Carlo de' Dottori: i versi più belli dell'"Aristodemo"

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Carlo de' Dottori nasce a Padova nel 1618 e muore nel 1680. Le sue opere più celebri sono "l'Asino", un componimento satirico che vuole imitare "La secchia rapita" di Tassoni, e la tragedia "Aristodemo", composta nel 1657.

Nota di Lunaria: a questa tragedia si dedica anche Vincenzo Monti, che, nelle parti dove descrive il fantasma di Dirce, assume quasi uno stile da "gotico, romanticismo nero". Comunque, è probabile che a Carlo de' Dottori dedicherò, prossimamente, anche un altro post.

Trama: la drammatica vicenda contenuta nell'"Aristodemo" si svolge in Messenia. Ambizioso e certo di trovare nell'atto un mezzo per realizzare il proprio sfrenato desiderio di potere, Aristodemo sacrifica la figlia alla patria e la uccide personalmente senza remore. è solo nelle battute conclusive della tragedia, prima di suicidarsi, che maledice se stesso e la sua vita, in un monologo di furia rabbiosa; ma la protagonista della vicenda resta Merope che accetta la morte come impegno, con una rassegnazione serena. (Nota di Lunaria: esattamente come la figlia di Iefte, immolata dal padre come "ringraziamento" per jahvè, che gli ha fatto vincere la battaglia)


ATTO PRIMO, Scena Terza

Il dialogo tra Policare e Merope è percorso dalla dolcezza, dall'abbandono; tutto si assomma nella splendente immagine della bianca neve che brilla nella notte e che, col sorgere del giorno, spegne la sua luce nella luce del sole: così la bellezza e la presenza di Merope.

Policare: E doveasi con tanto
pregiudizio del Ciel dare in tributo
questa bellezza ai fieri Dei dell'ombre?
Di pretender cotanto ardia l'inferno?
E tanto ardia la terra? O lumi eterni,
di cui risplende un vivo raggio in questi
adorati begli occhi,
meditavasi dunque onta sì grande
dall'arbitrio superbo di Fortuna?

Merope: Policare, s'io vivo
vive un acquisto de' tuo' merti appresso
la celeste pietà. [...]

Policare: [...] Merope mia, tu vivi adunque? Appena
io crederei, così fu grande il rischio,
così crudele il mio timor. Ma sento,
sento ben io che nel mio cor discende
quel raggio che balena
nelle tue vivacissime pupille,
che m'assicura di tua vita, e il seno
d'una fiamma dolcissima m'ingombra.

Merope: Forse che sembra lume
quel che non è, ma tale
a te lo rende il paragon dell'ombre.
Ei nacque dall'oscure
tenebre del periglio, e nel sereno
ben tosto svanirà. Neve del Caspe (1)
così notturna splende,
ch'all'apparir dell'alba
pallida langue, e perde
il suo lume col dì.

Policare: Fu sempre lume
questo che manda il tuo bel volto, e sempre
i' n'arsi, e n'arderò.

Merope: Ma non potrebbe
uscir dagli occhi miei, se non avessi
foco nel sen. Dunque la fiamma è pari.

Policare: Dunque la nutre un sempre fido amore.

Merope: E con quella del rogo alfin s'unisca. (2)

Policare: E 'l cener nostro una sol'urna accolga. [...]


1) Monti a sud del Mar Caspio 
2) Così voleva la tradizione pagana, che i cadaveri fossero arsi


ATTO TERZO, Scena Prima

Aristodemo sacrifica la figlia; è un uomo arso dall'ambizione di un regno e vinto dalla sete di potere.

Aristodemo: Poiché del sangue nostro Averno ha sete,
si liberi la patria. Aristodemo
in difetto d'Arena (1) offre la figlia.
Io non ho dalla sorte
quest'obbligo, o Messenii,
ma dalla patria [...] Merope io v'offro
[...] Inutilmente non sarò stato padre. Alla salute
d'un regno generata avrò la figlia.
[...] Una vergine sola
degli Epitidi (2) chiude
l'avide fauci alla spietata Erinni, (3)
sazia per noi la morte, impiega tutta
la cupidigia dell'ingordo Abisso.

1) in mancanza, e perciò "in sostituzione"
2) Dinastia messenica, discendente da Epito, a cui apparteneva Merope.
3) Megera, Tesifone, Aletto erano le Furie o Erinni, dee infernali della vendetta


Scena Terza

Merope sostituirà Arena nel supremo sacrificio di sé, in nome della Patria e per volontà paterna. Se nelle parole della fanciulla si sente una rassegnazione inconsueta, nelle parole di Policare trascorre la voce del disperato dolore. Affettuosamente dolce e preoccupata della patria e dell'amato è Merope, nell'ora del sacrificio; sconvolto e senza pace è Policare, che vuole anche per sé la morte, come unica possibilità per ricongiungersi in spirito a Merope.

Merope: Policare, vicino
è 'l fin della mia vita. Il colpo attendo
che libera la patria; e mi preparo
a non temer sì gloriosa morte.
Io vado, e nulla meco
porterò di più nobile e più degno
della mia fé. Tu le memorie mie
pietoso accogli, e vivi.
[...] Così 'l mio sangue pur ti plachi il Cielo,
ti concilii Fortuna. Io fra le opache
ombre d'Eliso andrò narrando i casi [...]

Policare: Ch'io viva? io ti dia tomba? Io così vile,
crudel, ti sembro? E tal m'amasti? e tale
che se ferro mancasse, o tosco (1) o laccio,
non possa solo uccidermi il dolore? [...]
Scompagnata da me tu non vedrai,
Merope, Averno. Attenderò sul lido
la tua venuta, e varcheremo insieme;
per le tenebre cieche e per l'ignote
vie del sepolto mondo
precederò [...] Altri che morte
congiunger non ci può. Separa morte
le basse e non l'eccelse anime amanti [...]


1) Il tosco è il veleno. La successione incalzante delle domande rende più drammatico lo stato d'animo di Policare.


"Ministri, preparate un negro altare a Dite, uno alla Trina Ecate, alla Notte;" (sono tutte divinità infernali; nota di Lunaria)

"E nuovo latte e vino antico e sangue e di pigra palude onda pallida e grave di steril falce e di funebre tasso coronate le tempie e d'atre ( = oscure) bende."

Il monologo di Aristodemo dopo che ha assassinato la figlia:

"Rapitemi all'orrenda faccia del mio delitto,
O furia, O mostri, e renda il tetro carcere dell'ombre a queste luci mie più grato a petto.
Sommergete nel caos, che prima diede origine all'abisso...
M'odia l'Inferno, sì, ma non rifiuta di ricervermi in sé.
Mi consegni a me stesso; e qual maggiore mostro dell'odio mio, s'odio me stesso?
Il mio crudel errore poco vi rende e tolse molto: ma non è poco.
Un uccisor de' figli, un sacrilegio, un empio io levo al vostro demerito col cielo e della mia contagiosa fortuna io vi disgravo."

Qui aggiungo alcuni stralci tratti dall' "Aristodemo" di Vincenzo Monti

già visto qui: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vincenzo-monti-i-miei-versi-preferiti.html



Atto Primo, scena I

PALAMEDE: Narrerò sincero,
qual mi fu detta, la pietosa istoria
di questo sventurato. Era Messene
da crudo morbo desolata; e Delfo
della stirpe d'Epito una donzella
avea richiesta in sacrificio a Pluto.
Poste furo le sorti, e di Licisco
nomar la figlia. Scellerato il padre
e in un pietoso con segreta fuga
la sottrasse alla morte; e un'altra vittima
il popolo chiedea. Comparve allora
Aristodemo, e la sua propria figlia,
la bellissima Dirce, al sacerdote
volontario offerì. Dirce fu dunque
dell'altra invece su l'altar svenata;
e col virgineo sangue l'infelice
sbramò la sete dell'ingordo Averno,
per salvezza de' suoi dando la vita.

LISANDRO: Io già questo sapea; chè grande intorno
fama ne corse, e della madre insieme
dicea caso nefando.

PALAMEDE: Ella, di Dirce
mal soffrendo la morte, e stimolata
da dolor, da furor, squarciossi il petto
spietatamente, ed ingombrò la stanza
cadavere deforme e sanguinoso,
raggiungendo così nel morto regno,
forsennata e contenta ombra, la figlia,
ed ecco dell'afflitto Aristodemo
la seconda sventura [...]
Dopo il fatto d'Argia tutto lasciossi
a sua tristezza in preda Aristodemo;
né mai diletto gli brillò sul core,
o, se brillovvi, fu di lampo in guisa
che fa un solco nell'ombra e si dilegua.
Ed or lo vedi errar mesto e pensoso
per solitari luoghi, e verso il cielo
dal profondo del cor geme e sospira;
or vassene dintorno furibondo
e pietoso ululando; e sempre a nome
la sua Dirce chiamando, a' piè si getta
della tomba che il cenere ne chiude;
singhiozzando l'abbraccia, e resta immoto,
immoto sì, che lo diresti un sasso,
se non che vivo lo palesa il pianto
che tacito gli scorre per le fote
ed inonda il sepolcro. Ecco, o Lisandro,
dell'infelice il doloroso stato.


Scena IV

ARISTODEMO: Così pur fosse!
Ma mi conosci tu? Sai tu qual sangue
dalle mani mi gronda? Hai tu veduto
spalancarsi i sepolcri, e dal profondo
mandar gli spettri a rovesciarmi il trono?
A cacciarmi le mani entro le chiome
e strappar la corona? Hai tu sentito
tonar dintorno una tremenda voce
che grida "muori, scellerato, muori!"
Sì morirò; son pronto: eccoti il petto,
eccoti il sangue mio; versalo tutto,
vendica la natura, e alfin mi salva
dall'orror di vederti, ombra crudele.
[...] Ma che pretendi
col tuo pregar? Tu fremerai d'orrore
se il vel rinnovo del fatal segreto.

GONIPPO: E che puoi dirmi che all'orror non ceda
di vederti spirar su gli occhi miei?
[...] Ohimè! che ferro è quello?

ARISTODEMO: Ferro di morte. Guardalo. Vi scorgi
questo sangue rappreso?

GONIPPO: Oh dio! qual sangue?
Chi lo versò?

ARISTODEMO: Mia figlia. E sai qual mano
glielo trasse dal sen?

GONIPPO: Taci, non dirlo:
che già t'intesi.

ARISTODEMO: [...] Così de' sacerdoti alla bipenne
la mia Dirce proffersi. Al mio disegno
s'oppose Telamon di Dirce amante.
Supplicò, minacciò [...] e palesommi non potersi Dirce
sagrificar; dal nume esser richiesto
d'una vergine il sangue, e Dirce il grembo
portar già carco di crescente prole,
ed esso averne di marito i diritti.
[...] Da profondo furor, venni alla figlia.
Abbandonata la trovai sul letto,
che pallida, scomposta ed abbattuta,
in languido letargo avea sopiti
gli occhi dal lungo lagrimar già stanchi.
[...] La rabbia
m'avea posta la benda, e mi bolliva
nelle vene il dispetto; onde, impugnato
l'esecrando coltello e spento in tutto
di natura il ribrezzo; alzai la punta,
e dritta al core gliel'immersi in petto.
Gli occhi aprì l'infelice, e mi conobbe;
e coprendosi il volto: "Oh padre mio,
oh padre mio", mi disse, e più non disse.

GONIPPO: Gelo d'orrore.

ARISTODEMO: L'orror tuo sospendi;
ché non è tempo ancor che tutto il senta
sull'anima scoppiar. Più non movea
né man né labbra la trafitta: ed io,
tutto asperso di sangue e senza mente,
ché stupido m'avea reso il delitto,
della stanza n'uscia, quando al pensiero
mi ricorse l'idea del suo peccato.
E quindi l'ira risorgendo, e spinto
da insensatezza, da furor, tornai
sul cadavere caldo e palpitante;
ed il fianco n'apersi, empio!, e col ferro
stolidamente a ricercar mi diedi
nelle fumanti viscere la colpa.
[...] Corsemi per l'ossa
il raccapriccio, e m'impietrò sul ciglio
le lagrime scorrenti: e così stetti,
finché improvvisa entrò la madre, e, visto
lo spettacolo atroce, s'arrestò
pallida, fredda, muta. Indi qual lampo
disperata spiccossi, e, stretto il ferro
ch'era poc'anzi di mia man caduto,
se lo fisse nel petto, e su la figlia
lasciò cadersi, e le spirò sul viso.
[...] I sacerdoti, che del ciel la voce
son costretti a tacer quando i potenti
fan la forza parlar, taciti e soli
col favor delle tenebre nel tempio
la morta Dirce trasportaro; e quindi
creder fero che Dirce in quella notte
segretamente su l'altar svenata
placato avesse col suo sangue i numi,
e che di questo fieramente afflitta
sè medesma uccidesse anche la madre.
[...] Da qualche tempo
un orribile spettro...

GONIPPO: Eh! Lascia al volgo
degli spettri la tema, e dai sepolcri
non suscitar gli estinti [...]

 
Atto Terzo, Scena VII
 
ARISTODEMO: Ebben: sia questo adunque
l'ultimo orror che dal mio labbro intendi.
Come or vedi tu me, così vegg'io
l'ombra sovente della figlia uccisa;
ed, ahi, quanto tremenda! Allor che tutte
dormon le cose, ed io sol veglio e siedo
al chiaror fioco di notturno lume;
ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro
starmi d'incontro, ed occupar la porta
minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
in manto sepolcral, quel manto stesso
onde Dirce (1) coperta era quel giorno
che passò nella tomba. I suoi capelli,
aggruppati nel sangue e nella polve,
a rovescio gli cadono sul volto,
e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido
volgo altrove la fronte; e me 'l riveggo
seduto al fianco. Mi riguarda fiso,
ed immobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome
e piovendone sangue, apre la veste,
e squarciato m'addita, ahi vista!, il seno
di nera tabe (2) ancor stillante e brutto.
Io lo rispingo; ed ei più fiero incalza,
e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano
tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro
traverso i fianchi e mi trascina a' piedi
di quella tomba, e "Qui t'aspetto" grida,
e ciò detto, sparisce."

GONIPPO: Inorridisco.
O sia vero il portento o sia d'afflitta
malinconica mente opra ed inganno,
ti compiango, mio re. Molto patirne
certo tu dèi; ma disperarsi poi
debolezza saria. Salda costanza
d'ogni disastro è vincitrice. Il tempo,
la lontananza dileguar potranno
de' tuoi spirti il tumulto e la tristezza.
Questi luoghi abbandona, ove nudrito
da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo
la Grecia tutta, visitiam cittadi,
vediamone i costumi. In cento modi
t'occuperai, ti distrarrai... Che pensi?
Oimè! Che tenti, sconsigliato?"

ARISTODEMO: Io stesso
entrar là dentro.

GONIPPO: In quella tomba? Oh stelle!
Ferma! A qual fine?

ARISTODEMO: A consultar quell'ombra.
O placarla, o morir.


(1) è il nome della figlia uccisa da Aristodemo
(2) sangue