Il Romanzo Nero (4) Charles R. Maturin

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"Melmoth è destinato a consumare in fiamme di grande portata spirituale tutto quello che, in potenza, resta nelle risorse di un genere. Si può dire che fu il canto del cigno del Romanzo Nero", scriveva André Breton.

Il padre di "Melmoth  o l'uomo errante" è il reverendo Charles Robert Maturin; Maturin aveva pubblicato già alcuni libri sotto lo pseudonimo di Dennis Jasper Murphy ("La fatale vendetta o la famiglia Montorio", "Il selvaggio ragazzo irlandese", "Il Capo milesiano") quando pubblica col suo vero nome "Bertram", un tragedia del 1816 e "Melmoth".



La storia è ripresa in parte  da un romanzo del 1799, il "Saint-Leon" di William Godwin, il padre di Mary Shelley, e risente del "Monaco" di Lewis, della "Religiosa" di Diderot e della leggenda dell'ebreo errante.

La figura dominante è quella del terribile Melmoth, "i cui occhi erano di quelli che si vorrebbe non aver mai visto e che è impossibile dimenticare."
Melmoth ha concluso un patto con Satana ottenendo "un'esistenza prolungata ben oltre il tempo ordinario con il potere di attraversare lo spazio immediatamente e senza difficoltà, e di visitare le regioni più lontane con la velocità del pensiero, sfidando la folgore senza venir colpito." Questi poteri servono per tentare i miserabili nell'ora della disperazione offrendo loro la speranza della liberazione a condizione che mutassero la loro posizione con quella di Melmoth. Ma nessuno ha mai voluto scambiare la sua sorte con quella di Melmoth. E scaduti i centocinquanta anni, Melmoth viene scaraventato in mare dal demonio.

Il successo di "Melmoth" fu breve, ma influenzò Victor Hugo, Charles Nodier, Alexandre Dumas, Balzac ed Eugène Sue, tutti debitori riconoscenti di ispirazione, ambienti e ritmi narrativi.

C'è anche un seguito, "Melmoth Riconciliato" (1835), scritto da Balzac, tanto ossessionato da questo eroe dal volerlo strappare alla sua sorte: Melmoth, infatti, riesce a scambiare la sua anima con quella di un cassiere disonesto, Castanier, e quindi a morire riconciliato con Dio. Castanier, a sua volta, riesce a cederla ad un banchiere sull'orlo della rovina.


Ma più di tutti resterà colpita da Melmoth la fantasia tormentata del Baudelaire in "I Fiori del Male":


"Ricordiamoci di Melmoth, ammirevole emblema. La sua spaventosa sofferenza sta nella sproporzione tra le meravigliose facoltà acquistate istantaneamente, grazie ad un patto satanico, e il mondo in cui, come creatura di Dio, è condannato a vivere. E nessuno di quelli che lui vuole sedurre acconsente ad acquistargli, alle stesse condizioni, il suo terribile privilegio! In effetti, qualsiasi uomo che non accetta le condizioni della vita, vende la sua anima. L'uomo ha voluto essere Dio, e ben presto eccolo, in virtù di una legge morale incontrastabile, caduto più in basso della sua reale natura."

Qui uno stralcio tratto da "Melmoth"

"Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si lamentino o meno, mi interessa poco."
"Eppure hai affermato che vuoi morire!"
"Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore! Non è forse ora che il meccanismo voglia essere ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore. Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella sua ragnatela"

"Il vecchio Melmoth era in uno stato di profondo torpore. Gli occhi avevano perduto l'espressione sia pure incerta che avevano prima; le mani, che si erano aggrappate convulsamente alla coperta, avevano ora abbandonato la debole presa tremante e si allungavano incerti come gli artigli di un uccello morto di fame: scheletriche, gialle, spalancate. John, per il quale la morte era uno spettacolo insolito, pensò che il vecchio fosse soltanto assopito, e spinto da un impulso che non tentò neppure di giustificare, riprese la candela e si avventurò di nuovo nella stanza proibita. I suoi passi svegliarono il moribondo che si drizzò a sedere sul letto. John non se ne accorse, perchè era già nello studiolo, ma udì il gemito, o piuttosto il rantolo che gorgoglia e soffoca in gola annunciando l'orribile conflitto fra le convulsioni del corpo e della mente. Rabbrividì, si fermò, e mentre si voltava per andarsene gli sembrò di vedere che gli occhi del ritratto, sui quali aveva fissato i suoi, si muovevano. Allora tornò di corsa nella stanza dello zio."