuga.
Iosbail fuggì inorridita, percorse correndo la galleria; il respiro le mancava, il cuore le veniva meno. Un solo pensiero le attraversava la mente: in quale luogo, in quale  mondo era entrata, quali invalicabili confini aveva varcato? Poiché non poteva essere, quello, il castello del suo bel cavaliere.
Era giunta alle scale e già aveva iniziato a scenderle correndo, quando sentì, lontano, il suono degli zoccoli di un cavallo. Atterrita, sollevò lo specchio magico: riflesso nel vetro vide il ponte e sul ponte un uomo a cavallo, e nel viso dell'uomo lo specchio le rivelò inesorabilmente il viso del suo bel cavaliere.
L'orrore della certezza fu tale che, per un istante, lo specchio si offuscò e Iosbail non vide più nulla. Era sull'ultimo gradino della scala che dalla galleria scendeva al grande atrio del castello, immobile, paralizzata dall'orrore; sentì dei passi risuonare lontano.

Guardò angosciosamente nello specchio che tornò a farsi limpido e le rivelò il passaggio dalle pareti verdi di muschio e la lunga scala custodita dai grifoni di pietra. Gorad, il suo bel cavaliere, saliva la scala trascinando un corpo inanimato di donna, e al suo passaggio i grifoni di pietra spiegarono le grandi ali nere e lo nascosero alla vista.
Iosbail scese silenziosamente le scale, silenziosamente scivolò nell'atrio. Sentiva i passi risuonare sempre più vicini, e l'orribile battito delle ali dei grifoni di pietra. Si guardò attorno, alla disperata ricerca di un'altra porta dalla quale potesse fuggire: non vide che la porta rotonda dalla quale era entrata, e sentì che i passi si avvicinavano.
Nell'antro sotto la scala, lo specchio magico le rivelò una cassapanca di legno; in quello stesso istante, la porta rotonda girò silenziosamente sui cardini.
Gorad, il suo bel cavaliere, entrò trascinando il corpo inerte e insanguinato. Lo abbandonò a terra e si incamminò risolutamente verso il sottoscala, verso la cassapanca di legno che nascondeva Iosbail.
La giovane donna stringeva con la forza lo specchio magico, che, nel movimento della mano di lei, si mosse e balenò vividamente catturando la luce di un grande anello che scintillava al dito della donna morta. Gorad vide quello scintillio, tornò sui suoi passi e si chinò per sfilare l'anello; ma la mano insanguinata della donna era irrigidita dalla morte e l'anello resisteva.
Sotto lo sguardo inorridito di Iosbail, Gorad sguainò la spada e con un colpo recise la mano.
E volse nuovamente i passi verso il sottoscala.
Iosbail sfilò un anello che aveva al dito, e muovendo l'anello e lo specchio in direzione della galleria creò un così improvviso e scintillante balenìo, che il suo bel cavaliere si volse verso la galleria dove si trovava l'orribile camera insanguinata, si lasciò cadere di mano l'anello infilato ancora al dito della donne morta e salì correndo le scale, verso la galleria e la camera del sangue.
Iosbail uscì allora dal suo nascondiglio, raccolse tremando la mano insanguinata e fuggì dal castello, lungo le scale di pietra, tra i grifoni tornati immobili, sotto la volta del passaggio dalle pareti verdi di muschio, lungo il ponte, lungo la strada segnata dai tronchi spaccati e bruciati.
Fuggì correndo lungo il greto del fiume, attraversò l'ombra impenetrabile della nebbia, fuggì da quell'orrido, cupo regno di morte e di sangue, ritrovò il glorioso splendore dell'autunno, il corso vivo e impetuoso del fiume, il cavallo grigio che la attendeva battendo sul prato con lo zoccolo impaziente.
Il contratto di nozze tra Iosbail e il suo bel cavaliere doveva venir steso e firmato il giorno successivo, e il padre e i fratelli di lei diedero un gran banchetto per celebrare la cerimonia.
Bella, giovane e ardita, la fulva onda dei capelli imprigionata in una rete d'oro e smeraldi, Iosbail sedeva davanti al suo bel cavaliere, ma era mortalmente pallida, e tra le risate e la gaiezza e i canti del banchetto, lei sola appariva silenziosa e triste.
"Che cosa ti è accaduto?", volle sapere Gorad.
"Ho trascorso una ben triste notte, signore, e tristi sogni l'hanno funestata."
"Tristi sogni annunziano lieti eventi. Narraci i tuoi sogni, perché possiamo trarne gioiosi auspici"
"Ho sognato, Gorad, mio bel cavaliere", prese a narrare la giovane donna, "ho sognato di recarmi al tuo castello, lungo la strada del fiume, un alto castello di pietra grigia, circondato da un fossato; vi conduce un sentiero di tronchi spezzati, bruciati dal fulmine, inariditi."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così"
"Sull'architrave del cancello, prima che io vi entrassi, lettere dorate hanno tracciato per me le parole: Sii forte"
"Non è così, mia cara, né mai è stato così. Il tuo sogno ti ha ingannata."
"Spesso i sogni ingannano, Gorad, mio bel cavaliere, e non i sogni soltanto. Nel sogno io salivo una scala, custodita da orridi grifoni di pietra; la scala conduceva a una porta rotonda, e sull'arco della porta lettere d'argento hanno tracciato per me le parole: Sii forte, ma non troppo forte."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così."
"Io ho tuttavia varcato quella porta, ho salito una scala e sono giunta a un'altra porta in fondo a una galleria, dove lettere di sangue hanno tracciato per me le parole: sii forte, ma non troppo forte, che non ti stringa il cuore un orrore di morte."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così."
"E tuttavia ho varcato anche quela porta, Gorad, mio bel cavaliere, e sono entrata in una camera dove mi ha accolto l'orribile vista di corpi insanguinati, e scheletri, e ossa e sangue sul pavimento e sulle pareti."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così e per nulla al mondo vorrei fosse così."
"Ho sognato allora, Gorad, mio bel cavaliere, di fuggire da quel luogo orribile, di sentire dei passi lungo il ponte e le scale di pietra e di vederti entrare trascinando il corpo insanguinato e inerte di una donna."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così e per nulla al mondo vorrei fosse così."
"Non era che un sogno, Gorad, mio bel cavaliere. Nel sogno io ero nascosta dietro una cassapanca di legno, sotto la volta delle scale e ti vedevo chino sul corpo inerte e insanguinato di quella povera, giovane donna, per sfilarle un anello che aveva al dito; ma l'anello resisteva, e nel sogno, Gorad, mio bel cavaliere, tu sguainavi la spada e con un colpo solo mozzavi la mano con l'anello."
"Non è così, mia cara, né mai è stato così e per nulla al mondo vorrei fosse così."
Iosbail si levò in piedi, bella, giovane e ardita, tempestosa come l'immagine della vendetta; trasse dalla veste la mano insanguinata e la tese verso di lui.
"è così", disse, l'orrore e lo sdegno nella voce "sempre è stato così, ma per nulla al mondo sarà ancora così."
Il padre, i fratelli di Iosbail, i commensali tacevano inorriditi; Gorad sguainò la spada, ma la giovane donna trasse dalla cintura dorata lo specchio magico e lo tese come uno scudo innanzi a sé.
La magia dello specchio implacabilmente rifletteva la verità e l'orrore che dallo specchio affrontò il bel cavaliere quando vide riflesso il suo viso fu tale che il suo perfido cuore si spezzò, e con un grido soffocato Gorad si rovesciò a terra morto.



Introduzione a Gaston Leroux e ai suoi racconti macabri



Gaston Leroux nacque a Parigi nel 1868, unico figli di genitori benestanti. Fu un bambino molto vivace, più tardi coinvolto in certi guai con la gendarmeria locale. Nel 1890 riuscì a trovare lavoro come giornalista di cronaca giudiziaria, ma il suo vero interesse era il teatro. Questa passione lo spinse a scrivere commedie, ma solo quelle scritte in collaborazione con autori più esperti ebbero successo. Tra queste, va citata "Alsace" scritta con Camille Dreyfus e messa in scena, e "Le Lys", scritta con Pierre Wolff. "La Maison des Judges", un dramma in tre atti che Leroux scrisse da solo, fu rappresentato all'Odéon e si guadagnò il plauso della critica rimanendo in cartellone per ben sei mesi.
Iniziò poi una serie di viaggi, dalla Finlandia al Mar Caspio, dall'Italia al Marocco. Spesso, per evitare la diffidenza dei locali, si travestiva con gli abiti tipici.


Fu nei primi anni del Novecento che iniziò a scrivere storie del terrore.
I suoi primi lavori, come "La Doppia Vita di Teofraste Longuet" (ispirato a Dottor Jekyll e Mister Hyde) e "La battaglia invisibile", basata sulla storia di un megalomane che si appresta alla conquista del mondo, lo fecero conoscere come narratore emozionante e avvincente.
Il 1907 fu l'anno in cui raggiunse i primi successi mediante la pubblicazione del "Mistero della Camera Gialla", che viene considerato uno dei classici del genere poliziesco. La maestria con cui viene manipolata la trama e il limpido raziocinio che la caratterizza lo rende ineguagliabile.
Altro successo fu "Il profumo della dama in nero".
La seconda e più importante opera fu "Il Fantasma dell'Opera" che apparve a puntate su giornali francesi, inglesi e americani.
Leroux era stato ispirato a scrivere questo racconto durante una delle sue numerose visite al Teatro dell'Opéra di Parigi. Aveva sentito raccontare la leggenda dell'uomo misterioso che si dicesse vivesse negli antri sotterranei dell'edificio e che era indicato come il responsabile di alcune strane morti.
Leroux sfruttò al meglio i diciassette piani dell'edificio, il vasto labirinto di scale e corridoi, gli innumerevoli camerini, capaci di ospitare oltre 500 figuranti.
Il fatto che i livelli più bassi del palazzo fossero vasti e vuoti, raramente visitati, rendeva la storia ancora più eccitante. Con "Il Fantasma dell'Opera" Leroux raggiunse l'apice delle sue capacità letterarie. Benché sviluppasse più tardi un'altra creatura affascinante, il mago Chéri-Bibi, niente riuscì veramente a raggiungere le vette di quest'opera.
Produsse anche altri romanzi nello stesso genere: "Baloo", "L'uomo con la penna nera", "L'uomo che tornò dall'Oltretomba", "Il segreto della notte", "La sposa del Sole", "L'uomo dai Mille Volti" e "La sedia maledetta". Scrisse anche brevi racconti macabri ("Una storia terribile", "Il mistero dei quattro mariti", "La locanda del terrore", "La donna con il collare di velluto", "Scritto in lettere di fuoco", "Il museo delle cere")


Il mito di Tristano e Isotta

Info tratte da



Secondo una tradizione della Cornovaglia, la bella Iseult, incapace di sopportare la perdita del suo amato – il coraggioso Tristran –, morì di crepacuore e venne sepolta nella stessa chiesa ma, per ordine del Re, le due tombe furono poste distanti l'una dall'altra. 
Tuttavia, ben presto crebbe dalla tomba di Tristran un rametto di edera ed un altro dalla tomba di Iseult; questi germogli crebbero gradualmente verso l'alto fin quando gli innamorati, rappresentati dall'edera arrampicata, furono nuovamente uniti sotto il tetto a volte del cielo.


***

Il primo e più suggestivo eroe dell'avventura bretone è Tristano, la cui creazione poetica sembra davvero attribuirsi a Thomas, scrittore francese del XII secolo.

Siamo in Cornovaglia, in un'epoca imprecisata, in una società di cavalieri che si muovono in mezzo alle magie e agli incantesimi più imprevedibili e sono costretti ad affrontare giganti e draghi.
L'atmosfera del racconto si presenta permeata di misteriose influenze a cui la creatura umana, che è debole, non può opporre alcuna resistenza: su questo presupposto si sviluppa la vicenda.

Regna in Cornovaglia il mitico re Marco, il cui volto è deturpato da orecchie equine. 
Il regno è succube di un'iniqua violenza giacché è costretto ad offrire annualmente al vicino regno di Irlanda un tributo di giovani vite umane.
è in questa occasione che conosciamo per la prima volta Tristano, principe di Leonois, nipote di re Marco. 
Tristano affronta ed abbatte in singolar tenzone il terribile Moroldo, figlio del re d'Irlanda, ma nel durissimo scontro rimane ferito dalla spada avvelenata dell'avversario, e la ferita è incurabile.
Tristano lascia allora la corte dello zio, che lo ama come un figlio; si allontana perché avverte pesare su di sé un avverso destino che è già implicito nel nome Tristano, il giovane triste, perseguitato dalla sfortuna.
Una nave senza vela, senza remi, senza timone lo trascina sulle coste dell'Irlanda dove Tristano è guarito dalla sorella di Moroldo, esperta di arti magiche e mediche. 
Egli torna presso lo zio, appena in tempo per avere l'incarico di andargli a cercare la fanciulla cui appartiene il biondo capello che una rondinella ha lasciato cadere ai suoi piedi: giacché la bellezza di quel colore biondo ha fatto innamorare il re che vuole sposare la proprietaria.
Tristano porta a buon fine la ricerca e scopre che il capello appartiene ad Isotta la bionda, sorella di Moroldo, colei che lo ha guarito dalla piaga velenosa.
Incaricato di scortare la bella Isotta nel viaggio dall'Irlanda alla Cornovaglia, Tristano diviene protagonista di un episodio che sarà la causa permanente della sua felicità ed infelicità.

La regina, madre di Isotta, gli affida la custodia di un meraviglioso filtro magico che Isotta dovrà bere la prima notte di nozze, insieme allo sposo re Marco: quel filtro avrà il potere di suscitare tra i due coniugi un'indistruttibile ed intensa attrazione amorosa.
Ma per un errore di Brengania, la giovane ancella di Isotta, il filtro viene bevuto da Tristano e dalla bionda principessa: i giovani si innamorano. è amore passionale, fatto di carne e di sensi eccitati, amore che non conosce rischi e pudori.
Le nozze tra Isotta e Marco vengono celebrate ma la notte il re, che si illude di giacere con la bella Isotta, ha invece al suo fianco Brengania che paga con la sua verginità l'errore commesso.
Intanto i due amanti si ritrovano in tutti gli angoli del palazzo reale, del parco, del bosco, sotto un albero, vicino ad una fontana e tutto questo fino a che re Marco li sorprende in atteggiamenti inequivocabili e li scaccia dalla reggia e così i due amanti si riducono a vivere solitari nella foresta di Morrois.
Ivi capita un giorno anche re Marco durante una partita di caccia e scopre i due giovani nel sonno. Dormono l'uno accanto all'altra, separati da una spada collocata tra i due corpi. 
Il re si commuove e decide di perdonare Isotta. La riconduce al castello mentre Tristano viene bandito e va esule nell'Armorica, una regione della Bretagna francese, non trovando pace in ugual modo. 
Decide di escogitare espedienti vari per rivedere Isotta.

è suggestiva la descrizione di questo stato d'animo di sconforto cui Tristano è protagonista.

Nella sua terra dimora Tristano
dolente, afflitto, triste e pensieroso,
Dentro di sé riflette come possa
fare per procurarsi alcun conforto.
Conforto gli bisogna per guarire;
se non lo trova, meglio val morire:
meglio morire una volta per sempre
che durar notte e dì in sì gran distretta;
meglio una volta per sempre morire
che in ogni tempo in gran pena languire...
Or egli è dunque di sua morte certo,
quando il suo amore, la sua gioia perde.
Poiché perde la sua regina Isotta
vuol morire, la morte egli invoca;
solo una cosa però gli sta a cuore,
ch'ella sappia che muore per suo amore;
che se Isotta saprà della sua morte,
forse il morire gli parrà più dolce

Il desiderio della bella Isotta diventa in Tristano un pensiero ossessivo, qualcosa che gli rode l'animo:

A tutti tien celato il suo proposito,
a nessuno lo vuole rivelare,
nemmeno al più fedele suo compagno,
per timore che quello nol distoglia.
In Inghilterra egli si vuol recare
a piedi vuole andar, non a cavallo,
per non essere tosto conosciuto
in quel paese ove egli è troppo noto:
(...)
Attentamente il suo consiglio cela
Tristano, intensamente egli riflette
(...) E l'indomani sul primo mattino,
si leva ed intraprende il suo cammino,
e va dritto, e non smette mai d'andare
finché non giunge alla riva del mare.

Quando, dopo il viaggio in incognito per nave, Tristano sbarca nella terra di Isotta, non riuscirebbe più a nascondere la sua identità se non ricorresse all'espediente della follia, al fingersi pazzo per riuscire a vedere la desiderata amante:

Sulle rive del mare s'asside.
Presto si informa dove sia il re Marco.
Gli dicon che nella città dimora
ed ivi tiene gran corte bandita.
- E dove è Isotta, la regina bella,
e Brengania, la leggiadra damigella?
- In verità, abitan qui ancor elle:
non molto tempo è ch'io ebbe a vederle;
vero è però che la regina Isotta
si mostra assai pensosa, come suole.
Appena ode Isotta nominare,
Tristano in cuore prende a sospirare
(...) perché re Marco (egli ne è ben conscio)
lo odia più di ogni altra cosa al mondo;
sa che, se prenderlo vivo potesse,
con grande gioia egli l'ucciderebbe.
Dentro sé pensa alla sua dolce amica,
dice: - Che importa, se anche mi uccide
il re? Pur debbo morir per amore
di lei: non muoio forse un po' ogni giorno?
Isotta, tanto per voi io mi dolgo;
per voi, Isotta, ora morire voglio.

Dopo vari espedienti, tra cui fingersi pazzo pur di vedere Isotta, Tristano ritorna in Armorica dove sposa Isotta dalle bianche mani, figlia di un duca. Il nome, la somiglianza dei tratti fisici gli richiamano alla mente Isotta la bionda; ma non c'è felicità alcuna con questa donna e ciò provoca in Isotta dalle bianche mani un sordo rancore per la sconosciuta rivale.
Si susseguono altre avventure, fin quando Tristano non rimane ancora ferito e nessuna medicina lo può guarire.
Solo la sua Isotta, la fanciulla bionda che lo aveva salvato la prima volta, potrebbe liberarlo dalla sua ferita, ma lei è lontana mentre l'altra Isotta vigila gelosa su di lui.
Una nave viene inviata a cercare Isotta la bionda nella speranza che possa giungere in tempo a salvare Tristano: se Isotta acconsentirà ad accorrere al letto dell'amico infermo la nave alzerà bandiera bianca; se Isotta rifiuterà, isseranno bandiera nera.
Passano i giorni, Tristano si aggrava. Quando la nave è all'orizzonte, e alza bandiera bianca, Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia e dal rancore, annuncia a Tristano che la vela è nera. 
Tristano, non resistendo al dolore, muore infelice.
Quando Isotta la bionda lo vede, muore anche lei di dolore.

Il mito di Tristano ed Isotta sembra simboleggiare il concetto che la passione amorosa è un nodo fatale al quale non si può sfuggire quando se ne sia gustato una prima volta il travolgente piacere.
I due amanti, che pure hanno coscienza della loro colpa, non riescono in alcun modo a liberarsi né a redimersi e restano nell'adulterio che li conduce alla tragica morte: una fine che sollecita la pietà di tutti coloro che sono sensibili alle pene d'amore.

L'influenza e la diffusione dell'immagine di Tristano, il cavaliere triste e infelice, l'eroe che celebra il culto dell'amore fino al sacrificio della vita, furono immense, e in una fase più avanzata, venne riscritto il romanzo in prosa, nel quale le vicende vennero collegate con il tema generale del Santo Graal e della Tavola Rotonda.

ALTRO APPROFONDIMENTO, info tratte da
 

Che l'accordo d'amore e di morte sia quello che risveglia in noi le risonanze più profonde, è una verità che sancisce a prima vista il prodigioso successo del romanzo.
Amore e morte, amore mortale: se non è tutta la poesia, è almeno tutto ciò che v'ha di popolare, di universalmente toccante nelle nostre letterature. L'amore felice non ha storia. Romanzi ne ha dati solo l'amore mortale, cioè l'amore minacciato e condannato dalla vita stessa. 
Abbiamo bisogno di un mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla morte, e ch'essa porta con sé la distruzione per coloro che vi si abbandonano con tutte le forze. Il mito di Tristano e di Isotta non sarà più solamente il romanzo ma il fenomeno che esso illustra e la cui influenza non ha cessato di estendersi fino ai giorni nostri. Passione della natura oscura, dinamismo eccitato dello spirito, attitudine preformata alla ricerca di una costrizione che lo esalti, fascino, terrore o ideale: tale è il mito che ci tormenta. Ed è tanto più pericoloso proprio in quanto ha smarrito la sua forma primitiva. I miti decaduti diventano velenosi come le verità morte di cui parla Nietzsche.
"Di tutti i mali, il mio differisce; perché mi piace; mi fa gioire; il mio male è ciò che voglio e il mio dolore è la mia salvezza. Non vedo dunque di che io mi dovrei lagnare, dacché il mio male mi deriva dalla mia volontà; è il mio volere che diviene il mio male; ma provo tanto piacere a voler in questo modo, ch'io soffra gradevolmente, e v'ha tanta gioia nel mio dolore ch'io sono malato fra le delizie" (Chrétien de Troyes)
L'apparente egoismo di un tale amore potrebbe da solo spiegare molti dei casi e delle tempestive malizie del destino che si oppongono alla felicità degli amanti. Ma come spiegare questo stesso egoismo, nella sua profonda ambiguità? Ogni egoismo, si dice, conduce alla morte, ma come alla definitiva sconfitta. Questo, al contrario, vuole la morte come il proprio perfetto completamento, come il proprio trionfo... Qui non rimane che una sola risposta, degna del mito. Tristano e Isotta non si amano, l'hanno detto e tutto lo conferma. Ciò che essi amano è l'amore, il fatto stesso d'amare. Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che si oppone all'amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all'infinito nell'istante dell'abbattimento dell'ostacolo, che è la morte.
Passione vuol dire sofferenza, cosa subita, prepotere del destino sulla persona libera e responsabile. Amare l'amore più dell'oggetto dell'amore, amar la passione per se stessa, dall'amabam amare di Agostino fino al Romanticismo moderno, significa amare e cercar la sofferenza. Amore-Passione: desiderio di ciò che ci ferisce e ci annienta col suo trionfo.
Perché l'uomo d'Occidente vuol subire questa passione che lo ferisce? Perché vuole questo amore il cui esplodere altro non può significare che il suicidio? Proprio perché egli conosce e prova se stesso sotto i colpi di esiziali minacce, nella sofferenza e sulle soglie della morte. Il terzo atto del dramma di Wagner descrive ben più che una catastrofe romanzesca: descrive la catastrofe essenziale del nostro sadico temperamento, questa smania repressa di morte, questo gusto di sperimentarsi nel limite, dell'urto rivelatore che è senza dubbio la più inestirpabile fra le radici dell'istinto della guerra che portiamo in noi.
Il prodigioso successo del romanzo di Tristano rivela in noi, lo si voglia o meno, una intima preferenza per l'infelicità. Sia poi questa infelicità, secondo la capacità dell'anima nostra, la "deliziosa tristezza" e lo spleen della decadenza, o la sofferenza che trasfigura, o la sfida che lo spirito getta al mondo, a noi preme ricercare ciò che può esaltarci fino a farci accedere, nonostante tutto, alla vera vita di cui parlano i poeti.  Ma questa vera vita è la vita impossibile. Questo cielo dalle nuvole esaltate, quasi un crepuscolo imporporato d'eroismo, non annuncia il Giorno, ma la Notte! La vera vita è altrove, dice Rimbaud. Essa non è che uno dei nomi della Morte, il solo nome col quale noi si osi chiamarla, pur fingendo di respingerla.
Perché a qualsiasi altro racconto preferiamo quello di un amore impossibile? Proprio perché ci piace bruciare, ed essere coscienti di ciò che brucia in noi. Profondo legame del soffrire e del sapere. Complicità della coscienza e della morte! (su di essa Hegel ha potuto fondare una spiegazione universale del nostro spirito e persino della nostra Storia)
La vera ragione è che l'avvicinarsi della morte è lo stimolo della sensualità. Essa aggrava, nel senso più completo del termine, il desiderio: talvolta lo aggrava addirittura fino a trasformarlo nel desiderio di uccidere l'altro, o di uccidersi, o di perire in un comune naufragio.

Nota di Lunaria: vedi il fenomeno del "cannibalismo sessuale" tipico di alcuni serial killer, analizzato in libri come questo:


Attirati dalla morte, lontani dalla vita che li respinge, prede voluttuose di forze contraddittorie ma che li precipitano nella stessa vertigine, gli amanti non potranno raggiungersi se non nell'istante che li priverà per sempre di ogni umana speranza, di ogni possibile amore, in grembo all'ostacolo assoluto e a una suprema esaltazione che si distrugge nel suo stesso compiersi.
"Ella m'ha interrogato un giorno, ed ecco che mi parla ancora. Per qual destino son nato? Per qual destino? La vecchia melodia mi ripete: per desiderare e per morire" (Wagner)
 
Nota di Lunaria: una bella canzone dei Cradle of Filth si intitola "Amor e Morte"
https://www.youtube.com/watch?v=A5LiCWJe5PQ








APPROFONDIMENTO: AMORE E TORMENTO NELL'AMOR CORTESE

tratto da


Tema della morte, che vien preferita ai doni del mondo:

Più mi è gradito dunque morire\che gioire di gioia volgare\perché la gioia che volgarmente sazia\non ha potere né diritto di piacermi tanto.

Così canta Aimeric de Belenoi. La "joie vilaine" la guarirebbe dal suo desiderio, se l'amore senza fine non fosse il male che egli ama, la "joy d'amor" il delirio che prevale:

...questo folle desiderio\mi ucciderà, sia ch'io parta o rimanga\perché colei che sola può guarirmi non mi compiange\e questo desiderio\benchè fatto di delirio\su ogni altro prevale

Non vuol morire ancora, perché non è abbastanza distaccato dal desiderio, perché teme di lasciare il corpo per disperazione, "peccato mortale" perché ignora ancora
a che possa servirgli\lasciar che l'anima si rapisca in estasi.

Ecco il tema della separazione, motivo dominante di tutto l'amore cortese:

Dio, come può essere\che più mi è lontana, più la desidero?

Ed ecco Guirat de Bornheil che prega la vera Luce aspettando l'alba del giorno terrestre: l'alba che lo riunirà al suo "compagno" di viaggio e quindi di prove nel mondo (questi due "compagni" non potrebbero essere l'anima e il corpo? L'anima che è legata al corpo, e pure desidera lo spirito?)

Ma, alla fine della canzone, il trovatore ha tradito i suoi voti? O ha trovato in seno alla notte la vera Luce da cui non bisogna separarsi?

Bello, dolce compagno, così ricco è questo soggiorno\che non voglio veder più alba né giorno\perché la più bella figlia che sia nata da madre\tengo tra le braccia: onde più non mi curo\di gelosia né d'alba.

Wagner, nel "Tristano", trasformerà nel grido sublime di Brangania: "Habet Acht! Habet Acht! Schon weicht dem Tag die Nacht!" (Attenti! attenti! Già la Notte cede al Giorno!) Ma anche Tristano risponde: "Che la notte eternamente ci avvolga!"

"In un frutteto, sotto un pergolato di biancospino, la dama ha tenuto l'amico tra le braccia finché la vedetta ha gridato: Dio, è l'alba! Venga dunque presto! Come vorrei, mio Dio, che la notte non finisse, che il mio amico potesse rimanere con me e la vedetta non annunciasse mai il sorgere dell'alba. Dio! è l'alba. Venga dunque presto!"

Amor, in provenzale, è di genere femminile; questo Amore che per Dante "move il sole e l'altre stelle" e di cui Guiraut dice che si libra "al di sopra del cielo" non è già la stessa Divinità dei grandi mistici eterodossi, il Dio che precede la Trinità di cui parlano la gnosi e maestro Eckhardt, e più precisamente ancora, il Dio sopraessenziale che secondo Bernard de Chartres "risiede al di sopra dei cieli" e di cui il Noys, il Nous greco, è l'emanazione intellettuale e femminile?

Leggiamo questa canzone di Peire de Rogiers:

Aspro tormento mi tocca soffrire.\Per quanto grande sia la mia ambascia per lei\il mio cuore non deve consumarsi.\Né mai mi è dato di intravvedere la promessa\di gioia, dolcezza o bene:\se pure cento gioie conquistassi con la mia prodezza\non ne farei nulla perché non so volere che lei.

E questo grido di Bernard de Ventadour:

M'ha tolto il cuore, m'ha tolto il mondo, m'ha\tolto me stesso; e infine si è sottratta anche lei,\lasciandomi solo con il mio desiderio e il mio\cuore assetato.

E in questa strofa di Arnaut Daniel, un nobile che si fece giullare:

Non voglio l'impero di Roma né che mi si faccia papa, se non posso tornare da lei per la quale il mio cuore arde e si spezza. Ma se ella guarisce il mio tormento con un bacio, prima del nuovo anno, mi avrà distrutto e si sarà dannata.

Infine, concludiamo citando i mistici arabi.

I mistici arabi insistono sulla necessità di custodire il segreto dell'Amore divino. Denunciano senza tregua gli indiscreti che vorrebbero immischiarsi nei misteri senza parteciparvi con tutta la loro fede. La lode della morte d'amore è il leitmotiv del lirismo mistico degli Arabi.

Ibn al Faridh: "Il riposo dell'amore è una fatica, il suo inizio una malattia, la sua fine la morte. Tuttavia per me la morte per amore è una vita; rendo grazie alla mia Amata d'avermela offerta. Chi non muore del suo amore non può viverne"

Uccidendomi voi mi farete vivere, perché per me morire è vivere e vivere è morire (al Hallaj)