Ippolito Pindemonte: introduzione ai versi più belli

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Nato a Verona nel 1753 e morto nel 1828.
Nella sua giovinezza viaggiò a lungo in Italia e all'estero. L'opera più duratura del Pindemonte è la traduzione dell'Odissea, alla quale è ancora legato il suo nome. L'indole mite e malinconica lo avvicinò alla poesia notturna e sepolcrale, che in quei tempi fioriva specialmente in Inghilterra per opera di Edward Young e Gray. Espresse la sua intima malinconia, il suo amore alla serenità dei campi nelle "Poesie campestri" ("Nè mai quel fonte,
Co’ desir miei, Nè mai quel monte Trapasserò", i miei desideri non andranno mai oltre la serena pace dei campi, che è il dono migliore che possa essere concesso ad un'anima pura, si legge in "La Melanconia", personificata come ninfa che vaga per campi ornati da fonti e colline, di faggi, di ruscelli, di lune argentea)
Il Foscolo dedicò il suo bellissimo carme "I sepolcri" al "dolce amico Pindemonte", il quale in quei tempi stava componendo un poemetto, "I cimiteri", rimasto poi incompiuto.


"La Melanconia"

Fonti, e colline
Chiesi agli Dei: M’udiro al fine,
Pago io vivrò.
Nè mai quel fonte,
Co’ desir miei,
Nè mai quel monte
Trapasserò.

[...]


Melanconia,
Ninfa gentile,
La vita mia
Consegno a te.
I tuoi piaceri
Chi tiene a vile,
Ai piacer veri
Nato non è.

[...]

O che ti piaccia
Di dolce Luna
L’argentea faccia
Amoreggiar;
Quando nel petto
La Notte bruna
Stilla il diletto
Del meditar

[...]




"La Solitudine"

Pien d’un caro pensier, che mi rapiva,
Giunto io mi vidi ove sorgean d’antica
Magion gli avanzi su deserta riva.     
Cinge le mura intorno alta l’ortica,
E tra le vie della cornice infranta
L’arbusto fischia, e tremola la spica.     
Scherza in cima la vite, o ad altra pianta
In giù cadendo si congiunge e allaccia,
E di ghirlande il nudo sasso ammanta:     
E con verde di musco estinta faccia
Sculto Nume qui giace, e l’umil rovo
Là gran pilastro rovesciato abbraccia.     
M’arresto; e poi tra la folt’erba movo:
Troppo di cardo o spina al piè non cale,
E nel vóto palagio ecco mi trovo.     
Stillan le volte, e per l’aperte sale
Passa ululando l’Aquilon, nè tace
Nel cavo sen dell’ozïose scale.     
E pender dalle travi odo loquace Nido,
entro cui tenera madre stassi
I frutti del suo amor covando in pace.     
Quindi sul campo con gli erranti passi,
Per via diversa dalla prima, io torno.
Veggo persona tra i cespugli e i sassi.     
Sedea sovra il maggior masso, che un giorno
Sorse nobil meta d’alta colonna:
Abbarbicata or gli è l’edera intorno. [...]

Ma su lucido colle, o per la verde
Notte d’un bosco, co’ pensieri insieme,
E co’ suoi dolci sogni, in cui si perde,     
Passeggia il mio fedele, e duol nol preme,
Se faccia d’uom non gli vien contro alcuna,
Perchè sè stesso ritrovar non teme;     
E nel silenzio della notte bruna
Estatiche fissar gode le ciglia
Nel tuo volto soave, o argentea Luna;     
E per l’ampia degli astri aurea famiglia
Gode volar, di Mondo in Mondo passa,
[...]


"Alla Luna"

Grato al piacer, che move
Da te, vergine Diva, e in sen mi piove,
Te canterò: m’insegna
Deh tu quell’armonía,
Che del pudico indegna
Orecchio tuo non sia,
Che parte stillar possa in cor del Saggio
Di quel dolce, ond’è pieno il tuo bel raggio.

Oh quante volte il giorno
Insultai col desío del tuo ritorno!
L’Ore in oscuro ammanto,
E con vïole ai crini,
T’imbrigliavano intanto
I destrieri divini,
E su l’apparecchiata argentea biga
Il Silenzio salía, tuo fido auriga. 

[...]


"La Giovinezza"

Di folto e largo faggio
Sotto l’intreccio verde,
Per cui varcando perde
Il più cocente raggio,
Un bel mattin di Maggio
Vidi posare il fianco
Bellissima una Donna:
Il color della gonna
Era purpureo, e bianco.

n questo, e in quel colore
La guancia si tingea:
Nelle pupille ardea
Un tremolo fulgore.
Par che il seren del core
Su la fronte si spanda,
E passi in chi la mira;
E intorno al crin le gira
Di rose una ghirlanda.

[...]



"La Notte"

Già sorse, ed ogni stella in ciel dispose
Notte con mano rugiadosa e bruna;
Piena nell’orbe suo splende, e le cose
Di soave color tinge la Luna;
E della villa, e delle popolose
Città la gente si rinserra e aduna:
Ma qui su questa rupe, ond’uom non veggio,
Signor del Mondo abbandonato, io seggio.

[...]

Cupo tenor di musica locusta,
E romorosi più nella profonda
Quïete o rio tra i sassi, o al vento fronda.

[...]

Tu, benchè l’ombre da presenza rotte
Non sien di Luna, o d’astro alcun, pur suoli
Tesser musiche voci, e della Notte
L’orror più tenebroso orni e consoli.
Ambo il canto innalziam tra rupi e grotte,
Paghi, quantunque non uditi e soli:
Chè non cerca il piacer nell’altrui lode,
Chi al proprio cor di soddisfar sol gode.

[...]

Salve, gran Dea: te da sue torri onora
L’osservator d’arcani vetri armato,
Se mai qualche tua gemma ignota ancora
Nel velo, o nel crin tuo scoprir gli è dato.
Ma tutta rimirarti, e tutte a un’ora
Goder le tue bellezze è a me più grato.
Notte, de’ vati, e cor teneri amica,
Coroni il nome tuo la mia fatica.



"Lamento d'Aristo in morte di Giuseppe Torelli"

Stracciò dal crine il mirto, onde solea
La poetica fronte Aristo ornarsi;
Aristo d’ermi campi, e d’erme selve
Fatto pensoso abitator: dal crine
Quelle stracciossi allegre frondi, e il colle
Salì rapidamente, alla cui vetta
Sorgon bruni cipressi, ond’è ricinto
Del pallido Eremita il sacro albergo,
Ed un ramo ne svelse, e intorno al capo
Sel girò, se l’avvinse; indi si fece
Sedil d’un sasso, di rincontro a balze
Di grato orror dipinte; e poi che alquanto
Con la mente vagò da sè lontano,
Trasse lungo dal core imo un sospiro,
E tai sensi innalzar l’udì la Notte,
Che già in fosco tingea la terra, e il cielo.

Queste del gufo, il qual duolsi alla Luna,
Non son le voci flebili, allungate,
Che nel silenzio della notte bruna
Ad un oppresso cor giungon sì grate?
O pensieroso augel, di ria fortuna
Portator ti accusò la vecchia etate:
Ma udito, se ver fosse il detto antico,
T’avrei la notte, in ch’io perdea l’Amico.

[...]

Se la pompa feral di quella sera
Romper non vidi l’orride tenebre
Col tetro lume della bianca cera,
Nè il sacro udíi di pace inno funebre,
Qual pro, se tutto nell’orecchio m’era,
Tutto innanzi mi stava alle palpebre?
Se della tomba sua ne’ sentier bui,
Benchè lontano, io discendea con lui?



 
AGGIORNAMENTO tratto da


Durante il periodo neoclassico non erano spenti i germi di quell'intensa sensibilità, fantasiosa e nuova, che era stato il Preromanticismo. Anzi opera in questa epoca un poeta assai importante, che rappresenta l'anello di congiunzione tra il gusto notturno e sepolcrale, ossianesco e cesarottiano, e il Foscolo, tra la sensibilità preromantica e il Romanticismo: Ippolito Pindemonte.
Pindemonte nacque a Verona nel 1753 e morì nel 1828.
Di sentimenti democratici, celebrò la Rivoluzione Francese nel poemetto "La Francia" (1789) ma non celebrò Napoleone.
Abbandonò l'idea di un poemetto sui Cimiteri allorché il Foscolo scrisse e gli dedicò "Dei Sepolcri".
Un intenso impegno letterario è presente nelle sue opere principali "Poesie Campestri" (1788) e le "Prose" (1817), il romanzo "Abaritte" (1792), la traduzione dell'Odissea, la tragedia "Arminio" (1804), il poemetto "Il colpo di martello del campanile di San Marco in Venezia" (1820)
Le sue origini furono arcadiche; al vaglio dell'esperienza del Cesarotti la musa malinconica del Pindemonte ebbe dischiuso un nuovo mondo, espresso nelle Poesie Campestri: liriche di uno spirito fine, amante della solitudine, della vita semplice, dei campi, delle lunghe riflessioni su aspetti e cose della natura per la cui celebrazione si compiacque di adoperare tonalità tristi, persino orride e fosche, tratte dal patrimonio ossianesco, risentite di un'eleganza tutta propria.

"Oh speranze fallaci! Oh mesti soli,
che ora per tutta la celeste volta
io con sospiri inutili accompagno!
Foscolo, vieni, e di giacinti un nembo
meco spargi su lei: ravvisti a tempo
i miei concittadin miglior riposo
già concedono ai morti [...]"

Il fratello di Ippolito, Giovanni Pindemonte, invece scrisse tragedie sull'influsso di Shakespeare: Mastino I della Scala, Ginevra di Scozia, Elena e Gerardo, Cicinnato.