''Evernight'': recensione


Trama: "Torneremo insieme Bianca. Non so quando né come, ma so di non avere alcun dubbio. Non potrebbe essere altrimenti. Ho bisogno che anche tu ci creda. Perché credo in te."  E Bianca crede in Lucas, gli crede come non ha mai creduto in nessun altro prima d'ora.  Perché Bianca non è mai stata innamorata come lo è di lui. Perché il primo amore, quello che ti strappa il cuore e ti lascia senza fiato, è sempre vero. E non importa essere un vampiro, non importa se tutto e tutti sono contrari a questo sentimento Bianca e Lucas non vogliono scegliere da che parte stare. Bianca e Lucas, a 16 anni, tra i corridoi di Evernight, un esclusivo e misterioso collegio, hanno incontrato l'amore. E nessuno potrà portarglielo via.

E se Giulietta e Romeo fossero stati vampiri?

Commento di Lunaria: Notevole Urban Fantasy, a tinte vampiresche, decisamente migliore di altri Urban Fantasy "più famosi", per trama, colpi di scena e bellissime descrizioni dei luoghi dove si svolge la storia, in primis la misteriosa Accademia di Evernight, descritta come una sorta di cattedrale gotica, (anzi, "mostruosità gotica di pietra, enorme e ingombrante", per citare le parole dell'Autrice) che cela nei suoi corridoi misteri e intrighi. Sono presenti un po' tutti i cliché degli Urban Fantasy e che le lettrici di questo genere si aspettano (anzi esigono) da questo tipo di romanzi, dai protagonisti teen agers all'ambiente scolastico dove sboccia l'amore (contrastato), da atmosfere leggermente venate da brividi a intrighi e complotti da sventare, ma vengono rinnovati da una cura per i particolari e per il linguaggio decisamente ricercato, a confine con la poesia.

"Evernight" mi è piaciuto davvero tanto, e lo metto tra i miei primi cinque Urban Fantasy preferiti, dopo la "Touched saga", Blood Magic" https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/12/blood-magic-di-tessa-gratton-urban.html e "RoseBlood". https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/12/roseblood.html


La saga di "Evernight" comprende anche "Stargazer", Hourglass (https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/06/stargazer-recensione.html), "Afterlife" (spin off dedicato al personaggio di Balthazar)


Gli stralci più belli:   

"Mentre sprimacciavo i cuscini, ebbi la strana visione di qualcosa che avevo sognato la notte prima, vivido e presente come se fossi ancora immersa nel sonno. Un fiore color del sangue. Il vento ululava fra gli alberi che mi circondavano, frustava i rami scompigliandoli. Il cielo sopra di me ribolliva di nuvole inquiete.  Mi scostai dal viso le ciocche di capelli mosse dal vento. Desideravo soltanto guardare quel fiore.  Ogni petalo imperlato di pioggia era scarlatto, slanciato, simile a una lama, come certe orchidee tropicali. Eppure il fiore era anche rigoglioso e pieno, avviticchiato al ramo come una rosa. Era la cosa più esotica e seducente che avessi mai visto. Doveva essere mio."

"Mentre mi allungavo a cogliere il fiore, la siepe ebbe un fremito. Il vento, pensai, ma mi sbagliavo. No, la siepe si espandeva così velocemente da vederla crescere a occhio nudo. Tralci e rovi spuntavano tra le foglie in un groviglio confuso. Prima che potessi scappare, la siepe mi aveva quasi circondata, murata fra rami, foglie e spine."

"Mi sento sempre osservata", raccontò. "Sempre. Persino quando sono da sola. So di sembrare pazza, ma è vero. A volte ho la sensazione che gli incubi continuino anche dopo che mi sono svegliata. A notte fonda sento tonfi, cose che strisciano sul tetto. Quando guardo fuori dalla finestra, te lo giuro, a volte vedo un'ombra che corre nella foresta. E gli scoiattoli.. li hai visti, vero? Hai visto quanti ne muoiono?"

"Per un po' restammo entrambi in silenzio. La luce della luna filtrava fra le foglie d'edera e Lucas mi era vicino quanto bastava a captarne il profumo: qualcosa che mi ricordava il cedro e il pino, come i boschi da cui eravamo circondati, come se in qualche modo facesse parte di quel luogo oscuro."

"Capisco che tu voglia sapere quant'erano diverse le cose all'epoca. Quanto le cose cambino. Ma noi non cambiamo, Bianca. è l'aspetto più inquietante. è il motivo per cui tanti continuano a comportarsi da ragazzi anche dopo secoli. Non capiscono se stessi né il mondo in cui devono vivere. è una specie di adolescenza eterna. Non molto divertente. Strinsi le braccia per combattere i brividi scatenati dal freddo e dal pensiero degli anni, dei decenni e dei secoli che mi aspettavano, mutevoli e incerti."

"Il cambio di stagione non fu d'aiuto. L'architettura gotica della scuola era stata ammorbidita almeno un po' dalla vegetazione rigogliosa e dal verde dei prati in pendenza. Le finestre piccole e la sfumatura sinistra della luce non erano riuscite a filtrare del tutto lo splendore del sole di fine estate. Ora, invece, il tramonto arrivava prima ed Evernight sembrava più isolata che mai. Con il calare della temperatura, un freddo insistente strisciò nelle classi e nei dormitori, a volte sembrava addirittura che gli arzigogoli di brina sulle finestre fossero incisioni permanenti nel vetro. Persino le bellissime foglie d'autunno stormivano nel vento, ed era un rumore solitario, da mettere i brividi. Avevano già iniziato a cadere e a spogliare i primi alberi, che come artigli nudi graffiavano il cielo ingrigito di nuvole."

"Volevo che andasse oltre, che mi toccasse come sentivo il bisogno di essere toccata. La mia mente era annebbiata, quasi non riuscivo a pensare: c'era soltanto il mio corpo e ciò che esso esigeva da me. (...) Fermati, gridai a me stessa. Ma io e Lucas eravamo ben al di là del confine. Avevo bisogno di lui, subito. (...) Poi Lucas si lasciò andare, come senza vita. Era svenuto. (...) L'ampio squarcio che avevo aperto con i denti sul suo collo era scuro e umido sotto la luce della luna, scintillava come una chiazza d'inchiostro."




"La Morte di Ilalotha" di Clark Ashton Smith

Ringrazio Andrea per il contributo fondamentale


***


Nero Sovrano dell'orrore e della paura, Signore della confusione!

Tu, come afferma il tuo profeta,

Dispensi nuovi poteri agli stregoni dopo la morte,

E nella corruzione le streghe traggono un respiro proibito,

E intessono incantesimi ed illusioni

Quali soltanto le lamie possono usare:

E per il tuo volere i cadaveri putrefatti perdono

Il loro orrore, e amori nefandi si accendono

In cripte malsane da molto tempo oscure;

E i vampiri ti dedicano i loro sacrifici…

Facendo sgorgare sangue come se grandi urne avessero versato

Il loro fulgido contenuto vermiglio

Sui sarcofagi dilavati e tumultuosi.


Litania di Ludar in onore di Thasaidon


Secondo l’usanza dell’antica Tasuun, le esequie di Ilalotha, dama di compagnia della regina uxoricida Xantlicha, erano state occasione di baldorie e di festeggiamenti prolungati. Per tre giorni, in una bara di sete orientali multicolori, sotto un baldacchino rosato che avrebbe potuto degnamente coronare un letto nuziale, ella era rimasta, abbigliata di vesti di gala, nella gran sala dei banchetti del palazzo reale di Miraab. Intorno a lei, dall’alba al tramonto, dalla fresca sera all’aurora torrida, la marea febbrile delle orge funebri aveva turbinato continuamente senza attenuarsi. Nobili, funzionari di corte, guardie, sguatteri, astrologi, eunuchi, e tutte le dame, le ancelle e le schiave di Xantlicha avevano partecipato alla prodiga baldoria che veniva giudicata come il modo più adatto per onorare i defunti. Venivano cantati canti ebbri e distici osceni, e i danzatori vorticavano in vertiginosa frenesia al suono lascivo di instancabili liuti.  I vini ed i liquori scorrevano a torrenti dalle anfore mostruose; sulle tavole fumigavano carni condite di spezie, in mucchi sempre rinnovati. I bevitori offrivano libagioni a Ilalotha, fino a quando le stoffe del suo catafalco si macchiavano delle tinte più cariche dei vini rovesciati. Dovunque, intorno a loro, giacevano coloro che si erano abbandonati alle licenze erotiche o a libagioni troppo abbondanti. Con gli occhi socchiusi e le labbra lievemente aperte, nell’ombra rosea del baldacchino, Ilalotha non pareva morta: sembrava un’imperatrice addormentata che regnasse imparzialmente sui vivi e sui defunti. Questo particolare, oltre allo strano accentuarsi della sua naturale bellezza, veniva notato da molti; e alcuni affermavano che ella pareva in attesa del bacio di un amante, più che dei baci dei vermi. La terza sera, quando vennero accese le lampade bronzee dalle molte lingue, e i riti stavano ormai per concludersi, ritornò a corte il nobile Thulos, amante ufficiale della regina Xantlicha, che una settimana prima si era recato a visitare il suo feudo sul confine occidentale e non aveva avuto notizia della morte di Ilalotha. Ancora ignaro, egli giunse nella sala nell’ora in cui i saturnali cominciavano a rallentare, e il numero dei gaudenti caduti al suolo era più numeroso di quello di coloro che ancora si muovevano e bevevano e si davano alle baldorie. Thulos scrutò con scarsa sorpresa il disordine della sala, poiché simili scene gli erano familiari fin dall’infanzia. Poi, avvicinatosi alla bara, riconobbe la defunta con un certo sgomento. Tra le numerose dame di Miraab che avevano attratto le sue attenzioni di libertino, Ilalotha era durata più a lungo di tutte; e si diceva che si fosse addolorata più appassionatamente di ogni altra quando era stata abbandonata da lui.  Un mese prima era stata soppiantata da Xantlicha, che aveva dimostrato a Thulos il proprio favore senza ambiguità; e Thulos, forse, non l’aveva abbandonata senza rimpianto: perché il ruolo di amante della regina, sebbene vantaggioso e non del tutto sgradevole, era piuttosto precario. Xantlicha, a quanto si riteneva universalmente, si era sbarazzata del defunto re Archain per mezzo d’una fiala di veleno, scoperta in una tomba, che doveva la sua particolare sottigliezza e virulenza all’arte di antichi incantatori. In seguito, la regina si era presa molti amanti, e coloro che non le piacevano più avevano trovato una fine non meno violenta di quella di Archain. Xantlicha era esigente, capricciosa, e pretendeva un’assoluta fedeltà che per Thulos era intollerabile; e questi, adducendo a pretesto affari urgenti nelle sue lontane tenute, era stato ben felice di allontanarsi per una settimana dalla corte. Ora, mentre stava accanto alla morta, Thulos dimenticò la regina e rammentò certe notti d’estate, addolcite dalla fragranza del gelsomino e dalla bellezza, candida come i gelsomini, di Ilalotha. Più ancora degli altri, egli stentava a crederla morta: perché il suo aspetto attuale non differiva affatto da quello che spesso aveva assunto durante la loro relazione. Per compiacere il suo capriccio, ella aveva simulato l’inerzia e l’abbandono del sonno o della morte:  e allora egli l’aveva amata con un ardore non sgomentato dalla veemenza felina con cui, in altre occasioni, ella usava ricambiare o provocare le sue carezze. Di momento in momento, come per opera d’una potente negromanzia, Thulos fu preso da una bizzarra allucinazione, e gli parve di essere di nuovo l’amante di quelle notti perdute, di essere entrato in quel pergolato, nei giardini del palazzo, dove Ilalotha lo attendeva su di un giaciglio cosparso di petali, giacendo con il seno immoto come il volto e le mani. Era completamente dimentico della sala affollata: le luci ardenti, i volti arrossati dal vino erano divenuti un parterre di fiori che oscillavano dolcemente nel chiaro di luna, e le voci dei cortigiani non erano altro che un fioco sospiro del vento tra i cipressi e i gelsomini. I caldi profumi afrodisiaci della notte di giugno lo avvolgevano: e come allora gli pareva che nascessero non soltanto dai fiori, ma dalla persona di Ilalotha. Spinto da un intenso desiderio, si chinò e sentì il fresco braccio di lei fremere involontariamente sotto il suo bacio. Poi, con lo sbalordimento di un sonnambulo svegliato bruscamente, udì una voce sibilargli all’orecchio in toni sommessi e velenosi: - Hai dunque dimenticato chi sei, nobile Thulos? Per la verità non mi stupisco molto, perché molti dei miei cortigiani affermano che è più bella da morta che da viva. –  Volgendosi da Ilalotha, mentre il bizzarro incantesimo si dissolveva dai suoi sensi, Thulos trovò Xantlicha al proprio fianco. Le vesti erano in disordine, i capelli sciolti e scarmigliati, e barcollava leggermente, aggrappandoglisi alla spalla con le dita dalle unghie aguzze. Le labbra carnose, rosse come papaveri, erano contratte da una furia volpina, e gli occhi gialli dalle lunghe ciglia erano accesi dalla gelosia di una gatta in amore. Sopraffatto da una strana confusione, Thulos ricordò solo parzialmente l’incantesimo di cui era stato vittima; e non sapeva se aveva veramente baciato Ilalotha e aveva sentito la carne di lei fremere sotto la sua bocca. In verità, pensava, era impossibile: si era abbandonato per un momento a una fantasticheria. Ma era turbato dalle parole di Xantlicha e dalla sua collera, e dalle risate ebbre e furtive e dai mormorii ribaldi che udiva passare tra i presenti nella sala. - Stai in guardia, mio Thulos – sussurrò la regina, come se la sua ira si stesse placando, - perché dicono che fosse una strega… - Com’è morta? – chiese Thulos. - Di una febbre d’amore, si mormora. - Allora sicuramente non era una strega – ribatté Thulos con una leggerezza ben lontana dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti. – Perché la vera stregoneria avrebbe trovato un rimedio. - È stato per amor tuo – disse oscuramente Xantlicha.  – E come sanno tutte le donne, il tuo cuore è più nero e più duro del diamante nero. Nessuna stregoneria, per quanto potente, potrebbe vincerlo. –  All’improvviso il suo umore parve addolcirsi.  – La tua assenza si è protratta troppo a lungo, mio signore. Vieni da me a mezzanotte: ti attenderò nel padiglione sud. – Poi, scrutandolo per un istante tra le palpebre abbassate, e pizzicandogli il braccio in modo che le unghie penetrarono nella stoffa e nella pelle come gli artigli di una gatta, si allontanò da lui per chiamare alcuni degli eunuchi dell’harem. Thulos, non appena l’attenzione della regina si fu distolta da lui, si azzardò a guardare di nuovo Ilalotha, riflettendo nel contempo sulle strane osservazioni di Xantlicha.  Sapeva che Ilalotha, come molte dame di corte, si era dilettata di incantesimi e di filtri: ma la sua stregoneria non l’aveva mai preoccupato, poiché egli non provava interesse se non per gli incanti di cui la natura aveva dotato i corpi femminili. E gli era impossibile credere che Ilalotha fosse morta di una passione fatale poiché, nella sua esperienza, la passione non era mai fatale. Ma per la verità, mentre la guardava in preda a sentimenti confusi, fu nuovamente assalito dall’impressione che ella non fosse affatto morta. Non vi fu il ripetersi della bizzarra allucinazione del ricordo di un altro tempo e di un altro luogo; ma gli parve che ella si fosse spostata sul catafalco macchiato di vino, volgendo un poco il viso verso di lui, come una donna si volge verso l’amante atteso; e che il braccio da lui baciato, nel sogno o nella realtà, fosse leggermente più scostato dal fianco. Thulos si chinò un poco di più, affascinato dal mistero e attratto da qualcosa che non avrebbe saputo definire. Ancora una volta, senza dubbio, aveva sognato o si era ingannato.  Ma mentre il dubbio cresceva in lui, gli parve che il seno di Ilalotha si muovesse in un lieve respiro, e udì un mormorio quasi impercettibile ma agghiacciante:  - Vieni da me a mezzanotte. Ti attenderò... nella tomba. In quell’istante comparvero accanto al catafalco alcuni uomini dagli abiti sobrii e scuri dei sacrestani, che erano entrati nella sala in silenzio, senza che Thulos e gli altri se ne fossero accorti. Essi portavano un sarcofago dalle pareti sottili di bronzo brunito, appena saldato. Era loro compito prendere il corpo della morta e trasportarlo nella cripta funeraria della sua famiglia, situata nella vecchia necropoli, un poco più a nord dei giardini del palazzo. Thulos avrebbe voluto gridare per trattenerli: ma gli si bloccò la lingua, e non riuscì a muoversi. Senza sapere se era desto o addormentato, vide gli addetti del cimitero collocare Ilalotha nel sarcofago e portarla rapidamente fuori dalla sala, senza che nessuno li seguisse, senza che i presenti, ebbri e insonnoliti, se ne avvedessero. Solo quando il mesto corteo se ne fu andato, Thulos riuscì a muoversi, accanto al catafalco vuoto. I suoi pensieri erano torpidi, pieni di oscurità e d'indecisione. Vinto da un'immensa stanchezza che non era innaturale dopo il lungo viaggio, si ritirò nel suo appartamento e subito piombò in un sonno pesante come la morte.

Liberandosi gradualmente dai rami dei cipressi, come da lunghe dita protese di streghe, una luna fioca e deforme scrutava orizzontalmente attraverso la finestra orientale, quando Thulos si destò. Comprese che si stava appressando la mezzanotte, e ricordò l’appuntamento che gli aveva dato la regina Xantlicha: un appuntamento cui non poteva mancare senza incorrere nella sua temibile collera. Inoltre, con singolare chiarezza, ricordò un altro appuntamento... alla stessa ora ma in un luogo diverso. Gli incidenti e le impressioni del funerale di Ilalotha che, sul momento, gli erano parsi così dubbi e simili a sogni, tornarono a lui con la forza profonda della realtà, quasi incisi nella sua mente da una mordente chimica del sonno… o dal rafforzamento di un incantesimo stregato. Sentì che Ilalotha si era veramente mossa sul catafalco e gli aveva parlato: che i sacrestani l'avevano portata nella tomba ancora viva. Forse la sua presunta morte era stata una sorta di catalessi: oppure ella aveva volutamente simulato la morte in un ultimo tentativo di riaccendere la sua passione. Questi pensieri suscitarono in lui la febbre ardente della curiosità e del desiderio: e vide davanti a sé la bellezza pallida, inerte, lussuriosa di lei, quasi presentata da un incantamento. Profondamente sconvolto, scese per scale e corridoi bui verso il labirinto dei giardini rischiarati dalla luna. Maledisse l’intempestiva esigenza di Xantlicha. Tuttavia, si disse, era molto più probabile che la regina, continuando a trangugiare i liquori di Tasuun, avesse già raggiunto uno stato in cui non avrebbe né mantenuto né rammentato l’appuntamento.  Questo pensiero lo rassicurò: e nella sua mente stranamente perplessa, presto divenne una certezza; e non si affrettò a dirigersi verso il padiglione sud, ma avanzò stordito tra i boschetti ombrosi. Sembrava sempre più improbabile che vi fosse in giro qualcun altro, oltre lui: perché le lunghe ali buie del palazzo erano distese come in un vacuo torpore: e nei giardini c’erano solo ombre morte, e stagni di fragranza immobile in cui erano annegati i venti. E sopra ogni cosa, come un papavero pallido e mostruoso, la luna distillava il suo pesante sonno di morte. Thulos, ormai dimentico del suo appuntamento con Xantlicha, cedette senza ulteriori riluttanze all’impulso che lo spingeva verso un’altra meta. In verità, era doveroso che visitasse le cripte e scoprisse se era stato o no ingannato nelle sue convinzioni riguardanti Ilalotha. Forse, se non fosse andato, ella sarebbe soffocata nel sarcofago chiuso, e la morte simulata sarebbe divenuta ben presto una realtà. Di nuovo, come se venissero pronunciate nel chiaro di luna davanti a lui, egli udì le parole che gli aveva bisbigliato dal catafalco: - Vieni da me a mezzanotte... ti attenderò... nella tomba. Con il passo rapido e il battito accelerato del cuore di chi si avvia al giaciglio caldo e addolcito di petali d'una amante adorata, egli lasciò i giardini del palazzo passando da una postierla settentrionale, e attraversò il terreno erboso tra il parco reale ed il vecchio cimitero. Senza tremiti e senza sgomento, egli varcò quei portali di morte eternamente aperti, dove mostri di marmo nero, dalla testa di guúl e dagli occhi orribilmente butterati, stavano accovacciati davanti ai pilastri diroccati. Il silenzio delle tombe basse, la rigidezza e il pallore delle alte colonne, la profondità delle ombre dei cipressi, l’inviolabilità della morte che si comunicava ad ogni cosa contribuivano ad accrescere la singolare eccitazione che accendeva il sangue di Thulos. Era come se avesse bevuto un filtro drogato con polvere di mummia. Tutto intorno a lui il silenzio mortale pareva ardere e fremere di mille ricordi di Ilalotha, insieme alle attese cui ancora non aveva dato immagini precise... Una volta, aveva visitato insieme a Ilalotha la tomba sotterranea degli avi di lei: e ricordandone chiaramente l’ubicazione, raggiunse senza indecisioni l’ingresso dal basso arco di scuro legno di cedro. Le ortiche e le erbacce fetide, che crescevano fitte intorno all’ingresso poco usato, erano state calpestate da coloro che erano entrati prima di Thulos: e la porta arrugginita di ferro battuto vacillava pesantemente verso l’interno sui cardini smossi. Ai suoi piedi stava una torcia spenta, senza dubbio lasciata cadere nell'andarsene da uno dei sacrestani. Vedendola, Thulos ricordò che non aveva portato né una candela né una lanterna per esplorare le cripte, e gli parve che quella torcia provvidenziale fosse un segno di buon auspicio. Reggendo la torcia riaccesa, cominciò a cercare. Non badò ai polverosi sarcofagi ammucchiati nella prima parte del sotterraneo; perché, durante la visita che avevano compiuto insieme, Ilalotha gli aveva mostrato una nicchia, nell’estremità più interna, dove a suo tempo lei stessa sarebbe stata sepolta tra i membri di quella stirpe decadente. Stranamente, insidiosamente, come il soffio di un giardino primaverile, il profumo ricco e languido del gelsomino salì verso di lui nell’aria muffita, tra le file dei morti: e lo attrasse verso il sarcofago che stava, scoperchiato, tra gli altri ben chiusi. E Thulos scorse Ilalotha, distesa nelle vesti gaie del funerale, con gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte; e su di lei aleggiava la stessa strana, radiosa bellezza, lo stesso pallore voluttuoso e silente che avevano attirato Thulos con un incanto necrofilo. - Sapevo che saresti venuto, Thulos – mormorò Ilalotha, fremendo lievemente, quasi involontariamente, sotto l’ardore crescente dei baci che scendevano dalla gola al seno... La torcia caduta dalla mano di Thulos si spense nella fitta polvere...

Xantlicha, che si era ritirata di buon’ora nella sua stanza, aveva dormito male. Forse aveva bevuto troppo, o troppo poco, lo scuro vino ardente; forse il suo sangue era acceso dal ritorno di Thulos, e la sua gelosia era ancora turbata dal bacio appassionato che egli aveva deposto sul braccio di Ilalotha durante le esequie.  L'inquietudine la dominava: e si alzò molto prima dell’ora dell'appuntamento con Thulos, e si accostò alla finestra della sua stanza, cercando il ristoro della fresca aria notturna. Ma l’aria pareva riscaldata dall'ardore di fornaci nascoste; il cuore pareva gonfiarsi nel suo seno fino a soffocarla: e l’inquietudine e l’agitazione vennero accresciute anziché sminuite dallo spettacolo dei giardini sotto la luna.  Avrebbe desiderato precipitarsi al padiglione: ma nonostante la sua impazienza, ritenne opportuno far attendere Thulos. Affacciata al davanzale, quindi, lo vide passare tra le aiuole e le pergole sottostanti. Fu colpita dalla fretta insolita e dalla decisione della sua andatura; e si chiese dove fosse diretto, poiché poteva essere avviato solo verso un luogo remoto da quello che ella aveva indicato per il loro incontro. Thulos scomparve al suo sguardo nel viale fiancheggiato dai cipressi che conduceva al cancello settentrionale dei giardini; e lo stupore della regina presto si mescolò all’allarme ed alla collera, quando non lo vide ritornare. Xantlicha non riusciva a comprendere perché Thulos, o qualunque altro uomo, potesse osare di dimenticare l’appuntamento: e cercando una spiegazione, intuì che fosse probabilmente in gioco una tremenda e potente stregoneria. D’altra parte, alla luce di certi episodi da lei osservati e di molte dicerie, non le era difficile identificare l’incantatrice.  Ilalotha, la regina lo sapeva bene, aveva amato freneticamente Thulos, e aveva provato un’afflizione inconsolabile, quand'egli l’aveva abbandonata. La gente diceva che avesse operato vari incantesimi inefficaci, nella speranza di riattirarlo a sé, ed avesse compiuto envoûtements vani e sortilegi di morte contro Xantlicha. Alla fine, era morta d’angoscia e di disperazione, o forse si era uccisa con un veleno misterioso... Ma, come si credeva in Tasuun, una strega che moriva con un desiderio insaziato, poteva trasformarsi in una lamia o in una vampira, realizzando così il compimento di tutte le sue stregonerie... La regina rabbrividì, ricordando tutto questo e rammentando anche l’orrida, maligna trasformazione che si diceva accompagnasse la realizzazione di tali fini: perché coloro che usavano in tal modo del potere dell’inferno dovevano assumere il carattere e le sembianze degli esseri infernali. Xantlicha immaginò anche troppo esattamente la destinazione di Thulos, e il pericolo verso il quale era avviato, se i suoi sospetti erano veri. E pur sapendo di rischiare un eguale pericolo, decise di seguirlo. Non fece molti preparativi, poiché non c'era tempo da perdere: ma prese dai serici guanciali del suo letto un pugnale a lama diritta, unto dalla punta all'elsa da un veleno ritenuto efficace tanto contro i vivi quanto contro i morti. Stringendolo nella destra, e reggendo nell'altra mano una lanterna che più tardi avrebbe potuto tornarle utile, Xantlicha si allontanò rapida e furtiva dal palazzo. Gli ultimi fumi del vino bevuto quella sera svanirono completamente dal suo cervello, mentre si destavano vaghe e tremende paure che l’ammonivano come le voci di fantasmi aviti. Ma, incrollabilmente decisa, ella seguì il percorso su cui si era avviato Thulos, lo stesso seguito dai sacrestani che avevano portato Ilalotha al luogo della sepoltura. Aleggiando da un albero all’altro, la luna l’accompagnava come una faccia erosa dai vermi. Il suono rapido e lieve dei suoi coturni, infrangendo il bianco silenzio, pareva lacerare il velo di ragnatele che l’isolava da un mondo d’abominazioni spettrali. E sempre più chiaramente ella ricordava le leggende che parlavano di esseri simili a Ilalotha: e si sentiva tremare il cuore, poiché sapeva che non avrebbe incontrato una donna mortale, bensì una cosa suscitata e animata dal settimo inferno. Ma tra il gelo di questi orrori, il pensiero di Thulos tra le braccia della lamia era come un marchio rovente che le bruciasse il seno. La necropoli si spalancò davanti a Xantlicha, e i suoi passi la portarono nell'oscurità cavernosa degli alti alberi funerei, come se passasse attraverso mostruose fauci buie, in cui i monumenti bianchi erano le zanne. L'aria divenne umida e pesante, quasi satura dell'alito delle cripte. La regina esitò, poiché le parve che neri, invisibili demoni malvagi si levassero dal suolo tutto intorno a lei, torreggiando più alti delle colonne e dei tronchi, pronti ad assalirla se si fosse avventurata più oltre. Tuttavia, poco dopo giunse al buio passaggio che cercava. Tremando, accese lo stoppino della lanterna; e trapassando la densa oscurità sotterranea con il raggio tagliente, entrò con un terrore mal represso e con una profonda ripugnanza nella dimora dei morti... e forse dei non morti. Tuttavia, mentre percorreva le prime svolte della catacomba, parve che non dovesse incontrare nulla di più orrendo della muffa e della polvere filtrata dai secoli, nulla di più temibile dei sarcofagi chiusi allineati sui profondi ripiani di pietra: sarcofagi che erano rimasti silenziosi e indisturbati dal tempo in cui erano stati lì deposti.  Certo in quel luogo il sonno di tutti i morti era ininterrotto, il nulla della morte era inviolato. La regina quasi dubitava, ormai, che Thulos l’avesse preceduta lì: finché, volgendo al suolo il raggio della lampada, scoprì le impronte lasciate dalle calzature di lui, sottili e appuntite, nello spesso strato di polvere tra le orme di piedi rozzamente calzati dei sacrestani. E vide che le impronte di Thulos andavano in un'unica direzione, mentre le altre andavano e ritornavano. Poi, ad una distanza indeterminata nell’oscurità, Xantlicha udì un suono in cui il gemito morboso d’una donna innamorata si mescolava a un ringhio, simile a quello degli sciacalli intenti a divorare la carne. Il sangue le riaffluì raggelato al cuore, mentre avanzava a passi lenti, serrando il pugnale nella mano levata, e tenendo alta la lampada. Il suono divenne più forte e più nitido; e poi le giunse un profumo di fiori in una calda notte di giugno: ma, quando avanzò ancora, il profumo si mescolò sempre più ad un fetore soffocante quale mai aveva conosciuto, sfumato dal sentore caldo del sangue.

Dopo qualche altro passo, Xantlicha si fermò, come se l’avesse arrestata il braccio di un demone: perché la luce della sua lanterna aveva inquadrato il volto riverso e la parte superiore del corpo di Thulos, che sporgevano dall’estremità di un nuovo sarcofago brunito, sistemato nel breve spazio tra altri patinati dal verderame. Una delle mani di Thulos stringeva rigidamente il bordo del sarcofago, mentre l’altra, muovendosi debolmente, pareva accarezzare una forma vaga protesa sopra di lui con le braccia che splendevano candide come gelsomini nel raggio sottile, e con le dita scure che affondavano nel petto di lui. La testa e il corpo parevano un guscio vuoto, e la mano pendeva esile e scheletrita sul bordo bronzeo: pareva esangue, come se avesse perduto più sangue di quanto apparisse evidente dal volto e dalla gola straziata, dalla veste intrisa e dai capelli sgocciolanti. La cosa china su Thulos continuava a emettere quel suono che era per metà gemito e per metà ringhio.  E mentre Xantlicha rimaneva impietrita dallo spavento e dal disgusto, le parve di udire dalle labbra di Thulos un mormorio indistinto, più d’estasi che di paura. Il mormorio cessò, e la sua testa si abbandonò ancora più inerte, così che la regina lo credette morto. Quella vista le ridiede il coraggio della collera, e la spinse ad avvicinarsi levando più alta la lanterna, perché, pur nel suo panico estremo, ricordò che con il pugnale intinto nel veleno stregato poteva uccidere ancora, forse, la cosa che aveva ucciso Thulos. La luce salì vacillando, rivelando poco a poco l’abominio che Thulos aveva accarezzato nelle tenebre... strisciava verso il muro macchiato di cremisi, e l’orificio zannuto che era per metà una bocca e per metà un rostro... fino a quando Xantlicha comprese perché il corpo di Thulos era soltanto un guscio svuotato... In ciò che la regina vedeva non rimaneva nulla di Ilalotha, tranne le bianche braccia voluttuose, e un contorno vago di seni umani che si alteravano in seni non umani, come creta plasmata da uno scultore demoniaco. Anche le braccia cominciarono a cambiare e ad oscurarsi: e mentre mutavano, la mano morente di Thulos si mosse ancora, levandosi con un movimento carezzevole verso quell’orrore. E la cosa parve sentirlo, ma non ritrasse le dita dal petto di lui, e si protese sopra il suo corpo con le membra che ingigantivano enormemente, come per artigliare la regina od accarezzarla con gli artigli gocciolanti.

Allora Xantlicha lasciò cadere la lanterna e il pugnale, e con urla e risa stridule incessanti di demenza immitigata fuggì dalla cripta.


Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/04/morthylla-di-clark-ashton-smith-da.html


"Morthylla" di Clark Ashton Smith, da "Zothique"

 Ringrazio Andrea per la collaborazione 

Ad Umbri, la Città del Delta, le luci sfolgoravano con vivace splendore dopo il tramonto di quel sole che era ormai una stella decadente e rosseggiante come una brace, invecchiata oltre ogni cronaca e oltre ogni leggenda. Le più brillanti e sgargianti di tutte erano le luci che rischiaravano la casa del vecchio poeta Famurza, i cui canti anacreontici gli avevano procurato le ricchezze che egli sperperava in orge per i suoi amici ed adulatori.  Lì, nei portici, nelle gallerie e nelle camere, le torce erano fitte come le stelle in un firmamento senza nubi. Si sarebbe detto che Famurza volesse dissipare tutte le ombre, eccetto quelle delle alcove ornate di arazzi, preparate per gli amori convulsi dei suoi ospiti. Per accendere tali amori c'erano vini, cordiali, afrodisiaci. V'erano carni e frutti che risvegliavano gli impulsi flaccidi. C'erano strane droghe esotiche che suscitavano e prolungavano il piacere. C'erano bizzarre statuette in nicchie semivelate; e pannelli a muro che raffiguravano amori bestiali, o amori umani o sovrumani. C'erano cantori prezzolati di tutti i sessi, che cantavano distici diversamente erotici, e danzatori le cui contorsioni erano ideate per ravvivare i sensi esausti quando tutti gli altri metodi erano falliti. Ma a tutti questi incitamenti Valzain, discepolo di Famurza, famoso tanto come poeta quanto come libertino, era del tutto insensibile. Con un'indifferenza che sfumava nel disgusto, una coppa semivuota nella mano, egli osservava da un angolo la folla festosa che gli stava davanti, e distoglieva involontariamente gli occhi da certe coppie troppo svergognate o troppo ebbre per cercare l'ombra dell'intimità ai loro vezzeggiamenti.  Una sazietà improvvisa s'era impadronita di lui. Si sentiva stranamente distaccato dalla mania di vino e di carne in cui, fino a poco tempo prima, si immergeva ancora con diletto.  Gli pareva di trovarsi su di una spiaggia aliena, oltre la distesa d'acqua della separazione. - Che ti affligge, Valzain? Un vampiro ti ha succhiato il sangue?  Era Famurza, rosso in viso sotto ai capelli grigi, leggermente corpulento, che gli stava accanto. Posando affettuosamente la mano sulla spalla di Valazain, il poeta levò con l'altra la coppa da un litro, ornata di motivi fescennini, nella quale egli usava bere soltanto vino, rifuggendo dai liquori drogati e violenti spesso preferiti dai sibariti di Umbri. - è biliosità? O un amore non ricambiato? Qui abbiamo rimedi per entrambi. Basta che tu chieda la medicina che preferisci. - Non vi è medicina per ciò che mi affligge, ribatté Valzain.  – In quanto all’amore, non mi interessa più se è ricambiato o non ricambiato. Io posso assaporare soltanto la feccia in ogni coppa. E il tedio si affaccia anche tra i baci. - Il tuo è veramente un caso di malinconia –  La voce di Famurza era preoccupata.  – Ho letto alcuni dei tuoi versi più recenti. Tu scrivi solo di tombe e di cipressi, di vermi e di fantasmi e di amori disincarnati. Sono argomenti che mi danno la colica.  Ho bisogno di almeno mezzo gallone di onesto succo di vite dopo ognuna delle tue poesie. - Sebbene l’abbia scoperta solo recentemente – ammise Valzain, - vi è in me la curiosità per l’invisibile, l’aspirazione a cose al di là del mondo materiale. Famurza scosse il capo con aria di commiserazione.  – Sebbene io abbia vissuto più del doppio dei tuoi anni, mi accontento ancora di ciò che vedo e odo e tocco. Buone carni succose, donne, vino, le canzoni a piena gola mi sono sufficienti. - Nei sogni del sonno più profondo – fece in tono meditabondo Valzain, - ho abbracciato succubi che erano più che carne, ho conosciuto delizie troppo intense perché il corpo, allo stato di veglia, possa sopportarle. Tali sogni hanno forse un’origine al di fuori del cervello terreno? Pagherei qualunque cosa per scoprire tale fonte, se esiste. Ma intanto per me non vi è altro che la disperazione. - Così giovane... e già così esausto! Ebbene, se sei stanco delle donne, e vuoi invece i fantasmi, potrei darti un suggerimento. Conosci la vecchia necropoli, situata a mezza via tra Umbri e Psiom... a circa tre miglia da qui? I caprai dicono che sia infestata da una lamia... lo spirito della principessa Morthylla, che morì molti secoli fa e venne sepolta in un mausoleo tuttora esistente, che domina le tombe minori. Perché non vai là, questa notte, a visitare la necropoli? Dovrebbe essere più adatta al tuo umore che non la mia casa. E forse Morthylla ti apparirà. Ma non biasimare me, se non dovessi ritornare affatto. Dopo tutti questi anni, la lamia è ancora avida di amanti umani: e potrebbe incapricciarsi di te. - Certo, conosco quel luogo, - disse Valzain - Ma credo che tu voglia scherzare. Famurza scrollò le spalle e passò oltre, tra i suoi compagni di baldoria. Una ridente danzatrice, dalle snelle membra bionde, si accostò a Valzain e gli gettò intorno al collo un cappio di fiori intrecciati, reclamandolo come prigioniero. Egli spezzò gentilmente il cappio, e diede alla fanciulla un tepido bacio che l’indusse ad una smorfia ironica. Senza farsi notare, ma alla svelta, prima che altri cercassero di attirarlo, uscì dalla casa di Famurza. Senz’altri impulsi che un desiderio assillante di solitudine, volse i passi verso i sobborghi, evitando le taverne ed i lupanari dove si affollava il popolo. Musiche, risa, brani di canzoni lo seguivano dalle case illuminate dove ogni notte i cittadini più ricchi offrivano festini. Ma incontrò poca gente per le strade: era troppo tardi perché gli ospiti di tali feste si radunassero, troppo presto perché si disperdessero. Le luci si diradarono, spaziate da intervalli sempre maggiori, e le strade si rabbuiarono dell’antica notte che opprimeva Umbri, e che avrebbe soffocato le ardite galassie delle finestre rischiarate dalle lampade con l’oscurarsi del sole senescente di Zothique.  A queste cose, e al mistero della morte, erano rivolti i pensieri di Valzain mentre si immergeva nell’oscurità dell’esterno, gradita ai suoi occhi abbagliati. Gli fu gradito anche il silenzio della strada fiancheggiata di campi che egli seguì per un certo tratto senza rendersi ben conto della direzione. Poi, giunto a un punto di riferimento che gli era familiare nonostante l’oscurità, rammentò che quella strada andava da Umbri a Psiom, la città gemella del Delta: la strada tortuosa lungo la quale era situata la necropoli abbandonata cui Famurza gli aveva ironicamente consigliato di recarsi. In verità, egli pensò, Famurza aveva scoperto l’esigenza che stava alla base del suo disincanto nei confronti di tutti i piaceri sensoriali. Sarebbe stato piacevole recarsi a soggiornare, per un’ora o poco più, in quella città i cui abitanti avevano da tempo superato le bramosie della mortalità, la sazietà e la disillusione. La luna, che stava passando dal primo quarto alla metà, salì dietro di lui quando giunse ai piedi della bassa collina su cui sorgeva il cimitero. Egli lasciò la strada lastricata, e cominciò a salire l’erta, semicoperta da stente ginestre spinose, alla cui sommità si vedevano i lucenti marmi bianchi. Non vi erano sentieri, solo le trazzere spezzate, aperte dalle capre e dai loro custodi. Buia, allungata e attenuata, la sua ombra lo precedeva come una guida spettrale. Nella sua fantasia gli parve di salire il seno dolcemente incurvato di una gigantessa, costellato in distanza da gemme pallide che erano pietre tombali e mausolei. Si chiese, in quel capriccio funereo, se la gigantessa era morta o soltanto addormentata. Giunto all’ampio spiazzo alla sommità, dove tassi nani morenti disputavano a rovi privi di foglie gli spazi tra le lapidi chiazzate di licheni, ricordò la leggenda cui aveva accennato Famurza, la lamia che si diceva infestasse la necropoli. Famurza, egli lo sapeva bene, non credeva a tali leggende, e aveva inteso soltanto burlare il suo umore funereo.  Eppure, poiché era un poeta, cominciò a baloccarsi con la fantasia di una presenza, immortale, bellissima e perversa, che dimorasse tra i marmi antichi e rispondesse all’evocazione di chi, senza una credenza sicura, aveva aspirato invano a visioni dell’aldilà. Tra le file di lapidi, nella solitudine illuminata dalla luna, egli giunse a un maestoso mausoleo, ancora eretto con poche tracce di rovina al centro del cimitero. Sotto di esso, gli era stato detto, vi erano ampie cripte che ospitavano le mummie d’una famiglia reale estinta, che aveva regnato sulle città gemelle di Umbri e Psiom nei secoli precedenti.  La principessa Morthylla era appartenuta a quella dinastia. Con suo grande sbalordimento una donna, o ciò che pareva tale, era seduta su di una colonna caduta accanto al mausoleo.  Non poteva scorgerla distintamente: l’ombra della tomba l’avvolgeva ancora dalle spalle in giù. Solo il volto, che luceva fiocamente, era levato verso la luna nascente.  Il profilo era simile a quelli che egli aveva veduto su antiche monete. - Chi sei? - chiese, con una curiosità che sopraffaceva la cortesia. - Io sono la lamia Morthylla – ella rispose, con una voce che lasciava dietro di sé una fioca, sfuggente vibrazione simile a quella di un’arpa. – Guardati da me... perché i miei baci sono proibiti a coloro che vogliono rimanere tra i vivi. Valzain fu sbalordito da quella risposta che riecheggiava le sue fantasie. Eppure la ragione gli diceva che l’apparizione non era uno spirito delle tombe, ma una donna viva che conosceva la leggenda di Morthylla e voleva divertirsi tentandolo. Eppure, quale donna si sarebbe avventurata sola, di notte, in un luogo tanto strano e desolato? Più credibilmente, ella era una prostituta recatasi a un appuntamento tra le tombe. Vi erano, Valzain lo sapeva, alcuni depravati che avevano bisogno di un ambiente sepolcrale per solleticare i loro desideri. - Forse stai attendendo qualcuno – egli disse – Se è così, non voglio disturbare. - Io attendo solo colui che è destinato a venire. E l’ho atteso a lungo, poiché da duecento anni non ho avuto amanti. Rimani, se vuoi: non vi è nessuno da temere, tranne me. Nonostante le ipotesi razionali che Valzain aveva formulato, si sentì scorrere lungo la spina dorsale il brivido di chi, senza credere pienamente, sospetta la presenza di qualcosa di preternaturale... Eppure sicuramente era tutto un gioco...  un gioco che anch’egli poteva giocare per alleviare il suo tedio. - Sono venuto qui sperando di incontrarti – dichiarò – Sono stanco delle donne mortali, stanco di ogni piacere... stanco persino della poesia. - Anch’io mi annoio – ella disse semplicemente. La luna era salita ancora, e splendeva sull’abito di foggia antiquata della donna. Era aderente alla vita, ai fianchi e al seno, ed aveva ampie pieghe cadenti. Valzain aveva veduto abiti simili soltanto negli antichi disegni. La principessa Morthylla, morta da tre secoli, doveva averne effettivamente indossati di simili. Chiunque fosse, egli pensò, la donna era stranamente bella, con un tocco di bizzarria nei capelli pesantemente annodati il cui colore era indistinguibile nel chiaro di luna.  La sua bocca era dolce, e un’ombra di stanchezza o di tristezza le circondava gli occhi. All’angolo destro delle labbra, scorse un piccolo neo. Gli incontri di Valzain con la sedicente Morthylla si ripeterono ogni notte, mentre la luna cresceva come il seno tondeggiante d’una gigantessa e sminuiva di nuovo nella senescenza. Ella lo attendeva sempre accanto allo stesso mausoleo... che, dichiarava, era la sua dimora. E sempre lo congedava quando l’oriente diventava cinereo all’alba, dicendo di essere una creatura della notte. Inizialmente scettico, Valzain la giudicò una persona dalle tendenze e dalle fantasie macabre affini alle sue, con cui egli continuava un amoreggiamento dal fascino singolare. Eppure non riusciva a trovare in lei traccia della mondanità che sospettava: pareva non conoscere nulla del presente, ma aveva una strana familiarità con il passato e la leggenda della lamia. Sembrava sempre più un essere notturno, intimo solo dell’ombra e della solitudine. I suoi occhi e le sue labbra parevano serbare segreti dimenticati e proibiti. Nelle risposte vaghe e ambigue alle sue domande, egli leggeva significati che lo facevano fremere di speranza e di paura.     - Ho sognato della vita – ella gli diceva, enigmaticamente – E ho sognato anche della morte. Ora, forse vi è un altro sogno... nel quale sei entrato tu. - Anch’io, allora, sognerei - disse Valzain. Notte per notte, il disgusto e la sazietà si allontanavano da lui, in un incanto alimentato dall’ambiente spettrale, dal silenzio avvolgente dei morti, dal suo allontanamento della città chiassosa e carnale. A poco a poco, tra l’alternarsi dell’incredulità e della fede, pervenne ad accettarla come la vera lamia. L’insaziabilità che sentiva in lei poteva essere solo quella della lamia: la sua bellezza era quella di un essere non più umano. Era come l’accettazione, in sogno, di cose fantastiche esistenti oltre il sonno. E insieme alla fede, cresceva il suo amore per lei. I desideri che aveva creduti morti rinascevano dentro di lui, più selvaggi e aggressivi. Ella pareva ricambiare il suo amore. Eppure non mostrava traccia dell’indole leggendaria della lamia, poiché sfuggiva ai suoi abbracci e gli rifiutava i baci da lui implorati. - Una notte, forse – prometteva. – Ma prima tu devi conoscermi per ciò che sono, devi amarmi senza illusioni. - Uccidimi con le tue labbra, divorami come si dice che tu abbia divorato gli altri amanti – la supplicava Valzain. - Non puoi attendere? – Il suo sorriso era dolce...  e tentatore. – Non desidero la tua morte così presto, perché ti amo troppo. Non è dolce questo appuntamento tra i sepolcri? Non ti ho forse sottratto al tedio? Devi dunque porre fine a tutto? La notte successiva egli l’implorò di nuovo, invocando con tutto l’ardore e l’eloquenza la consumazione negata. Ella lo burlò: - Forse io sono soltanto un fantasma incorporeo, uno spirito senza sostanza. Forse mi hai sognata. Vorresti rischiare di ridestarti dal sogno? Valzain avanzò verso di lei, protendendo le braccia in un gesto appassionato. Lei si ritrasse, dicendo: - E se al tuo tocco io mi trasformassi in cenere e chiaro di luna? Allora rimpiangeresti la tua avventata insistenza. - Tu sei la lamia immortale – insistette Valzain. – I miei sensi mi dicono che non sei un fantasma, non sei uno spirito disincarnato. Ma per me hai trasformato in ombra ogni altra cosa. - Sì, a modo mio sono abbastanza reale – ella riconobbe, ridendo sommessamente. Poi all’improvviso si protese verso di lui, e gli sfiorò la gola con le labbra. Egli ne sentì per un momento l’umido tepore… e la fitta acuta dei denti che gli trapassarono appena la pelle, ritirandosi istantaneamente. Prima che egli potesse stringerla, ella gli sfuggì di nuovo. - È il solo bacio che ci è permesso al momento – gridò, e fuggì rapida con passi silenti tra gli scintillii e le ombre dei sepolcri. Il pomeriggio seguente, un affare urgente e sgradito richiamò Valzain nella vicina città di Psiom: un breve viaggio, che egli tuttavia compiva assai di rado. Passò davanti all’antica necropoli, pensando con desiderio all’ora notturna in cui avrebbe potuto affrettarsi di nuovo ad incontrare Morthylla. Il bacio pungente, che aveva tratto qualche goccia di sangue, aveva lasciato in lui una grande febbre e una grande angoscia. Come la necropoli, anch’egli era stregato: e l’incantesimo lo seguì a Psiom. Aveva ormai concluso l’affare, il prestito di una somma di danaro presso un usuraio. Sulla soglia dell’usuraio, mentre questo individuo sgradevole ma necessario gli stava accanto, egli vide passare per via una donna. Il suo volto, anche se non il suo abbigliamento, era quello di Morthylla; e vi era persino lo stesso minuscolo neo a un angolo della bocca. Nessun fantasma del cimitero avrebbe potuto sconvolgerlo o sbigottirlo più profondamente. - Chi è quella donna? – chiese all’usuraio – La conosci? - Il suo nome è Beldith. È molto nota a Psiom, poiché è ricca e ha avuto numerosi amanti. Ho avuto a che fare con lei, sebbene ora ella non mi debba nulla. Vorresti conoscerla? Potrei facilmente presentarti a lei. - Sì, vorrei incontrarla – disse Valzain – Somiglia stranamente a qualcuna che conoscevo molto tempo fa. L’usuraio scrutò ironico il poeta. – Potrebbe essere una conquista non facile. In questi ultimi tempi, dicono, si è ritirata dai piaceri della città. Alcuni l’hanno veduta avviarsi la notte verso la vecchia necropoli, o tornare da essa alle prime luci dell’alba. Strani gusti, direi, per una che è poco più di una cortigiana. Ma forse si reca a incontrare qualche amante eccentrico. - Insegnami la via per giungere alla sua casa – chiese Valzain. – Non avrò bisogno che tu mi presenti. - Come vuoi. – L’usuraio scrollò le spalle, leggermente deluso. – Del resto non è lontana. Valzain trovò subito la casa. La donna, Beldith, era sola.  Lo accolse con un sorriso malinconico e turbato che non lasciva dubbi sulla sua identità. - Mi accorgo che hai appreso la verità, - disse – Intendevo rivelartela presto, perché l’inganno non poteva continuare ancora a lungo. Non vuoi perdonarmi? - Ti perdono – rispose tristemente Valzain. – Ma perché mi hai ingannato? - Perché tu lo desideravi. Una donna cerca di compiacere l’uomo che ama: e in ogni amore vi è sempre un po’ d’inganno. - Come te, Valzain, mi ero stancata dei piaceri. E ho cercato la solitudine della necropoli, così remota dalle cose carnali. Poi sei venuto anche tu, cercando solitudine e pace... o qualche spettro ultraterreno. Ti ho subito riconosciuto.  E avevo letto le tue poesie. Conoscendo la leggenda di Morthylla, ho pensato di giocare con te: e giocando, ho preso ad amarti… Valzain, tu mi hai amata come la lamia. Non puoi amarmi ora per ciò che sono? - Non è possibile – dichiarò il poeta – Temo il ripetersi della delusione che ho trovato nelle altre donne. Eppure ti sono riconoscente per le ore che mi hai dato. Sono state le più belle che io abbia conosciuto... anche se ho amato qualcosa che non esisteva e non poteva esistere.  Addio, Morthylla. Addio, Beldith. Quando egli se ne fu andato, Beldith si distese bocconi tra i cuscini del suo giaciglio. Pianse un poco, e le lacrime formarono una chiazza umida che si asciugò presto.  Più tardi si alzò energicamente e si occupò delle faccende della sua casa. Dopo qualche tempo ella ritornò agli amori e alle baldorie di Psiom. Forse, alla fine, trovò la pace che può appartenere soltanto a coloro che sono troppo vecchi per i piaceri. Ma per Valzain non vi fu pace, né balsamo per sanare quell’ultima disillusione, la più amara di tutte. Non poté ritornare alle carnalità della vita di un tempo. E perciò finì per uccidersi, recidendosi la gola con un coltello affilato nello stesso punto in cui i denti della falsa lamia erano affondati facendo spicciare un po’ di sangue. Dopo la morte, egli dimenticò di essere morto: dimenticò il passato immediato, con tutti i suoi avvenimenti.

Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/04/la-morte-di-ilalotha-di-clark-ashton.html

 https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/01/renee-vivien.html

https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2021/01/il-velo-di-vasthi-di-rvivien-in.html

https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/10/zofloya-di-charlotte-dacre.html


Katherine Mansfield



"La Solitudine"

Viene ora la Solitudine, la notte,

A sedere sul letto in luogo del Sonno.

Bimba affaticata, in attesa del suo passo giaccio

In ascolto e del soffio che il lume estingue.

E siede immobile, né si volge l'inerte,

ma il greve capo scrolla gravemente.

Troppo è invecchiata, e tanto combatté

che il lauro la cinse alla tempia.


Sull'arso lido rompe insaziata la marea,

nel buio mesto gonfia le sue acque.

Nasce straniero un vento: poi è il silenzio.

Per volgermi alla Solitudine mi sono sfinita,

per prenderle la mano e afferrarmi in lei, fin che la terra

alla pioggia s'imbeva della paurosa monotonia.


"Il golfo"

Un golfo di silenzio ormai ci separa:

io su una sponda e tu all'opposto vivi,

non ti vedo né ti odo, a stento so che ci sei.

Col tuo nome antico ti chiamo ognora

e l'eco di me pretendo sia la tua voce.

A varcarlo forse c'è modo? Ma con la parola

o il senso. Così di pianto lo potremmo colmare.

Ma ora voglio frantumarlo con un'alta risata.


"Nel cielo rosso"

Nel cielo rosso due uccelli volano

con affrante ali: muto e solitario

il loro cammino sinistro non cede.

Con i suoi gialli emblemi il trionfante sole

ha lottato contro la terra il giorno intero: arresa

ha pugnalato il suo cuore e raccolto il sangue

in un calice per spanderlo nel cielo della sera.

Nell'ombra lugubre - volano gli infaticabili

dalle piume di morte - s'avvolge allora la terra

che brama senza pupille il cielo purpureo

e gli uccelli dalla ricerca inesausta.


"Solenne un vento eguaglia il canto"

Solenne un vento eguaglia il canto

della pioggia solenne, stanotte.

Gli alberi da lungo tempo quieti

sono scattati unanimi all'agitazione.


Gli alberi teneri, gli alberi grevi,

le piante in frutto stanche e valorose

abbandonano le fronde al vento

che rissa ad alta voce.


I bassi arbusti e i tronchi

curvano sotto lo strepito maestoso,

come il più sottile filo d'erba

scrolla sul suolo indifferente.


"La tempesta"

Corsi la foresta a cercare ansante

un riparo, il singhiozzo a stento trattenuto;

a un albero mi strinsi e sull'aspra scorza

tentai un guanciale per la mia paura.

"Proteggimi", invocai, "sono una bambina smarrita"

Sul viso l'albero mi spioveva gocce d'argento.

Dai confini del mondo un vento sprigionato

mulinava il tardo bosco, e smisurata

ardeva sul mio capo un'onda verde.

Imploravo: "tieni su di me la tua mano"

Col mantello teso nel vento la pioggia mi percoteva,

agili torrenti impaludavano i cespugli,

sentivo che annegando la terra andava alla caverna

dello spazio, nel suo bollore primigenio: più piccola

di una falena, sola reggevo il mio terrore.

Per un arcano impulso, in trionfo allora

"uccidimi dunque!" gridai, buttandomi all'aperto.

Il temporale cessò: mosse le sue ali il sole

remigando nello stagno diafano del cielo.

Il volto nascosi nelle mani, perché arrossivo.

Fluttuavano gli alberi e ridevano un murmure loro.


"Sanary"

Dalla sua calda stanza dominava la baia

attraverso i fusti delle palme lucenti,

là nell'ardore del sole desiderava giacere,

la bruna testa sul guanciale delle braccia,

tenue e immobile da non pensare

sentire e nemmeno sognare.


Il barbaglio del mare scolava sbandato

sotto il cielo, e il ragno del sole,

spinto da una stizzita fame,

risaliva la cupola a filare e filare.

Anche ad occhi chiusi ella lo scorgeva

e come mosche prigioniere i fragili natanti.


All'ora morta nessuno passa

laggiù nella grande polverosa,

un profumo stremato di mimosa

langue nell'aria, ma dolce - così dolce.


"Un tramonto"

Rompe dalle nubi un raggio

sulla traboccante marea, e là sopra,

nel fioco sussulto di creatura condannata

dall'amore per il lume del giorno, sfinito giace.


Questi che volano nel fantasma dell'aria, chi sono?

Ella piange in agonia - Vengono essi per me?

Zitta! Laggiù ora! - latrano le onde.

Ma non c'è nulla da vedere.


Le nivee braccia sorgono a coprirle il capo,

e dell'onde si prostra alle mille ginocchia

indifferenti che reggono, con il raggio morto,

gli uccelli abbattuti dal loro enigma.


"Canzone della vedova alla moda antica"

Un mazzo giocando ella mi porse

di rose sotto la pioggia recise,

delicate bellezze fragili e gelide.

Potevano le rose sanar la mia pena?

(...)

Su questo morirono le rose.

Languirono i petali e caddero,

pendeva corrugato il verde delle foglie,

immobile, entro un defunto universo,

reggevo un mazzo funerario.


Vedi anche: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/06/le-poesie-piu-belle-delle-sorelle_8.html  https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/06/le-poesie-piu-belle-delle-sorelle.html https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/05/le-poesie-piu-belle-delle-sorelle.html https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2017/06/le-poesie-di-vittoria-aganoor-pompilij.html