Invito alla lettura di Alfonso Varano

Tratto da



Il poeta delle "Visioni" prende, se non vita, rilievo stereoscopico al limite delle classi contigue del passato e del futuro letterario: il suo passato si chiama maniera grande delle province pontificie, tradizione dantesca e cultura delle Legazioni: il suo futuro, richiamando ad uno ad uno gli stessi termini storico-geografici, si chiama Monti, il suo corregionale più illustre, dai tempi della devoluzione estense e della guardia assunta dai Cardinali Legati alla linea del Po. Quando poi si prescinda dal capitolo illustre della fortuna di Dante oltreappennino, la cronologia (nato nel 1705, morto nel 1788) ed il gusto poetico richiamano al Barocco, che è pure una costante sottointesa all'Arcadia Neoclassica ad unire o almeno a gettare un ponte fra Secentismo e Romanticismo. Per questa via i preliminari alla sua lettura si imbattono nel Frugoni più enfatico e descrittivo e lì si concludono.


VISIONI

IL PRECIPIZIO

Trattandosi di "Visione", è di prammatica la terzina dantesca; ma è evidente che lo scrittore lavora nell'esterno a ricostruire gli effetti di quella poetica del forte immaginare che in Dante era psicologicamente ed esteticamente una situazione originaria, un dato primordiale ed elementare del suo rivivere; e che il sussidio più valido gli viene dato dalla cultura e dalla maniera grande che persegue volenteroso. Ha il suo valore che fra Dante e Petrarca scelga, stimolato dall'ambiente, Dante; ed è singolare che l'osservazione assidua dei particolari naturalistici, proprio della prosa scientifica, sia irrobustita e proclamata da contrasti scenografici di luci e ombre.

Era tranquillamente azzurro il mare,     
ma sotto a quella balza un sordo e fisso     
muggito fean le spumanti acque amare;
ché un fiume, cui fu dal pendío prefisso     
cieco sotterra il corso, ivi formava     
co’ moti opposti, un vorticoso abisso.
Desío di rimirar qual s’aggirava     
a spire il flutto, e tratto poi dal peso     
perdeasi assorto nell’orribil cava,
me mal saggio avviò fin allo steso     
dentro i profondi golfi orlo del masso,     
e da incauto affrettar
così fui preso,
che sul confin io sdrucciolai col passo.     
Dall’erta caddi, e un caprifico verde     
afferrai sporto fuor del curvo sasso.
Gli spirti, che il terror fuga e diperde,     
corsermi al cor lasciando in sé smarrita     
l’alma, che il ragionar stupida perde.
In cotal guisa l’infelice vita     
sospesa al troppo docil tronco stette
fra certa morte e vacillante aita.
Su l’onde in rotator circoli strette     
fissai, ritorsi, chiusi le pupille     
da un improvviso orror vinte e ristrette;
e tal ribrezzo misto a fredde stille     
d’atro sudor m’irrigidì le avvinte     
mani al sostegno mio, che quasi aprille
fra cento vane al mio pensier dipinte     
idee, che furo in un momento accolte,     
e cangiate, e riprese, e insiem rispinte.
Sconsigliato tentai colle rivolte     
piante, e al dirupo fitte, arcando il dorso,     
arrampicarmi alle pietrose volte;
ma il piè a toccar la roccia appena scorso     
era, che il ritirai, dubbio qual fosse     
peggior o il mio reo stato, o il mio soccorso;
perché all’arbor, che al grande urto si scosse,     
temei col raddoppiar l’infausta leva     
sveller affatto le radici smosse.
Grida tronche da fremiti io metteva,     
che dai concavi tufi e dalle grotte     
un eco spaventevol ripeteva.
Già dal forzato ceppo aspre e dirotte     
sul corpo mi piovean ghiaie ed arene,     
e l’ime barbe già scoppiavan rotte;
già l’alma ingombra avean larve sì piene     
di morte, che pareami, anzi io sentia     
le inghiottite acque entrar fin nelle vene;
perché il vortice infranto, che salía     
in larghi spruzzi dai spumanti seni,     
col ribalzato mar mi ricopria.
[...]


DELLA VANITà DELLA BELLEZZA TERRENA PER LA MORTE D'AMENNIRA

Tomba feral, ma nel coverchio aperta,     
che parea da tremoto, o turbin fiero     
pel diroccato suo colmo scoperta.
Vergate d’oro in un macigno nero
Tai brevi rilucean lugubri note:     
sacro all’ottimo Dio massimo e vero.
Quella, che fia specchio all’età rimote     
del vedovile onor, che afflitto or tace,     
nota in pietade anche alle genti ignote,
Amennira (ahi che lessi!) oimè! qui giace.     
Chiunque l’orme in queste sabbie imprime,     
riposo preghi alla sciolt’Alma e pace.
Ristetti, inorridii, sdegnai le prime     
incaute brame, che me spinser lasso     
quelle a calcar piagge deserte ed ime;
poi vergogna ed amor al dubbio passo     
diér moto sì, che lentamente salse     
pe’ gradi, che cignean il tetro sasso:
ma ribrezzo in toccar l’urna m’assalse,     
e la mia lena interna al terror mista    
il gel nascente a superar non valse.
Tremando alfin afferrai l’orlo.
Ahi vista squallida,
lagrimevole, dogliosa,    
Ahi d’umana beltade immagin trista!
Su letto di putredine schifosa     
Giacca dal tempo nel suo morder forte     
l’estinta spoglia avidamente rósa:
fitti i rai spenti entro l’occhiaje smorte,     
guaste le labbra, aperto il petto, e Fanclie     
gonfiate, e tinte di livida morte:
rigide e impallidite le man bianche,     
dilacerato il grembo, e combattuto    
dalle serpi non mai nell’ira stanche:
lezzo, noja ed orror quel, che rifiuto     
fu degl’ingordi vermi, ed era in lei
la più vezzosa parte il cener muto.
Abborrii sì que’ lordi avanzi e rei,     
che colla fronte addietro volta io mossi     
giù dagl’infausti gradi i passi miei;
e colmo di stupor, quasi un Uom fossi     
che sogna, e a sè chiede se vegli, o dorma     
fra i dubbj dal sognar stesso in lui mossi,
a me chiedea: vera, o ingannevol forma     
gli affascinati miei sensi delude?     
Travidi? o pur del piè la stabil orma
lasciai su queste solitudin crude?     
Chi ad Amennira alzò tomba sì grande     
in terre d’ogni ancor vil pianta ignude?
O forse il nome addita altra, che spande     
pari onor, Donna estinta, ed a me sembra,     
che sue sieno le offerte altrui ghirlande?
Ma qual altra in virtude egual rassembra     
a lei, che amore e morte in cor mi pose?     
E di chi son quelle infelici membra?
Quelle son, che tu amasti, ella ripose.
[...]
Né mesto, ma tranquillo il viso grave,     
e maggior dell’antica era l’immago.
La mente, che le larve oscure pave,     
dal leggiadro sentì Spettro diffusa     
maravigliosa in sé luce soave;
e dalla piena calma al core infusa     
argomentò, che quella fosse un’Alma     
O dal Ciel scesa, o in pace a viver usa.
Fiso io guardava l’impalpabil salma,     
ch’ove avvien, che il vel doppio in sen trabocchi,     
stretta avea l’una insieme all’altra palma,
e all’alto i lumi da pietà sì tocchi     
volgea, che mai lassù non fùro affissi    
nè più amorosi, né più amabil’occhi.
Tacendo essa, io pur tacqui, o non ardissi,    
O me rendesse muto il mio stupore.     
Confuso alfin ruppi il silenzio, e dissi:
O mia misera speme, e mio dolore,     
fra le spolpate nel funereo seggio     
Ossa tue carche di cotanto orrore, Amennira,
ed è ver ch’io ti riveggio?     
O pur fra i sogni e i simulacri vani     
del mio turbato immaginar ondeggio?
Da quali ignoti spazj, e alberghi arcani     
degli astri, o degli abissi a me tu vieni    
tratta di Morte dalle ferree mani?
Ma da qualunque a me sede ti meni     
sì amico volo, ah! tu soave spiri     
grazia, e fra il lutto ancor mi rassereni.
[...]


LE SORGENTI DELL'ARNO

L'autore, fra barocchismo e Preromanticismo, rende "orrendo" quel paese di Falterona, così prossimo alla mite estasi della Verna. "Crudo sasso" per altro, nella scenografia dantesca delle Stimmate. Stilemi naturalistici e lucreaziani a stento trovano un varco fra le reminiscenze arcadiche.

Vago di penetrar perchè Natura     
non mai d’Arno gli umori appien consumi,     
e incerto ancor, se del mar l’onda impura
per sotterranee ghiaje e schiusi dumi     
feltrata salga alle montagne, e scenda     
partita in rivi, ed in perpetui fiumi,
io l’erta ascesi d’una roccia orrenda,     
che in mezzo all’Appennine Alpi nevose     
le vie Tosche e l’Emilie avvien che fenda;
Ch’ivi scontrando ognor le rigogliose     
acque scorrenti dall’origin prima     
disvelarne credei le fonti ascose.
Stendeasi larga quell’alpestre cima     
in scabri sì, ma rinverditi prati,     
benché ad aspro soggetti indocil clima:
Questi d’argin informi, e di solcati     
dorsi, e di gore, e d’ineguali fosse     
in varie strane fogge eran vergati.
Cento scorgeansi in essi, ove serbosse     
la pioggia, late vasche, altre già vote     
d’acqua, altre sceme, altre ricolme e grosse.
Di là salii balze più eccelse, e note     
solo ai rapaci augelli, e trovai boschi,     
spelonche e abissi, in cui giaceano immote
le nevi e ghiacci, o splenda il giorno o infoschi,     
non mai squagliati, perchè troppo inerte     
È il sole a riscaldar quegli antri foschi.
Vidi in altre caverne al ciel scoperte     
grondar le linfe dal pendio condotte     
delle inzuppate, e ai raggi terre aperte;
e da più alte selve altre dirotte     
fonti precipitando in tufi e in greppi     
perdersi dentro a fesse rupi e a grotte.
Lassù pur il camrain fra schegge e ceppi     
rósi, e pomici mai non viste altrove     
tentai, né come il superassi io seppi;
e colà rimirai voragin nove,     
e rappresi entro a quelle, e sciolti umori     
del Libic’austro per l’estreme prove,
e campi squallidissimi peggiori     
di quel ch’Uom finger possa, alberghi solo     
di nevi e di gelate acque e d’orrori.
Da tai di tante piogge in erto suolo     
serbatoi vasti un sovra l’altro stanti,     
e dal vario del sol girar dal polo,
e dai venti fra lor vario-spiranti,
e dai vapor, che il sotterraneo foco     
alza entro al monte, e striscian fuor grondanti,
argomentai, che il misto ordin del loco     
a prestar atto sia continue l’onde     
spinte in giù dalla scesa a poco a poco
O fra sterili sassi, o erbose sponde;     
E il fiume tragga sol perenni l’acque     
Dai montani antri e vasche, e non d’altronde.
[...]


Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/10/dallilluminismo-al-preromanticismo.html