Carlo de' Dottori: i versi più belli dell'"Aristodemo"

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Carlo de' Dottori nasce a Padova nel 1618 e muore nel 1680. Le sue opere più celebri sono "l'Asino", un componimento satirico che vuole imitare "La secchia rapita" di Tassoni, e la tragedia "Aristodemo", composta nel 1657.

Nota di Lunaria: a questa tragedia si dedica anche Vincenzo Monti, che, nelle parti dove descrive il fantasma di Dirce, assume quasi uno stile da "gotico, romanticismo nero". Comunque, è probabile che a Carlo de' Dottori dedicherò, prossimamente, anche un altro post.

Trama: la drammatica vicenda contenuta nell'"Aristodemo" si svolge in Messenia. Ambizioso e certo di trovare nell'atto un mezzo per realizzare il proprio sfrenato desiderio di potere, Aristodemo sacrifica la figlia alla patria e la uccide personalmente senza remore. è solo nelle battute conclusive della tragedia, prima di suicidarsi, che maledice se stesso e la sua vita, in un monologo di furia rabbiosa; ma la protagonista della vicenda resta Merope che accetta la morte come impegno, con una rassegnazione serena. (Nota di Lunaria: esattamente come la figlia di Iefte, immolata dal padre come "ringraziamento" per jahvè, che gli ha fatto vincere la battaglia)


ATTO PRIMO, Scena Terza

Il dialogo tra Policare e Merope è percorso dalla dolcezza, dall'abbandono; tutto si assomma nella splendente immagine della bianca neve che brilla nella notte e che, col sorgere del giorno, spegne la sua luce nella luce del sole: così la bellezza e la presenza di Merope.

Policare: E doveasi con tanto
pregiudizio del Ciel dare in tributo
questa bellezza ai fieri Dei dell'ombre?
Di pretender cotanto ardia l'inferno?
E tanto ardia la terra? O lumi eterni,
di cui risplende un vivo raggio in questi
adorati begli occhi,
meditavasi dunque onta sì grande
dall'arbitrio superbo di Fortuna?

Merope: Policare, s'io vivo
vive un acquisto de' tuo' merti appresso
la celeste pietà. [...]

Policare: [...] Merope mia, tu vivi adunque? Appena
io crederei, così fu grande il rischio,
così crudele il mio timor. Ma sento,
sento ben io che nel mio cor discende
quel raggio che balena
nelle tue vivacissime pupille,
che m'assicura di tua vita, e il seno
d'una fiamma dolcissima m'ingombra.

Merope: Forse che sembra lume
quel che non è, ma tale
a te lo rende il paragon dell'ombre.
Ei nacque dall'oscure
tenebre del periglio, e nel sereno
ben tosto svanirà. Neve del Caspe (1)
così notturna splende,
ch'all'apparir dell'alba
pallida langue, e perde
il suo lume col dì.

Policare: Fu sempre lume
questo che manda il tuo bel volto, e sempre
i' n'arsi, e n'arderò.

Merope: Ma non potrebbe
uscir dagli occhi miei, se non avessi
foco nel sen. Dunque la fiamma è pari.

Policare: Dunque la nutre un sempre fido amore.

Merope: E con quella del rogo alfin s'unisca. (2)

Policare: E 'l cener nostro una sol'urna accolga. [...]


1) Monti a sud del Mar Caspio 
2) Così voleva la tradizione pagana, che i cadaveri fossero arsi


ATTO TERZO, Scena Prima

Aristodemo sacrifica la figlia; è un uomo arso dall'ambizione di un regno e vinto dalla sete di potere.

Aristodemo: Poiché del sangue nostro Averno ha sete,
si liberi la patria. Aristodemo
in difetto d'Arena (1) offre la figlia.
Io non ho dalla sorte
quest'obbligo, o Messenii,
ma dalla patria [...] Merope io v'offro
[...] Inutilmente non sarò stato padre. Alla salute
d'un regno generata avrò la figlia.
[...] Una vergine sola
degli Epitidi (2) chiude
l'avide fauci alla spietata Erinni, (3)
sazia per noi la morte, impiega tutta
la cupidigia dell'ingordo Abisso.

1) in mancanza, e perciò "in sostituzione"
2) Dinastia messenica, discendente da Epito, a cui apparteneva Merope.
3) Megera, Tesifone, Aletto erano le Furie o Erinni, dee infernali della vendetta


Scena Terza

Merope sostituirà Arena nel supremo sacrificio di sé, in nome della Patria e per volontà paterna. Se nelle parole della fanciulla si sente una rassegnazione inconsueta, nelle parole di Policare trascorre la voce del disperato dolore. Affettuosamente dolce e preoccupata della patria e dell'amato è Merope, nell'ora del sacrificio; sconvolto e senza pace è Policare, che vuole anche per sé la morte, come unica possibilità per ricongiungersi in spirito a Merope.

Merope: Policare, vicino
è 'l fin della mia vita. Il colpo attendo
che libera la patria; e mi preparo
a non temer sì gloriosa morte.
Io vado, e nulla meco
porterò di più nobile e più degno
della mia fé. Tu le memorie mie
pietoso accogli, e vivi.
[...] Così 'l mio sangue pur ti plachi il Cielo,
ti concilii Fortuna. Io fra le opache
ombre d'Eliso andrò narrando i casi [...]

Policare: Ch'io viva? io ti dia tomba? Io così vile,
crudel, ti sembro? E tal m'amasti? e tale
che se ferro mancasse, o tosco (1) o laccio,
non possa solo uccidermi il dolore? [...]
Scompagnata da me tu non vedrai,
Merope, Averno. Attenderò sul lido
la tua venuta, e varcheremo insieme;
per le tenebre cieche e per l'ignote
vie del sepolto mondo
precederò [...] Altri che morte
congiunger non ci può. Separa morte
le basse e non l'eccelse anime amanti [...]


1) Il tosco è il veleno. La successione incalzante delle domande rende più drammatico lo stato d'animo di Policare.


"Ministri, preparate un negro altare a Dite, uno alla Trina Ecate, alla Notte;" (sono tutte divinità infernali; nota di Lunaria)

"E nuovo latte e vino antico e sangue e di pigra palude onda pallida e grave di steril falce e di funebre tasso coronate le tempie e d'atre ( = oscure) bende."

Il monologo di Aristodemo dopo che ha assassinato la figlia:

"Rapitemi all'orrenda faccia del mio delitto,
O furia, O mostri, e renda il tetro carcere dell'ombre a queste luci mie più grato a petto.
Sommergete nel caos, che prima diede origine all'abisso...
M'odia l'Inferno, sì, ma non rifiuta di ricervermi in sé.
Mi consegni a me stesso; e qual maggiore mostro dell'odio mio, s'odio me stesso?
Il mio crudel errore poco vi rende e tolse molto: ma non è poco.
Un uccisor de' figli, un sacrilegio, un empio io levo al vostro demerito col cielo e della mia contagiosa fortuna io vi disgravo."

Qui aggiungo alcuni stralci tratti dall' "Aristodemo" di Vincenzo Monti

già visto qui: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vincenzo-monti-i-miei-versi-preferiti.html



Atto Primo, scena I

PALAMEDE: Narrerò sincero,
qual mi fu detta, la pietosa istoria
di questo sventurato. Era Messene
da crudo morbo desolata; e Delfo
della stirpe d'Epito una donzella
avea richiesta in sacrificio a Pluto.
Poste furo le sorti, e di Licisco
nomar la figlia. Scellerato il padre
e in un pietoso con segreta fuga
la sottrasse alla morte; e un'altra vittima
il popolo chiedea. Comparve allora
Aristodemo, e la sua propria figlia,
la bellissima Dirce, al sacerdote
volontario offerì. Dirce fu dunque
dell'altra invece su l'altar svenata;
e col virgineo sangue l'infelice
sbramò la sete dell'ingordo Averno,
per salvezza de' suoi dando la vita.

LISANDRO: Io già questo sapea; chè grande intorno
fama ne corse, e della madre insieme
dicea caso nefando.

PALAMEDE: Ella, di Dirce
mal soffrendo la morte, e stimolata
da dolor, da furor, squarciossi il petto
spietatamente, ed ingombrò la stanza
cadavere deforme e sanguinoso,
raggiungendo così nel morto regno,
forsennata e contenta ombra, la figlia,
ed ecco dell'afflitto Aristodemo
la seconda sventura [...]
Dopo il fatto d'Argia tutto lasciossi
a sua tristezza in preda Aristodemo;
né mai diletto gli brillò sul core,
o, se brillovvi, fu di lampo in guisa
che fa un solco nell'ombra e si dilegua.
Ed or lo vedi errar mesto e pensoso
per solitari luoghi, e verso il cielo
dal profondo del cor geme e sospira;
or vassene dintorno furibondo
e pietoso ululando; e sempre a nome
la sua Dirce chiamando, a' piè si getta
della tomba che il cenere ne chiude;
singhiozzando l'abbraccia, e resta immoto,
immoto sì, che lo diresti un sasso,
se non che vivo lo palesa il pianto
che tacito gli scorre per le fote
ed inonda il sepolcro. Ecco, o Lisandro,
dell'infelice il doloroso stato.


Scena IV

ARISTODEMO: Così pur fosse!
Ma mi conosci tu? Sai tu qual sangue
dalle mani mi gronda? Hai tu veduto
spalancarsi i sepolcri, e dal profondo
mandar gli spettri a rovesciarmi il trono?
A cacciarmi le mani entro le chiome
e strappar la corona? Hai tu sentito
tonar dintorno una tremenda voce
che grida "muori, scellerato, muori!"
Sì morirò; son pronto: eccoti il petto,
eccoti il sangue mio; versalo tutto,
vendica la natura, e alfin mi salva
dall'orror di vederti, ombra crudele.
[...] Ma che pretendi
col tuo pregar? Tu fremerai d'orrore
se il vel rinnovo del fatal segreto.

GONIPPO: E che puoi dirmi che all'orror non ceda
di vederti spirar su gli occhi miei?
[...] Ohimè! che ferro è quello?

ARISTODEMO: Ferro di morte. Guardalo. Vi scorgi
questo sangue rappreso?

GONIPPO: Oh dio! qual sangue?
Chi lo versò?

ARISTODEMO: Mia figlia. E sai qual mano
glielo trasse dal sen?

GONIPPO: Taci, non dirlo:
che già t'intesi.

ARISTODEMO: [...] Così de' sacerdoti alla bipenne
la mia Dirce proffersi. Al mio disegno
s'oppose Telamon di Dirce amante.
Supplicò, minacciò [...] e palesommi non potersi Dirce
sagrificar; dal nume esser richiesto
d'una vergine il sangue, e Dirce il grembo
portar già carco di crescente prole,
ed esso averne di marito i diritti.
[...] Da profondo furor, venni alla figlia.
Abbandonata la trovai sul letto,
che pallida, scomposta ed abbattuta,
in languido letargo avea sopiti
gli occhi dal lungo lagrimar già stanchi.
[...] La rabbia
m'avea posta la benda, e mi bolliva
nelle vene il dispetto; onde, impugnato
l'esecrando coltello e spento in tutto
di natura il ribrezzo; alzai la punta,
e dritta al core gliel'immersi in petto.
Gli occhi aprì l'infelice, e mi conobbe;
e coprendosi il volto: "Oh padre mio,
oh padre mio", mi disse, e più non disse.

GONIPPO: Gelo d'orrore.

ARISTODEMO: L'orror tuo sospendi;
ché non è tempo ancor che tutto il senta
sull'anima scoppiar. Più non movea
né man né labbra la trafitta: ed io,
tutto asperso di sangue e senza mente,
ché stupido m'avea reso il delitto,
della stanza n'uscia, quando al pensiero
mi ricorse l'idea del suo peccato.
E quindi l'ira risorgendo, e spinto
da insensatezza, da furor, tornai
sul cadavere caldo e palpitante;
ed il fianco n'apersi, empio!, e col ferro
stolidamente a ricercar mi diedi
nelle fumanti viscere la colpa.
[...] Corsemi per l'ossa
il raccapriccio, e m'impietrò sul ciglio
le lagrime scorrenti: e così stetti,
finché improvvisa entrò la madre, e, visto
lo spettacolo atroce, s'arrestò
pallida, fredda, muta. Indi qual lampo
disperata spiccossi, e, stretto il ferro
ch'era poc'anzi di mia man caduto,
se lo fisse nel petto, e su la figlia
lasciò cadersi, e le spirò sul viso.
[...] I sacerdoti, che del ciel la voce
son costretti a tacer quando i potenti
fan la forza parlar, taciti e soli
col favor delle tenebre nel tempio
la morta Dirce trasportaro; e quindi
creder fero che Dirce in quella notte
segretamente su l'altar svenata
placato avesse col suo sangue i numi,
e che di questo fieramente afflitta
sè medesma uccidesse anche la madre.
[...] Da qualche tempo
un orribile spettro...

GONIPPO: Eh! Lascia al volgo
degli spettri la tema, e dai sepolcri
non suscitar gli estinti [...]

 
Atto Terzo, Scena VII
 
ARISTODEMO: Ebben: sia questo adunque
l'ultimo orror che dal mio labbro intendi.
Come or vedi tu me, così vegg'io
l'ombra sovente della figlia uccisa;
ed, ahi, quanto tremenda! Allor che tutte
dormon le cose, ed io sol veglio e siedo
al chiaror fioco di notturno lume;
ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro
starmi d'incontro, ed occupar la porta
minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
in manto sepolcral, quel manto stesso
onde Dirce (1) coperta era quel giorno
che passò nella tomba. I suoi capelli,
aggruppati nel sangue e nella polve,
a rovescio gli cadono sul volto,
e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido
volgo altrove la fronte; e me 'l riveggo
seduto al fianco. Mi riguarda fiso,
ed immobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome
e piovendone sangue, apre la veste,
e squarciato m'addita, ahi vista!, il seno
di nera tabe (2) ancor stillante e brutto.
Io lo rispingo; ed ei più fiero incalza,
e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano
tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro
traverso i fianchi e mi trascina a' piedi
di quella tomba, e "Qui t'aspetto" grida,
e ciò detto, sparisce."

GONIPPO: Inorridisco.
O sia vero il portento o sia d'afflitta
malinconica mente opra ed inganno,
ti compiango, mio re. Molto patirne
certo tu dèi; ma disperarsi poi
debolezza saria. Salda costanza
d'ogni disastro è vincitrice. Il tempo,
la lontananza dileguar potranno
de' tuoi spirti il tumulto e la tristezza.
Questi luoghi abbandona, ove nudrito
da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo
la Grecia tutta, visitiam cittadi,
vediamone i costumi. In cento modi
t'occuperai, ti distrarrai... Che pensi?
Oimè! Che tenti, sconsigliato?"

ARISTODEMO: Io stesso
entrar là dentro.

GONIPPO: In quella tomba? Oh stelle!
Ferma! A qual fine?

ARISTODEMO: A consultar quell'ombra.
O placarla, o morir.


(1) è il nome della figlia uccisa da Aristodemo
(2) sangue

Il Romanzo Nero (6) Charles Brockden Brown

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Nota di Lunaria: purtroppo questo autore non l'ho mai letto! E non l'avevo mai sentito nominare, prima.

Il primo letterato americano che si mise a scrive trasformando questa attività in un lavoro fu il quacchero Charlese Brockden Brown (1771-1810), l'importatore del Gotico in America.

Sotto l'influsso delle opere di william Goldwin ma soprattutto di Ann Radcliffe e degli scrittori tedeschi, Brockden Brown scrive nel 1798 il suo capolavoro, "Wieland, ovvero la trasformazione" e poi altri cinque romanzi dello stesso genere, tra i quali i più notevoli sono "Ormond, ovvero il testimone segreto" e "Edgar Huntley ovvero memorie di un sonnambulo".

Contrariamente ai gotici europei, inglesi o tedeschi, Brockden Brown ambienta le sue storie nel tempo presente.
Il terrore, con lui, smette di essere un sentimento esterno, causato dall'atmosfera di tregenda di vecchie abbazie in rovina, notti cupi e apparizioni di fantasmi. Il terrore nasce dentro l'uomo, nella sua mente e nelle sue allucinazioni, per esempio quelle religiose.

Nota di Lunaria: tipica anche di altri autori americani, anche perché l'America è funestata dall'estremismo integralista cristiano della famigerata Bible Belt e dalla piaga del terrorismo cristiano fomentato dai gruppettini cristiani che si riuniscono nel macro-gruppo della Christian Identity,


che ha al suo attivo dozzine di attentati dinamitardi o sparatorie contro "chi non è cristiano" (atei, donne che abortiscono, medici, lesbiche ecc.)


spesso di matrice suprematista bianca, nonché di gruppi come il Ku Klux Klan. Anche l'estremismo evangelico è altrettanto violento tanto quanto il movimento protestante.



Tra l'altro, l'ipocristia regna sovrana; difatti tutti questi personaggi SONO CRISTIANI, ma non vengono etichettati come "terroristi cristiani", mentre quasi tutti usano l'etichetta "terrorista islamico".




 Eh, ma si sa: il cristianesimo va sempre trattato con i guanti di velluto, eh?

Autori che hanno trattato il fanatismo religioso da un punto di vista horror sono stati Thomas Tryon con "La Festa del Raccolto"


e il più noto Stephen King con il racconto "I figli del grano",


reso celebre da una serie di film, "Grano rosso sangue", arrivati, ad oggi, con tanto di remake, a nove capitoli, anche se non c'è stata "continuity" nella storia e alcuni titoli sono storie a sé.




Il migliore secondo me resta il primo, con la scena (e la musica!) indimenticabile del grande massacro dei genitori immolati al "Dio del grano", Colui che cammina dietro i filari,


che nel film, per giunta, viene ammantato di rimandi allo jahvè biblico; parodia del cristianesimo, specialmente nella sua versione "americana"... è suggestiva la scena delle croci erette in mezzo al campo...


 e come dimenticare il piccolo e sinistro predicatore, Isaac?


Ma Stephen King non inventa nulla; i culti agrari erano particolarmente feroci e si basavano tutti sul sacrificio umano annuale o anche su una vera e propria ecatombe; basterebbe citare i Mesoamericani, con i loro riti crudeli in onore di questa o quella divinità del mais o del rinnovamento primaverile, come Xipe Totec... Per approfondire, vedi "Trattato di Storia delle Religioni" di Mircea Eliade

Brockden Brown può essere considerato il precursore diretto di Edgar Alla Poe, che eredita da lui "una metafisica dell'orrore".

"Senza l'opera generale di Charles Brockden Brown", scrive Marisa Bulgheroni nell'introduzione al "Wieland", "la narrativa del primo Ottocento non sarebbe spiegabile.
Attento agli oscuri processi della mente come ai capricciosi moti del cuore, ossessionato dall'imperfezione dell'universo come dalla presenza del Male nell'anima, Brockden Brown precorre ugualmente Poe e Hawthorne, che si divideranno la sua eredità, approfondendo la direzione dell'orrore metafisico e l'indagine degli abissi del cuore."

Approfondimento su Poe: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/commento-ad-edgar-poe-per-la-poesia-il.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/05/edgar-poe-le-poesie-piu-belle.html
Approfondimento su Hawthorne:  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/i-racconti-neri-e-fantastici-di.html

Lo spunto del "Wieland" è tratto da un avvenimento realmente accaduto: nel 1781 un agricoltore di Tamhannock aveva sacrificato tutti i suoi animali e poi la moglie e i figli in obbedienza alle ingiunzioni di due angeli apparsigli durante una visione.
Brockden Brown cerca di darne una spiegazione razionale: l'assassino "religioso" è stato spinto non da voci divine, come crede, ma da uno sciagurato ventriloquo che gli ha sconvolto la mente.






Introduzione ad E.T.A. Hoffmann e alla Narrativa Tedesca del Terrore

Tratto da


Se l'Inghilterra è la patria del romanzo gotico e nero, la Germania è la patria della letteratura fantastica del terrore, tanto che Edgar Allan Poe rispondendo ai critici che lo accusavano di aver imitato gli autori europei, si sentirà in dovere di precisare che il terrore dei suoi racconti "non veniva dalla Germania" ma unicamente dal profondo del suo cuore.

Lo Sturm und Drang, le ballate di Herder (*), Burger ("Lenore"), le opere di Goethe riportando in onore antiche tradizioni tedesche, storie di gnomi, elfi, fantasmi, monache insanguinate, castelli tenebrosi immersi in cupe foreste, sviluppano quasi in concorrenza con il gotico inglese una scuola del terrore tipicamente tedesca, destinata ad influenzare i successivi sviluppi del Nero e anche Poe.

Nota di Lunaria: e questa cosa è rimasta anche ai giorni nostri, infatti la Germania è da sempre la terra del Gothik Treffen e non dimentichiamoci dei tanti gruppi Gothic Rock ed Electrogoth provenienti dalla Germania, come i Blutengel... bhè, certamente, band che portano il gotico all'eccesso risultando anche pacchiane... :P, ma vabbè, siamo sensibili al fascino di Chris, per cui gli perdoniamo i suoi testi decisamente puerili ed elementari se non imbarazzanti e totalmente carenti di vera profondità culturale... roba così pacchiana e involontariamente parodistica del Goth che Goethe o Novalis si rivoltano nella tomba... :P





 Altre band decisamente meno pacchiane dei Blutengel sono i Die Verbannten Kinder Evas (austriaci),
 o i Lacrimosa, che hanno usato esclusivamente il tedesco nella loro musica. Nel Gothic Rock, invece, credo che i più talentuosi siano i Lacrimas Profundere,  anche se molti altri potrebbero citare prima dei Lacrimas Profundere, per importanza storica e di visibilità, gli In My Rosary (band che io ho sempre seguito pochissimo) mentre band come Love Like Blood, Dronning Maud Land, The Merry Thoughts o Crudeness sono sempre stati "di seconda linea" e pallidi imitatori del binomio FOTN/Sisters of Mercy che ripropongono pedissequamente (con qualche clonaggio, già che ci sono, anche dei Mission) e spesso spompatamente (anche se tutto sommato i The Merry Thoughts risultano piacevoli nello scopiazzamento Sisteriano e un po' di verve ce l'hanno...). Un artista che ha invece mostrato personalità e carisma è Sopor Aeternus col suo "marchio di fabbrica" di un sound totalmente decadente, operistico, oscuro, anche se alla lunga, una "full immersion" nei cd di questo artista forse può "frollare le orecchie" data "la ripetitività" del suo celebre "marchio di fabbrica".


Il più grande scrittore tedesco del Fantastico è Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), strano personaggio di musicista e scrittore, e non è improbabile che molte delle sue allucinazioni letterarie siano frutto degli eccessi alcoolici cui era soggetto.


Hoffmann fu a sua volta influenzato da Johann P. Richter, autore di "La loggia invisibile" (1793), "Espero" (1795), "Il titano" (1803).
Nell'opera "Gli elisir del Diavolo" (1816) troviamo accatastate anche se in modo caotico, tutte le convinzioni artistiche, letterarie, filosofiche e morali di Hoffmann.

Questa la trama: il "santo" frate Medardo beve un misterioso elisir trovato nel suo convento e viene preso dalla frenesia della carne; mandato a Roma, si innamora della giovane Aurelia; uccide Eufemia e Hermogen, matrigna e fratello di Aurelia, e poi fugge in Italia, dove viene aiutato da Pietro Belcampo. Prima di tornare al convento e di concludere santamente la sua vita, Medardo dovrà passare attraverso le più strane e paurose avventure, come l'incontro col suo sosia, che ha la coscienza carica delle sue stesse colpe.

L'ispirazione gotico-nera evidente in molte scene terrifiche del romanzo ritorna anche nei racconti "Il maggiorasco" e "Il voto" e nella raccolta "Notturni secondo Callot"; tipicamente tedesca e hoffmaniana è invece la fantasia delle "Novelle Musicali", pervase da un sottile umorismo macabro.
Poco apprezzato in Germania, Hoffmann diventa celebre all'estero, con disappunto di Goethe che trova disdicevole per la letteratura tedesca esser rappresentata da "quel malato",
In Francia, Hoffmann influenzerà Balzac ("Pelle di Zigrino" - autore che tratterò prossimamente. Nota di Lunaria) e Poe.



(*) Troviamo elementi sepolcrali anche in due poesie giovanili di Heinrich Heine (tratte dal "Il libro dei canti")

I pallidi morti, ch'io seppi
con magico motto evocare,
nel mondo di tenebra eterna
non vogliono più ritornare.

Il magico motto che appresi
obliai nel terrore; e me, ora,
gli spiriti stessi trascinano
laggiù, nella cupa dimora.

Lasciatemi, demoni oscuri,
e non sospingetemi più!
Ancora molta gioia può esservi
per me, nella luce quassù.

Io tendere debbo pur sempre
qui verso il bellissimo fiore;
che vale l'intera mia vita,
se darle non posso il mio amore?

Ancora una volta abbracciarla
e premerla al cuore infuocato!
La bocca baciandole e il viso,
godere un tormento beato!

Ancora una volta nel labbro
udire un suo tenero accento...
e tosto nel mondo di tenebra
vi posso seguire contento.

Gli spiriti m'hanno compreso
e accennano orribile un "sì"
Diletta ora sono venuto;
diletta, m'ami tu, dì?

Io, della mia donna la casa ho lasciato,
e la mezzanotte è appena suonata.
E dal cimitero, che sto costeggiando,
severe le tombe mi vanno accennando.

E là, della luna nel vivo chiarore,
m'accenna la lapide dell'umile cantore.
E ascolto un bisbiglio: "Io vengo, fratello!"
e un bianco fantasma vien su dall'avello.

E l'umil cantore, già fuori venuto,
sull'alta lapide sta ora seduto;
esperto percuote le corde alla cetra
e canta con voce così sorda e tetra:

Orsù ricordate l'antico motivo,
voi torbide corde, che il petto a me vivo
percosse con tanto furore?
Lo chiamano gli angeli gioire superno,
lo chiamano i diavoli tormento d'inferno,
lo chiamano gli uomini: Amore!

E questa parola è appena suonata,
ed, ecco, ogni tomba s'è già scoperchiata.
Aeree figure ne escono e ondeggiano
intorno al cantore, e in coro salmeggiano:

Folle amore, la tua possa
ci distese nella fossa;
gli occhi un tempo ci chiudesti,
perchè ora ci ridesti?

è un ululo, un gemito confuso, un gridare
e d'ossa un sinistro urtare e scrosciare;
intorno al cantore lo sciame si serra.
Selvagge le corde cantando egli afferra....


Qui trovate anche l'approfondimento su Schiller, Meyrink e sulla Letteratura Tedesca

http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/commento-al-visionario-di-schiller.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/il-fantastico-lorrore-e-lesoterismo-in.html
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/08/introduzione-al-romanticismo-tedesco.html

Il Romanzo Nero (5) Mary Shelley

Tratto da


Il più celebre mostro della letteratura e del cinema è senza dubbio Frankenstein di Mary Godwin Shelley, moglie del poeta Shelley.



"Passai l'estate del 1816 nei dintorni di Ginevra", scrive l'Autrice nella prefazione del romanzo, "il tempo era freddo e piovoso; la sera ci raccoglievamo attorno ad un gran fuoco di legna e ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, che ci erano capitate tra le mani. Queste letture destarono in noi un burlesco desiderio di emulazione. Decidemmo di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su qualche evento soprannaturale. Ma il tempo si fece improvvisamente sereno e i miei amici mi lasciarono per un'escursione sulle Alpi. Il mio racconto è il solo che sia stato portato a termine."

Gli amici di cui parla Mary sono il celebre poeta inglese Byron, che abitava vicino agli Shelley, nella famosa villa Diodati, dove secoli prima aveva soggiornato anche John Milton, e il suo giovane amico, il dottor Polidori.



Forse era con loro anche "Lewis il monaco", come ormai veniva chiamato l'autore del "Monaco" e questo spiegherebbe come il passatempo della "piccola società" si fosse indirizzato verso i cupi orizzonti del Nero.


Il racconto di Byron, "A fragment" resta incompleto, e sarà Polidori a portarlo a termine, pubblicandolo nel 1819 con il titolo "Il vampiro".  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/commento-al-vampiro-di-john-polidori.html

Il "Frankenstein o il Prometeo moderno" viene pubblicato nel 1818 e ottiene immediatamente un grande successo.


Frankenstein è un giovane studioso che utilizzando parti di corpo umano trafugate in cimiteri riesce a costruire un "omunculus" che poi passerà alla storia con il nome del suo creatore.
Il "mostro" è privo di anima e senza esperienza del mondo perciò fondamentalmente buono. In pochi giorni percorre le più importanti tappe della storia dell'uomo, dalla scoperta del fuoco alla cultura, quando trova in un bosco alcuni libri: "Paradiso Perduto", "Le vite" di Plutarco e "I dolori del giovane Werther".
Frankenstein, da queste letture, trae una problematica personale di carattere quasi esistenziale: "nessuno avrebbe pianto per la mia fine. La mia persona era orrenda, la mia statura gigantesca: che cosa significava tutto ciò? Chi ero? Da dove venivo? Qual'era la mia meta?"
Nonostante la sua bontà, nessuno vuole dargli quell'amore e quella simpatia di cui sente disperatamente bisogno. Ben presto, il "mostro" fa conoscenza con la realtà della vita sociale, con le ingiustizie e la cattiveria degli uomini. Diventa malvagio e usa la sua temibile forza per fare del male; si vendica della sua infelicità uccidendo la moglie, il fratello e l'amico del suo creatore. Poi fugge nell'Artico. Perseguitato e raggiunto dallo scienziato, che lo cerca per vendicarsi, il mostro si ribella ancora e uccide il suo creatore, per poi scomparire per sempre.
 


Nota di Lunaria: il mito di Frankenstein ha trovato legioni di fans che ne hanno proseguito le gesta o hanno rivisto e rielaborato il racconto:


A me è piaciuto anche la creatura di Frankenstein nel film "Van Helsing", che in più di una scena mostra tutta la sua sofferenza e solitudine:





Qui, uno stralcio:

"Quando i sentimenti sono stati eccitati da una veloce successione di eventi, niente è più doloroso per l'animo umano della calma mortale dell'inazione e della certezza che segue, e priva l'animo sia della speranza che della paura. Justine era morta, lei riposava, e io ero vivo. Il sangue scorreva libero nelle mie vene, ma un peso di disperazione e di rimorso mi opprimeva il cuore e niente avrebbe potuto rimuoverlo. Il sonno abbandonò i miei occhi; vagavo come uno spirito maligno perché avevo compiuto malvagità di indescrivibile orrore, e ancora molto, molto di più (ne ero certo), doveva accadere. Tuttavia, il mio cuore traboccava di gentilezza e di amore per la virtù. Avevo iniziato la vita pieno di buone intenzioni e ansioso di metterle in pratica e di rendermi utile al genere umano. Ora tutto era distrutto; invece di quella serenità di coscienza che mi avrebbe permesso di guardare al passato con soddisfazione, e da lì raccogliere la promessa di nuove speranze, fui preso dal rimorso e dal senso di colpa che mi spinsero in un inferno di torture così intense che nessuna lingua può descrivere. Questo stato d'animo consumava la mia salute, che, forse, non si era mai ripresa dal primo colpo che avevo subito. Schivavo la vista degli uomini; ogni suono di gioia o contentezza era per me una tortura; la solitudine era la mia unica consolazione - una solitudine profonda, buia e simile alla morte."

Fotogrammi da "La Maschera di Frankenstein" 1957









Il Romanzo Nero (4) Charles R. Maturin

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"Melmoth è destinato a consumare in fiamme di grande portata spirituale tutto quello che, in potenza, resta nelle risorse di un genere. Si può dire che fu il canto del cigno del Romanzo Nero", scriveva André Breton.

Il padre di "Melmoth  o l'uomo errante" è il reverendo Charles Robert Maturin; Maturin aveva pubblicato già alcuni libri sotto lo pseudonimo di Dennis Jasper Murphy ("La fatale vendetta o la famiglia Montorio", "Il selvaggio ragazzo irlandese", "Il Capo milesiano") quando pubblica col suo vero nome "Bertram", un tragedia del 1816 e "Melmoth".



La storia è ripresa in parte  da un romanzo del 1799, il "Saint-Leon" di William Godwin, il padre di Mary Shelley, e risente del "Monaco" di Lewis, della "Religiosa" di Diderot e della leggenda dell'ebreo errante.

La figura dominante è quella del terribile Melmoth, "i cui occhi erano di quelli che si vorrebbe non aver mai visto e che è impossibile dimenticare."
Melmoth ha concluso un patto con Satana ottenendo "un'esistenza prolungata ben oltre il tempo ordinario con il potere di attraversare lo spazio immediatamente e senza difficoltà, e di visitare le regioni più lontane con la velocità del pensiero, sfidando la folgore senza venir colpito." Questi poteri servono per tentare i miserabili nell'ora della disperazione offrendo loro la speranza della liberazione a condizione che mutassero la loro posizione con quella di Melmoth. Ma nessuno ha mai voluto scambiare la sua sorte con quella di Melmoth. E scaduti i centocinquanta anni, Melmoth viene scaraventato in mare dal demonio.

Il successo di "Melmoth" fu breve, ma influenzò Victor Hugo, Charles Nodier, Alexandre Dumas, Balzac ed Eugène Sue, tutti debitori riconoscenti di ispirazione, ambienti e ritmi narrativi.

C'è anche un seguito, "Melmoth Riconciliato" (1835), scritto da Balzac, tanto ossessionato da questo eroe dal volerlo strappare alla sua sorte: Melmoth, infatti, riesce a scambiare la sua anima con quella di un cassiere disonesto, Castanier, e quindi a morire riconciliato con Dio. Castanier, a sua volta, riesce a cederla ad un banchiere sull'orlo della rovina.


Ma più di tutti resterà colpita da Melmoth la fantasia tormentata del Baudelaire in "I Fiori del Male":


"Ricordiamoci di Melmoth, ammirevole emblema. La sua spaventosa sofferenza sta nella sproporzione tra le meravigliose facoltà acquistate istantaneamente, grazie ad un patto satanico, e il mondo in cui, come creatura di Dio, è condannato a vivere. E nessuno di quelli che lui vuole sedurre acconsente ad acquistargli, alle stesse condizioni, il suo terribile privilegio! In effetti, qualsiasi uomo che non accetta le condizioni della vita, vende la sua anima. L'uomo ha voluto essere Dio, e ben presto eccolo, in virtù di una legge morale incontrastabile, caduto più in basso della sua reale natura."

Qui uno stralcio tratto da "Melmoth"

"Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si lamentino o meno, mi interessa poco."
"Eppure hai affermato che vuoi morire!"
"Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore! Non è forse ora che il meccanismo voglia essere ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore. Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella sua ragnatela"

"Il vecchio Melmoth era in uno stato di profondo torpore. Gli occhi avevano perduto l'espressione sia pure incerta che avevano prima; le mani, che si erano aggrappate convulsamente alla coperta, avevano ora abbandonato la debole presa tremante e si allungavano incerti come gli artigli di un uccello morto di fame: scheletriche, gialle, spalancate. John, per il quale la morte era uno spettacolo insolito, pensò che il vecchio fosse soltanto assopito, e spinto da un impulso che non tentò neppure di giustificare, riprese la candela e si avventurò di nuovo nella stanza proibita. I suoi passi svegliarono il moribondo che si drizzò a sedere sul letto. John non se ne accorse, perchè era già nello studiolo, ma udì il gemito, o piuttosto il rantolo che gorgoglia e soffoca in gola annunciando l'orribile conflitto fra le convulsioni del corpo e della mente. Rabbrividì, si fermò, e mentre si voltava per andarsene gli sembrò di vedere che gli occhi del ritratto, sui quali aveva fissato i suoi, si muovevano. Allora tornò di corsa nella stanza dello zio."

Il Romanzo Nero (3) Matthew Gregory Lewis

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"Dovremmo adesso analizzare quei romanzi nuovi, il cui unico pregio consiste nel sortilegio e nella fantasmagoria, ponendo innanzi a tutti "Il monaco", superiore senz'altro ai bizzarri slanci della fervida immaginazione della Radcliffe", scrive il "divino marchese" de Sade nelle "Idee sul Romanzo" e l'apprezzamento di una così grande autorità nel campo del Nero fa singolarmente onore al giovane Matthew Gregory Lewis e al suo Monaco, scritto in sole dieci settimane.

Lewis, nato a Londra nel 1775, giovane segretario di ambasciata, ha viaggiato in lungo e in largo per l'Europa; nel suo Monaco e nelle varie storie collaterali che illustrano e complicano la trama, Lewis attinge dai modelli tedeschi ("Il Visionario" di Schiller,  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/commento-al-visionario-di-schiller.html
"Lo stregone" di Weit Weber, leggende tedesche come quella della "Monaca sanguinante" (*)  e dal "Faust" di Goethe) e francesi ("Il Diavolo in amore" di Cazotte, la "Justine" di de Sade, la letteratura anticlericale della Rivoluzione e l' "Auto da fé" di Gabiot), spagnoli, scozzesi, danesi (soprattutto dalla "Ballata di Alonso" e "Imogene"). Insomma, "il Monaco" riassume gli stimoli culturali e i dati della nuova sensibilità di tutta una generazione europea ed è come un sunto dei fermenti preromantici.

Questa la trama:

Ambrosio, priore dei domenicani di Madrid, soprannominato "l'uomo di Dio", è in odore di santità. Ma Satana ha deciso di punire il suo smisurato orgoglio e gli manda in convento la bellissima Matilde, travestita da monaco. Ambrosio cede alle lusinghe della carne e quando si stanca di Matilde si mette ad insidiare una delle sue penitenti, la bella Antonia. Con l'aiuto di Satana riesce ad introdursi nella camera della fanciulla ma viene sorpreso dalla vecchia madre; Ambrosio la strozza, poi fa bere ad Antonia un potente narcotico. Creduta morta da tutti, la fanciulla viene trasportata nei sotterranei della chiesa. E qui, nell'oscurità, fra le tombe, il frate la violenta e poi la trucida. (**)


Scoperto e denunciato alla Santa Inquisizione, Ambrosio viene arrestato, torturato e condannato al rogo.
Per sfuggire alla morte, tenta di stringere un patto con Satana e gli vende la sua anima; ma Satana non tiene fede al patto; gli rivela che le povere infelici che ha assassinato e violentato erano sua madre e sua sorella; poi si alza in volo con la sua preda tra le grinfie e giunto sopra orride montagne lo lascia precipitare.

Il libro provocò un enorme scandalo ed enorme fu il successo.
"Lo splendido cielo tempestoso del "Monaco" che copre e scopre con ardore senza precedenti il conflitto tra le aspirazioni alla più austera virtù e il desiderio carnale esasperato dalla più sottile provocazione", scriveva André Breton, "eserciterà un lungo fascino per tutto il XIX secolo".
E infatti non bisogna dimenticare quanto Victor Hugo deve a Lewis per il Claude Frollo di "Notre Dame de Paris" e per alcuni episodi dei "Miserabili" e quanto importante sia stata l'amicizia di Lewis per i grandi poeti inglesi Shelley e Byron.
Anche Charlotte Dacre stimava Lewis: https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2020/10/zofloya-di-charlotte-dacre.html



(*) La Monaca Insanguinata è lo spettro di una che, forzata a diventar monaca dei genitori, non resistendo agli stimoli  del proprio temperamento "caldo e voluttuoso", si abbandona ad ogni sorta di eccessi, uccide ed è uccisa. è un tipo che si ritroverà nella Monaca di Monza del Manzoni. C'è da far notare che in gioventù Manzoni era stato assiduo lettore dei romanzi neri da progettare di scrivere un romanzo fantastico, idea che poi venne abbandonata. Altri autori italiani in parte influenzati da Ann Radcliffe e dai romanzi neri sono Guerrazzi, Giulio Carcano e Antonio Ranieri. Per approfondimenti vedi:  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/la-fanciulla-perseguitata-nei-romanzi.html

(**) Da ricordare che Lewis stesso fu influenzato dalla lettura di romanzi come "Intrigues monastiques ou l'Amour encapuchonné", 1739, ove un confessore assassina la giovinetta che ha disonorato e "Les victimes cloitrées", dramma di Monvel (1791) dove un malvagio prete fa chiudere in convento una fanciulla di cui vuole abusare.

AGGIUNGO QUESTO APPROFONDIMENTO