La Bellezza, la Malattia e la Morte in Torquato Tasso, nei poeti Barocchi e nei Romantici

Tratto da



Torquato Tasso fu un poeta idolatrato dai Romantici.



Non è senza significato che la poesia del Tasso tocchi alcune delle più alte cime in rappresentazioni dove la bellezza e la morte si intrecciano. Anche agli occhi di Torquato il dolore pareva dare rilievo alla bellezza, e il martirio esprimerne più commoventi note. Si è osservato come Olindo, legato al rogo accanto all'amata, sebbene in apparenza martire della Fede, non parli che il linguaggio dell'ardente affetto e della brama. La morte imminente sembra conferire un brivido nuovo all'amore e Sofronia che, le molli braccia strette da aspre ritorte, con occhi pietosi rimira l'amante, appare più bella e desiderabile nel punto che è insidiata dal supplizio. Olindo è lieto di essere consorte del rogo:

Ed oh mia morte avventurosa a pieno!
Oh fortunati miei dolci martiri!
S'impetrerò che giunto seno a seno
l'anima mia ne la tua bocca spiri...

Anche nell'episodio di Tancredi che uccide senza riconoscerla l'amata Clorinda, la tragicità conferisce un pathos più sottile alla bellezza:

Ma ecco, omai l'ora fatale è giunta,
che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
che vi s'immerge, e 'l sangue avido beve;
[...] In queste voci languida risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia a forza.
D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come  a' gigli sarian miste viola:
e gli occhi al cielo affissa;
[...] passa la bella donna, e par che dorma.

La morte di Clorinda ci rivela tutto il suo significato quando ricordiamo l'accorato desiderio di Erminia, d'essere uccisa da Tancredi. Erminia, nel Canto VI, mescola coll'amore le idee di prigionia e di morte in modo caratteristico; e quando Erminia finalmente ritrova Tancredi, egli è simile ad un morto, dissanguato dal duello con Argante:

Da le pallide labra i freddi baci,
che più caldi sperai, vuo' pur rapire;
parte torrò di sue ragioni a morte,
baciando queste labra esangui e smorte.

è anche nell'"Aminta" che ritroviamo dolore, amore e morte (apparente) : http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/10/riassunto-e-commento-dellaminta-di.html


 "[...] sotto
una dolente immagine di morte
gli recò vita e gioia"

Nota di Lunaria: aggiungo anche questo sonetto di Tasso, che è una delle sue più belle creazioni: "Qual rugiada o qual pianto", uno dei capolavori di Torquato Tasso, il più significativo esponente della cultura italiana nella seconda metà del Cinquecento. Il testo è tratto dalle "Rime", una raccolta di circa 200 liriche (sonetti, canzoni, madrigali) che Tasso compose durante tutto l'arco della sua vita; ne curò egli stesso la pubblicazione, raggruppandoli in tre sezioni: rime amorose, encomiastiche, religiose.

Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto (1)
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perché ne l'aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure (2) insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?

(1) Cielo, che appare come un manto notturno sopra la terra
(2) Passare

Il tema è quello, antichissimo, della partenza della donna amata. Esso viene esplicitato però solo nei due versi finali. Tutta la parte precedente è un "notturno" poetico, nel quale Tasso umanizza la natura rendendola partecipe della sua malinconia e della sua solitudine di amante.
Nell'oscurità della notte scintilla sull'erba la rugiada, nel silenzio si avverte appena il sussurro flebile del vento ma la sensibilità del poeta trasfigura le perle di rugiada in stille di pianto e il sussurro del vento in un gemito insistente. è come se la natura stessa, umanizzata, piangesse per la partenza della donna. La notte assume i contorni di una dolce e affettuosa creatura femminile, dal volto candido e dal manto scuro, che inonda di lacrime la terra.
In questo gioco ininterrotto di trasfigurazioni le gocce di rugiada, prima viste metaforicamente come lacrime delle stelle, si trasformano esse stesse in stelle luminose e trasparenti che impreziosiscono l'erba. Del resto i due elementi naturali ricorrenti nel componimento, ovvero l'acqua e l'aria hanno come caratteristica principale la mobilità che li fa apparire animati e quindi più facilmente umanizzabili: agli occhi del poeta, gli elementi umani e naturali si rivelano intercambiabili: le gocce di rugiada sono ora lacrime, ora stelle, il vento è un flebile sospiro, la notte ha parvenze femminili.
Sul piano lessicale si nota la prevalenza di parole adoperate in chiave metaforica. La parola chiave è "pianto", al cui campo semantico è possibile ricondurre una serie di termini che si riferiscono al tema delle lacrime e della malinconia: lacrime, spargere, candido volto, cristalline stelle, dolendo.

è estremizzando questa tendenza a "trovare la bellezza nella sofferenza" che la poesia del Seicento http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/09/poesia-barocca-del-seicento.html
https://intervistemetal.blogspot.com/2021/01/le-poetesse-di-fine-cinquecento-e-del.html
canterà lodi a donne crudeli, che rifiutano l'amato:

Girolamo Preti

"Rose impallidite"

Ite (1) in dono a colei, pallide rose,
a cui l'alma donai senza mercede;
e poi che'l mio penar non cura, o crede,
siate del mio morir nunzie amorose.
Vidi voi d'ostro (2) già tinte e pompose;
d'ostro che 'l labro suo forse vi diede.
Ora il pallor di Morte in voi si vede,
imitatrici del mio duol pietose.
Dite se pur vi mira e se v'accoglie
ch'io son mal vivo e sarò tosto esangue come voi,
moribonde aride foglie;
e se'l vostro color pallido langue,
ella ravvivi l'odorate spoglie
con l'onda del mio pianto e del mio sangue.

(1) andate
(2) color porpora

ma anche a donne deformi o sofferenti e persino con pidocchi e pulci, spesso con l'intento dissacrante di andare contro lo stereotipo poetico della "donna-angelo" dai biondi capelli, tipico di Dante e Petrarca.

Per esempio, Marcello Giovanetti contrariamente ai poeti stil novisti, loda i capelli corvini:

"Chiome, qualor disciolte, in foschi errori de la fronte vi miro in giù cadenti, e velate al mio Sol gli aurei splendori, siete nubi importune, ombre nocenti (1)

(1) fastidiose

Ludovico Tingoli va persino oltre, celebrando una "Brutta donna adorna di gran gioie"

Costei cui sol di tenebre e d'orrori, Natura acherontea veste e circonda, osa intorno spiegar quanti ne l'onda del Gange e del Pattol (1) nascon fulgor.
Spargono le chiome e 'l labbro ombre e squallori e d'oro e di rubini il braccio abbonda, invece che lo sguardo i rai
(2) diffonda
sfavillano dal sen compri splendori la perla, onde la bocca orba notteggia. A l'orecchia plebea quasi per scherno pende,
ed intorno al nero collo albeggia.
Ma che stupir, s'è pur decreto eterno ch'ove ricco tesoro arde e lampeggia, ivi custode sia spirto d'Averno?

(1) fiume
(2)  raggi


In tal senso Fosca, l'eroina di Igino Ugo Tarchetti


come avevamo già fatto notare qui http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/12/la-bellezza-dellorrido-nel-romanticismo.html
è figlia di quei prodromi gettati dalla poesia tardo cinquecentesca e secentesca; e in effetti, andando ancora più a fondo, potremmo dire che anche tanta estetica e concettualità Symphonic Black e Gothic Metal, nelle sue forme più colte, alla Cradle of Filth del periodo "Dusk and Her Embrace" è figlia di un Luigi Tansillo, che nel Cinquecento descriveva così il paesaggio:


E freddo è il fonte, e chiare e crespe ha l'onde
e molli erbe verdeggian d'ogn'intorno (1),
e 'l platano coi rami e 'l salce, e l'orno
scaccian Febo (2), che il crin talor v'asconde:
e l'aura appena le più lievi fronde
scuote; sì dolce spira al bel soggiorno [...]

(1) Dappertutto, lungo le rive
(2) Il Sole

Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)

(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti

"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."

Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.

ma anche, come abbiamo detto, di Tarchetti:


Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un'ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa.
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, - ché anzi erano in parte regolari, - quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine.
Un lieve sforzo d'immaginazione poteva lasciarne intravedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l'eseguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la proporzione. Tutta la sua vita era ne' suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati - occhi d'una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v'era ancora qualche cosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall'educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso. Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d'altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifizi, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d'un uomo.
Ma le era presentato da me stesso nell'entrare. Allorchè fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza: "Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po' prima. Ma come fare? Sono sempre così malata!"
Fui colpito dalla soavità della sua voce, più ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.
"Ora mi sembrate però guarita." risposi io.
"Guarita!" esclamò ella sorridendo "mi pare di no. L'infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia."
Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.
"Non sapete" riprese ella dopo un istante di silenzio e con tono diverso di voce "che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott'occhi alcuni sunti, ma non l'aveva mai letto."
"Avete avuto troppa premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato."
"è vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa."
"Parmi anzi utile."
"Utile sì, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per... me. Vi sono delle letture che mi fanno male."
"Voi sapete" io dissi per tenermi da capo sulle generali "che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?"
Essa mostrò di non aver compreso quell'artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: "altro è l'uomo, altro le sue opere", e riprese:
"Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci principi retti, e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che  quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce al suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L'obiettivo d'ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia - non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina - ma l'immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l'ebbrezza dell'immaginazione?"
"Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?"
"O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell'immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni."
"Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero" io dissi "ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura."
"Sorvolo sui libri" rispose ella mestamente, "come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare - abborro i libri di morale e di metafisica - leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco, tutto ciò che io posso fruire dell'esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprenderete" aggiunse ella con aria di mesta ironia, "il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi."
"E perchè?" risposi io confuso e commosso da quelle parole. "Se siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai intime che né gli uomini, né le sventure ci possono togliere il piacere di beneficiare."
"Beneficiare!" interruppe essa. "Ho provato. Ho gettato i miei gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. è dolce, ma non basta. L'esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore passivo, amore morto."
"è però sempre un aspetto dell'amore" io dissi "né lo possiamo credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine."
"Credo più presto alla gratitudine dell'amore che a quella del beneficio" rispose ella.
Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto - o volesse ella vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d'esservisi lasciata andare - proruppe in uno scroscio di risa, e disse:
"Sono pazza io! In che discorso vi ho mai trascinato! Capisco che con me si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo... è molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace?"
"Da pochi giorni... e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di vostro cugino..."
"Un paese di Barberia?"
"E di Pellirosse!"
Sorridemmo tutti e due, e credo l'una e l'altro per cortesia.
"Siete stato al giardino?"
"Una volta."
"E al castello."
"Vi è un castello?"
"Diamine! Avete visitato il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l'onore di accompagnarci..."
"Molto volentieri, ve ne ringrazio" e diceva la più solenne menzogna del mondo. "Dacchè ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il più rigoroso, ha paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un'ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto..."
Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare.
Quell'atto mi sorprese e mi turbò nel più profondo dell'anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente, e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s'avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d'imbarazzo:
"Anch'io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie con i loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa." E vedendo che m'era alzato, o aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta: "Guardate, abbiamo lì, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di gardenie..."
Così dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario. Ella lo vide, impallidì, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cade rovesciata sul pavimento.
Le sue cameriere accorsero e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni più violente.
Io uscii da quella casa, quasi insensato.


Molti di questi temi di bellezza intorbidata tipici della poesia del Seicento riappaiono presso i Romantici, estremizzati. Se per i secentisti come un Adimari si trattava di un gioco dell'ingegno fare sonetti su donne con la gobba o donne sepolte, o belle spiritate come in questo sonetto di Achillini

Là nel mezzo del Tempio a l'improvviso
Lidia traluna gli occhi, e tiengli immoti,
e mirano i miei lumi a lei devoti
fatto albergo di furie un sì bel viso.

e si può essere certi che non avessero mai dato corpo reale a questi "sghiribizzi della fantasia", un Romantico cercava invece quei traviamenti della fantasia, per quel gusto dell'epoca che portava al disordinato, al macabro, al terrifico: Bellezza Medusea, la bellezza dei Romantici, intrisa di pena, di corruzione, di morte.

Non è solo Tarchetti, nascosto dietro la maschera letteraria di Giorgio, a restare sedotto da Fosca, donna già incadaverita e consunta, e perciò  "Imago Mortis", ma anche Barbey d'Aurevilly in "Léa" (1832) descrive l'amore di Réginald per una donna tisica, Léa. Quando il giovane, dopo aver lodato Léa come la più bella di tutte le creature, la bacia, la donna muore: il sangue le inonda i polmoni e la fanciulla muore vomitando sangue.
Della moda romantica per le tisiche ci resta un'ampia documentazione: da Nodier a Irving; Elie Mariaker sembra quasi aborrire i volti freschi e paffuti; il D'Annunzio, nella poesia "Gorgon", così celebra il viso "Ella avea diffuso in volto quel pallor cupo che adoro/ ne la bocca era il sorriso fulgidissimo e crudele / un fiore doloroso era la bocca"

Col Romanticismo, si diffuse un vero e proprio gusto per la bellezza minata dal male o addirittura putrescente e necrofila; la coppia Amore-Morte, ampiamente presente nella tradizione letteraria viene portata alla sua massima espressione perversa nella necrofilia o nel vampirismo: la donna amata resta amata (e amante), anche quando è carne fredda, rigida e immobile deposta su un catafalco nonché "morta vivente" assetata ancora di vita (il sangue) anche nel sepolcro; basterebbe citare la bellezza fatale della vampira Clarimonde nel celebre racconto di Gautier,  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/09/clarimonde-di-theophile-gautier.html


autore che ha superbamente descritto gli abissi di un amore morboso e necrofiliaco che per quanto venga "dissolto" nel finale, lascia il protagonista tormentato dal rimpianto di averlo perduto; la morta Clarimonde, esente dalla decomposizione, agli occhi di Romualdo è ancora più bella di "una donna vivente" e suscita in lui desideri carnali di amplesso; lei brama il suo sangue di vivo, lui brama il suo corpo di bellissima morta:

"Abbassai le palpebre, deciso a non sollevarle mai più, per sottrarmi a ogni fascino che potesse provenire dall'esterno: perché in realtà mi sentivo sempre più distratto, e sempre meno mi rendevo conto di quel che facevo.
Un istante dopo riaprii gli occhi, perché anche attraverso le palpebre chiuse la vedevo brillare in una rossa penombra, come se stessi fissando il sole. Quanto era bella! I più grandi pittori, anche quando vogliono raffigurare la Madonna, e cercano quindi di rappresentare l'ideale della bellezza, non si avvicinano neppure lontanamente a quella favolosa realtà. Nessuna tavolozza di pittore, nessun verso di poeta avrebbero potuto darne l'idea. Ancora non so se la fiamma che la illuminava provenisse dal cielo o dall'inferno: ma certo veniva o dall'uno o dall'altro.
Man mano che la contemplavo, sentivo schiudersi in me delle porte di cui non sospettavo nemmeno l'esistenza, e la vita mi appariva in una luce tutta diversa. Era come se nascessi a un nuovo essere, a un altro ordine di idee. Un'angoscia spaventosa mi mordeva il cuore, e ogni minuto che passava mi sembrava nello stesso tempo un secondo e un secolo [...] Questa passione, appena nata, si era radicata in maniera incrollabile e non mi veniva nemmeno fatto di pensare alla possibilità di sradicarla. Quella femmina mi dominava ormai interamente: con un solo sguardo aveva fatto di me un altro uomo, mi aveva iniettato la sua volontà. Mi comportavo in modo assurdo, baciavo la mia mano nel punto in cui lei l'aveva sfiorata, stavo ore intere a ripeterne il nome. Appena chiudevo gli occhi, la vedevo così distintamente come se fosse presente, e mi ripetevo di continuo le parole che lei aveva pronunciato sul portale della chiesa: "Sciagurato, che hai fatto?".
Mi rendevo conto dell'orrore della mia situazione, e tutti gli aspetti più tristi del mio stato mi rivelavano con chiarezza: essere prete voleva dire rimanere casto, non fare all'amore, non badare mai né al sesso né all'età, distogliere gli occhi da ogni bellezza, comportarsi come un cieco, strisciare sempre nell'ombra gelida di un chiostro o di una chiesa, non avere contatti che con i moribondi, vegliare cadaveri di sconosciuti, e portare sempre il lutto, con quella sottana nera che, così com'era, avrebbe potuto servire benissimo anche come sudario per avvolgermi nella bara! [...] Mi prese un braccio, e mi guidò verso la camera ardente. Io piangevo quanto lui, perché avevo ormai indovinato che la morta altri non era che la mia Clarimonde, così disperatamente amata.
Mi inginocchiai, senza osar di gettare un'occhiata nel catafalco al centro della stanza, e mi misi a recitare i salmi con fervore, ringraziando Dio di aver posto un sepolcro fra me e quella donna, il che mi permetteva di pronunciare nelle mie preghiere il suo nome, ormai santificato.
Ma a poco a poco il mio fervore diminuì, e cominciai a fantasticare. Quella camera non aveva nulla di una camera mortuaria. Invece dell'atmosfera fetida e cadaverica che si respirava sempre in tali luoghi, un languido profumo d'essenze orientali, un non so quale afrodisiaco odore di donna aleggiava dolcemente nell'aria tiepida. La tenue luce della stanza pareva un'illuminazione sapientemente predisposta per la voluttà, piuttosto che il livido riflesso dei ceri che di solito palpita accanto a un cadavere. Pensavo al caso singolare che mi aveva fatto ritrovare Clarimonde proprio nel momento in cui la perdevo per sempre, e un sospiro di dolore mi sfuggì dal petto.
Mi parve di udire un sospiro anche alle mie spalle, e mi voltai istintivamente. Era soltanto l'eco, ma in quel movimento gli occhi mi caddero sul catafalco che prima avevo cercato di non guardare. I drappeggi di damasco rosso lasciavano vedere la morta, distesa con le mani incrociate sul petto. Era avvolta in un sudario di lino, d'un bianco abbagliante che risaltava ancor più accanto al colore sanguigno dei tendaggi, e così lieve che nulla riusciva a nascondere della sagoma seducente del suo corpo. Si sarebbe detta una statua di alabastro, oppure una giovane dormiente, su cui fosse caduta la neve.
Non riuscivo più a trattenermi: quell'aria di alcova mi aveva eccitato, e camminavo a lunghi passi per tutta la stanza, fermandomi di continuo a contemplare la bella defunta, sotto la trasparenza del sudario. Strani pensieri mi passavano per il capo. Immaginavo che non fosse davvero morta, e che tutto fosse una sua manovra per attirarmi nel castello e parlarmi del suo amore.
E poi mi dissi: "Sarà proprio Clarimonde? Che prove ne ho? Quel paggetto nero potrebbe aver cambiato padrona. Sono davvero un pazzo a disperarmi così."
Mi avvicinai al catafalco, e guardai con un'intensità anche più grande la causa dei miei tormenti. Devo confessarlo? La perfezione delle sue forme mi turbava in modo indicibile, e quel suo giacere era così simile a un semplice sonno che chiunque avrebbe potuto restarne ingannato.
Dimenticai che ero venuto in quel luogo per un servizio funebre, e mi figurai come uno sposo per la prima volta nella camera della giovane moglie che si copre il volto, pudica. Sconvolto dal dolore, rapito dalla gioia, tremante a un tempo di timore e piacere, mi chinai verso di lei e sollevai l'angolo del lenzuolo, trattenendo il respiro come per paura di svegliarla.
Era davvero Clarimonde, come l'avevo vista in chiesa il giorno in cui ero stato ordinato prete: era seducente come allora, e la morte sembrava aggiungerle una civetteria supplementare. Rimasi a lungo assorto in quella muta contemplazione e, più la guardavo, meno potevo convincermi che la vita avesse potuto veramente abbandonare quel corpo stupendo. Le toccai lievemente il braccio: era freddo, ma non più della sua mano quando aveva sfiorato la mia sotto il portale della chiesa.
Ah! Che atroce sentimento di disperazione e d'impotenza! Che agonia era per me quella veglia! La notte avanzava, e con l'alba sentivo avvicinarsi il momento della separazione eterna. Non potei impedirmi la triste e suprema dolcezza di deporre un lieve bacio sulle labbra di colei che aveva avuto tutto il mio amore.
O prodigio! Un tenue respiro si mescolò al mio, e le labbra di Clarimonde risposero alla pressione delle mie: i suoi occhi si aprirono, si illuminarono, e lei, sospirando, aprì le braccia e me le passò attorno al collo, con un'aria di estasi ineffabile.
"Romualdo", mi disse con voce profonda e dolce, simile alle vibrazioni finali di un'arpa. "Che fai? T'ho atteso così a lungo che ne sono morta. Ma ormai siamo uniti l'uno all'altra. Potrò vederti e venire da te. Addio, Romualdo, addio. Ti amo, e offro a te questa vita, che tu hai richiamato in me per un istante con un bacio. A presto."
Reclinò la testa, mentre le sue braccia ancora mi circondavano. Un turbine di vento spalancò la finestra ed entrò nella stanza. I lumi si spensero, e io caddi svenuto sul petto della bella defunta [...] Svanì quindi nell'aria come nebbia, e non la rividi mai più. Purtroppo, con le sue ultime parole aveva detto il vero. L'ho rimpianta più di una volta e la rimpiango ancora. Ho acquisito ormai la pace dell'anima, ma a ben caro prezzo: l'amore di Dio non è stato poi eccessivo per sostituire il suo."

Più celebri restano le donne morte e sepolte e spesso riesumate cantate da Poe, http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/edgar-poe-le-poesie-piu-belle.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/commento-ad-edgar-poe-per-la-poesia-il.html


e le ancora più orride e criminali donne celebrate da de Sade, spesso sporche di feci e di urina nonché flatulenti come l'eroina sadiana Desgranges, senza una mammella, mancante di tre dita, sei denti e un occhio, zoppa, sporca, e che pure, scatena e infiamma tanta libidine sadiana, molto più che non "le verginali fanciulle belle come Venere, tutte gigli e rose" che nelle pagine sadiane vengono immolate a mo' di agnelli sacrificali...  http://studifilosofia.blogspot.it/2015/03/donatien-alphonse-francois-de-sade_10.html


Nell'imitazione di un de Sade potremmo citare i Cradle of Filth quando celebrano una Contessa Bathory





non plus ultra, nell'immaginario collettivo di tutti, della donna bella, pazza e sadica... e che pur seduce e attrae.

Certo, c'è sempre da sottolineare che gli autori che si lasciano andare a scrivere racconti morbosi, disgustosi, violenti, non sono di certo dei serial killer né che farebbero quelle cose dal vivo; se ragionassimo con questo metro di giudizio, allora dovremmo mettere in carcere con l'accusa di "potenziali serial killer cannibali" tutti quelli che scrivono o cantano di splatter:


come Clive Barker, deducendo che "siccome ha scritto un racconto dove dei corpi umani vengono appesi a dei ganci da macelleria"


allora questo significa che Clive Barker appende le persone ai ganci da macelleria :P
o che siccome i Cannibal Corpse fanno uscire cd con queste copertine


si sta parlando di persone che fanno attentati e si mettono a banchettare con i cadaveri o uccidono e smembrano i loro fans ai concerti :P

Credo sia utile riportare questa riflessione fatta da Wes Craven, uno che di horror se ne intedeva.



















è su questo suggestivo punto di vista che si basa la trama di "Nightmare: Nuovo Incubo" che suggerisco di vedere


è questo particolare passaggio sul discorso "finzione non è realtà", che non capiscono i "cristiani anti rock": non è che mettersi del sangue finto a mo' di make up per qualche ora di concerto, scrivere di cimiteri e vampiri



ti renda un
serialkillerstupratorenecrofilocannibalecheevocademoniesacrificabambiniasatana (come piace pensare a quel genere di cristiani...)

Per esempio, questo è Dani dei Cradle of Filth con sua moglie e sua figlia Luna




 Il personaggio-Dani sul palco è solo spettacolo


esattamente come chi "gioca" al Cosplay. Non è che vestirsi da Superman significhi credere di poter anche volare :P