Il suo apporto alla cultura settecentesca è tanto notevole in vita, quando si trattava di riaccostare alla lettura italiana il buon gusto, il programma e i moduli pubblicistici della cultura francese, quanto gli stessi che muovono da lui (Alfieri, Foscolo, Leopardi), si rivelano.
Il compito assolto da questo culturalista, che collocò in venerande istituzioni accademiche ed universitarie il frutto delle sua attenzioni filosofiche, letterarie e linguistiche, rimase misconosciuto. La critica novecentesca lo ristudiò sulla traccia di un approfondimento sistematico e di una giustificazione storica dei suoi concetti filosofici e metodologici.
Fra problematica filosofica del primo tempo e problematica linguistica del secondo, dividendone l'opera in una collocazione un po' generica, la sua grande avventura letteraria è la Nachtdichtung ossianica: dove accompagnando un tratto il lavoro filologico-letterario della scoperta preromantica della poesia dell'Europa barbara e quella che fu detta "geniale impostura" del Macpherson, riuscì a dimostrare che la letteratura italiana, tutt'altro che chiusa nei moduli neoclassici della riforma cinquecentesca, era suscettibile di ogni acquisto.
Melchiorre Cesarotti percorse la sfera fantastica e sentimentale el Preromanticismo e la diarchia indicata di fantasia e di sentimento con la duttilità di uno che leggeva e conversava instancabilmente, con l'autorevolezza di un buon ragionatore, dalla cattedra e dal libro.
"Notte d'ottobre nel Nord della Scozia", traduzione in italiano delle Poesie di Ossian di James Macpherson
Qui si può leggere un commento a Macpherson e qualche stracio delle Poesie di Ossian: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/i-canti-di-ossian-di-james-macpherson.html
PRIMO CANTORE
Trista è la notte, tenebria s'aduna,
tingesi il cielo di color di morte:
qui non si vede né stella né luna,
che mette il capo fuor delle sue porte.
Torbido è 'l lago, e minaccia fortuna;
odo il vento nel bosco a ruggir forte:
giù dalla balza va scorrendo il rio
con roco lamentevol mormorio.
Su quell'alber colà, sopra quel tufo,
che copre quella pietra sepolcrale,
il lungo-urlante ed inamabil gufo
l'aer funesta col canto ferale.
Ve' ve':
fosca forma la piaggia adombra:
quella è un'ombra:
striscia, sibila, vola via.
Per questa via
tosto passar dovrà persona morta:
quella meteora de' suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
il cervo geme - sul musco del monte,
l'arborea fronte - il vento gli percote;
spesso ei si scuote - e si ricorca spesso.
Entro d'un fesso - il cavriol s'acquatta,
tra l'ale appiatta - il francolin la testa.
Teme tempesta - ogni uccello, ogni belva,
ciascun s'inselva - e sbucar non ardisce;
solo stridisce - entro un nube ascoso
gufo odioso;
e la volpe colà da quella pianta
brulla di fronde
con orrid'urli a' suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
il peregrin
va per sterpi, per bronchi, per spine,
per rovine,
ché ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
dirupi di là,
teme i sassi, teme le grotte,
teme l'ombre della notte,
lungo il ruscello incespicando,
brancolando,
ei trascina l'incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
il sasso rotola, il ramo si schianta,
l'aride lappole strascica il vento;
ecco un'ombra, la veggo, la sento:
trema di tutto, né sa di che.
Notte pregna di nembi e di venti,
notte gravida d'urli e spaventi!
L'ombre mi volano a fronte e a tergo:
aprimi, amico, il tuo notturno albergo.
SECONDO CANTORE
Sbuffa 'l vento, la pioggia precipitasi,
atri spirti già strillano ed ululano.
svelti i boschi dall'alto si rotolano,
le fenestre pei colpi si stritolano.
Rugghia il fiume che torbido ingrossa:
vuol varcarlo e non ha possa
l'affannato viator.
Udiste quello strido lamentevole?
Egli è travolto, ei muor.
La ventosa orrenda procella
schianta i boschi, i sassi sfracella;
già l'acqua straripa,
si sfascia la ripa;
tutto in un fascio la capra belante,
la vacca mugghiante
la mansueta e la vorace fera
porta la rapidissima bufera.
Nella capanna il cacciator si desta,
solleva la testa,
stordito avviva il fuoco spento: intorno
fumanti
stillanti
stangli i suoi veltri; egli di scope i spessi
fessi riempie, e con terrore ascolta
due gonfi rivi minacciar vicina
alla capanna sua strage e rovina.
Là sul fianco di ripida rupe
sta tremante l'errante pastor.
Una pianta sul capo risuona,
e l'orecchio gli assorda e rintrona
il torrente col roco fragor.
Egli attende la luna,
la luna che risorga,
e alla capanna co' suoi rai lo scorga.
In tal notte atra e funesta
sopra il turbo e la tempesta,
sopra neri nugoloni,
vanno l'ombre a cavalcioni.
Pur è giocondo
il lor canto sul vento:
ché d'altro mondo
vien quel novo concento.
Ma già cessa la pioggia: odi che soffia
l'asciutto vento, l'onde
si diguazzano ancora, ancor le porte
sbattono: a mille a mille
cadon gelate stille
da quel tetto e da questo. Oh! oh! pur veggo
stellato il cielo: ah che di nuovo intorno
si raccoglie la pioggia; ah che di nuovo
l'occidente s'abbuia.
Tetra è la notte e buia,
l'aer di nembi è pregno:
ricevetemi, amici, a voi ne vegno.
TERZO CANTORE
Pur il vento imperversa, e pur ei strepita
tra l'erbe della rupe: abeti svolvonsi
dalle radici, e la capanna schiantasi.
Volan per l'aria le spezzate nuvole,
le rosse stelle ad or ad or traspaiono;
nunzia di morte l'orrida meteora
fende co' raggi l'addensate tenebre.
Ecco posa sul monte: io veggo l'ispida
vetta dal giogo dirupato, e l'arida
felce ravviso e l'atterrata quercia.
Ma chi è quel colà sotto quell'albero,
prosteso in riva al lago
colle vesti di morte?
L'onda si sbatte forte
sulla scogliosa ripa, è d'acqua carca
la piccioletta barca,
vanno e vengono i remi
trasportati dall'onda
ch'erra di scoglio in scoglio: oh! su quel sasso
non siede una donzella?
Che fia? L'onda rotante
rimira,
sospira
misero l'amor suo! misero amante!
Ei di venir promise,
ella adocchiò la barca,
mentre il lago era chiaro: "Oh me dolente!
oimè questo è 'l suo legno!
oimè questi i suoi remi!
questi sul vento i suoi sospiri estremi!"
Ma già s'appresta
nuova tempesta;
neve in ciocca
fiocca, fiocca;
biancheggiano dei monti e cime e fianchi;
sono i venti già stanchi,
ma punge l'aria ed è rigido il cielo:
accoglietemi, amici, io son di gelo.
QUARTO CANTORE
Vedi notte serena, lucente,
pura, azzurra, stellata, ridente;
i venti fuggiro,
le nubi svaniro,
si fan gli arboscelli
più verdi e più belli;
gorgogliano i rivi
più freschi e più vivi;
scintilla alla luna
la tersa laguna.
Vedi notte serena, lucente,
pura, azzurra, stellata, ridente.
Veggo le piante rovesciate, veggo
i covoni che il vento - aggira e scioglie,
ed il cultor che intento
si curva e li raccoglie.
Chi vien dalle porte
oscure di morte
con piè pellegrin?
Chi vien così leve
con vesta di neve,
con candide braccia,
vermiglia la faccia,
brunetta il bel crin?
Questa è la figlia del signor sì bella,
che pocanzi cadeo nel suo bel fiore:
deh t'accosta, t'accosta, o verginella,
lasciati vagheggiar, viso d'amore.
Ma già si move il vento, e la dilegua;
e vano è che cogli occhi altri la segua.
I venticelli spingono
per la valle ristretta
la vaga nuvoletta:
ella poggiando va:
finché ricopre il cielo
d'un candidetto velo,
che più leggiadro il fa.
Vedi notte, serena, lucente,
pura, azzurra, stellata, ridente.
Bella notte, più gaia del giorno:
addio, statevi, amici, io non ritorno.
QUINTO CANTORE
La notte è cheta, ma spira spavento;
la luna è mezzo tra le nubi ascosa:
movesi il raggio pallido e va lento;
s'ode da lungi l'onda romorosa.
Mezza notte varcò, ché 'l gallo io sento:
la buona moglie s'alza frettolosa,
e brancolando pel buio s'apprende
alla parete, e 'l suo foco raccende.
Il cacciator, che già crede il mattino,
chiama i suoi fidi cani, e più non bada;
poggia sul colle e fischia per cammino:
colpo di vento la nube dirada:
ei lo stellato aratro a sé vicino
vede, che fende la cerulea strada:
"Oh" - dice "egli è per tempo, ancora annotta."
E s'addormenta sull'erbosa grotta.
Odi, odi:
corre pel bosco il turbine,
e nella valle mormora
un suon lugubre e stridulo:
quest'è la formidabile
armata degli spiriti,
che tornano dall'aria.
Dietro il monte si cela la luna
mezzo pallida e mezzo bruna:
scappa un raggio e luccica ancora,
e un po' po' le vette colora:
lunga dagli alberi scende l'ombra,
tutto abbuia, tutto s'adombra,
tutto è orrido e pien di morte:
amico, ah! non tardar, schiudi le porte.
IL SIGNORE
Sia pur tetra la notte, ululi e strida
per pioggia o per procella,
senza luna né stella;
volino l'ombre, e 'l peregrin ne tremi,
imperversino i venti,
rovinino i torrenti, errino intorno
verdi-alate meteore; oppur la notte
esca dalle sue grotte
coronate di stelle, e senza velo
rida limpido il cielo;
è lo stesso per me: l'ombra sen fugge
dinanzi al vivo mattutino raggio,
quando sgorga dal monte,
e fuor dalle sue nubi
riede gioioso il giovinetto giorno:
sol l'uom, come passò, non fa ritorno.
Ove son ora, o vati,
i duci antichi? ove i famosi regi?
Già della gloria lor passaro i lampi.
Sconosciuti, obliati
giaccion coi nomi lor, coi fatti egregi,
e muti sono delle loro pugne i campi.
Rado avvien ch'orma stampi
il cacciator sulle muscose tombe,
mal noti avanzi degli eccelsi eroi.
Sì passerem pur noi; profondo oblio
c'involverà: cadrà prostesa alfine
questa magion superba,
e i figli nostri tra l'arena e l'erba
più non ravviseran le sue rovine.
E domandando andranno
a quei d'etade e di saper più gravi:
"Dove sorgean le mura alte degli avi?"
Sciolgansi i cantici,
l'arpa ritocchisi,
le conche girino,
alto sospendansi
ben cento fiaccole;
donzelle e giovani
la danza intreccino
al lieto suon.
Cantore accostisi,
il qual raccontimi
le imprese celebri
dei re magnanimi,
dei duci nobili,
che più non son.
Così passi la notte,
finché il mattin le nostre sale irraggi.
Allor sien pronti i destri
giovani della caccia e i cani e gli archi.
Noi salirem sul colle, e per le selve
andrem col corno a risvegliar le belve.
ELEGIA DI TOMMASO [THOMAS] GRAY SOPRA UN CIMITERO DI CAMPAGNA
qui si può leggere il testo originale e con traduzione in italiano corrente: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2013/06/thomas-gray-elegia-scritta-in-un.html
Parte languido il giorno; odine il segno
che il cavo bronzo ammonitor del tempo
al consueto rintoccar diffonde.
Va passo passo il mugolante armento
per la pioggia avviandosi: dal solco
move all'albergo l'arator traendo
l'affaticato fianco, e lascia il mondo
alle tenebre e a me. Già scappa al guardo
gradatamente, e più e più s'infosca
la faccia della terra, e l'aer tutto
silenzio in cupa maestade ingombra.
Se non che alquanto lo interrompe un basso
ronzar d'insetti e quel che il chiuso gregge
tintinnio soporoso al sonno alletta.
E là pur anco da quell'erma torre,
ch'ellera abbarbicata ammanta e stringe,
duolsi alla luna il pensieroso gufo
di quei che al muto suo segreto asilo
d'intorno errando, osan turbare i dritti
del suo vetusto solitario regno.
Sotto le fronde di quegli olmi, all'ombra
di quel tasso funebre, ove la zolla
in polverosi tumuli s'inalza,
ciascun riposto in sua ristretta cella,
dormono i padri del villaggio antichi.
Voce d'augello annunziator d'albori,
auretta del mattin che incenso olezza,
queruli lai di rondinella amante,
tonar di squilla o rintronar di corno
non gli alzeran dal loro letto umile.
Più per essi non fia che si raccenda
il vampeggiante focolar; per essi
non più la fida affacendata moglie
discorrerà per la capanna, intesa
di scarso cibo ad apprestar ristoro.
Non correran festosi i figliuoletti
al ritorno del padre, e balbettando
vezzi indistinti aggrapperansi a prova
sul ginocchio paterno, a còrre il bacio,
della dolce famiglia invidia e gara.
Quante volte cadeo sotto i lor falci
la bionda messe! l'ostinata zolla
quante dei loro vomeri taglienti
cesse all'impronta! come lieti al campo
traean cantando gli aggiogati bovi!
Come al colpir delle robuste braccia
gemeano i boschi disfrondati e ignudi!
No, della rozza villereccia gente
le pacifiche ed utili fatiche,
le domestiche gioie e 'l fato oscuro
non dispregiarlo, Ambizion superba;
né sdegni il Fasto con sorriso altero
della semplice e bassa Povertade
gli oscuri sì ma non macchiati annali.
Pari è di tutti il fato: avito ceppo
nella notte de' secoli nascoso,
pompa di gloria e di possanza, e quanto
può ricchezza ottener, donar beltade,
tutto sorprende inevitabil punto,
e ogni via dell'onor guida alla tomba.
Vano mortal, non recar loro ad onta
se su i sepolcri lor trofeo non erge
la pomposa Memoria ove per l'alte
volte dei tempii ripercossa echeggia
canora laude. Ah l'ammirato busto
o l'urna effigiata al primo albergo
può richiamar lo spirito fugace?
Può risvegliar la taciturna polve
voce d'onore? o adulatrice lode
il freddo orecchio lusingar di Morte?
Ma che? negletto in questo angolo oscuro
un cor già pregno di celeste foco
forse è riposto, e qualche man possente
a regger scettro di fiorito impero
o ad avvivar l'armoniosa cetra
rapitrice dell'anime gentili.
Sol non aprì Dottrina ai loro sguardi
il suo misterioso ampio volume
delle spoglie del Tempo altero e carco.
La freddolosa Povertade il sacro
foco ne sperse, ed inceppò dell'alma
l'agile vividissima corrente;
ché molte gemme di serena luce
disfavillanti l'Oceàn rinserra
nell'ime grotte, e molti fior son nati
a vagamente colorarsi invano
non visti, e profumar l'aer solingo
di loro ambrosia genial fragranza.
Questa zolla, chi sa? forse ricopre
rustico Hamdeno (1), che de'patri campi
al piccolo Tiranno oppose il petto.
Là forse giace inonorato, ignoto
Miltone (2) agreste, e Cromoel (3) poc'oltre
cui non bruttò della sua patria il sangue.
Attrar con voce imperiosa i plausi
d'attonito Senato, ire, minacce
di tiranni sfidar, bear contrade
coi doni d'ubertà, legger negli occhi
d'intenerito popolo confuso
la grata istoria de' suoi fatti egregi
vietò la sorte a que' negletti ingegni.
Pur se basso natal rattenne il volo
delle innate virtù, represse ancora
di vizi e di misfatti il germe e l'esca.
Fortunata impotenza a lor non diede
per mezzo il sangue farsi varco al trono;
né di pietade al meschinello in faccia
chiuder le porte, né affogar le strida
di coscienza roditrice, e 'l foco
dell'ingenuo pudor spegnersi in petto,
né del lusso e del fasto arder sull'are
incenso acceso all'Apollinea face.
Lungi dal folle vaneggiar del volgo
dai desiri infiniti e gare insane,
non traviar giammai le innocue genti
dal sentier di Natura, e per la cheta
della vita mortal solinga valle
tennero un corso tacito e tranquillo.
Or a guardar le fredde ignobili ossa
dall'ingiurie del ciel, qui presso eretto
di fragil terra un monumento adorno
di rozze rime e disadatte forme,
dal molle cor del passaggero implora
picciol tributo di sospir pietoso.
I lor nomi, i lor anni, informe scritto
d'inerudita Musa, all'ombre oscure
servon di Fama e d'eleghi dolenti.
E sparse miri le pareti intorno
di sagrate sentenze a scolpir atte
ne' rozzi petti il gran dover di morte.
Poichè chi tutta mai cesse tranquillo
in preda a muta obblivion vorace
questa esistenza travagliosa e cara?
Chi del vivido giorno i rai sereni
abbandonò senza lasciarsi addietro
un suo languente e sospiroso sguardo?
Ama posar su qualche petto amato
l'alma spirante, e i moribondi lumi
chieggono altrui qualche pietosa stilla.
Fuor della tomba ancor grida la voce
della natura, e sin nel cener freddo
degli usati desir vivon le fiamme.
Ma tu, che serbi ricordanza e cura
d'obbliati mortali e in questi versi
la lor semplice istoria altrui disveli,
che fia di te? Se in queste piagge errando,
pien d'un alto pensier che lo desvia,
qualche spirto romito al tuo conforme
chiede mai del tuo Fato, in tali accenti
forse avverrà che di lanuta greggia
qualche canuto pascitor risponda:
"Spesso il vedemmo all'albeggiar del giorno
scoter le fresche rugiadose stille
con frettoloso passo, e farsi incontro
sull'erma piaggia a' primi rai del Sole.
Sotto quel faggio, che in bizzarri scherzi
colle barbe girevoli serpeggia,
sdraiar soleasi trascuratamente
in sul meriggio, muto muto e fiso
lì su quell'onda che susurra e passa.
Presso quel bosco or con sorrisi amari
gìa seco stesso borbottando arcani
fantastici concetti, or s'aggirava
mesto, languido, pallido; l'aresti
detto uom per doglia trasognato, o folle
per cruda sorte, o disperato amante.
Spuntò un mattin; sopra l'usato poggio,
lungo la piaggia, sotto il faggio amato
più non si scorse; altro mattin succede,
né sul rio, né sul balzo, né sul bosco
più non apparve; il terzo giorno alfine
con mesta pompa e con dovuti ufizi
a lenti passi per la strada al tempio
lo vedemmo portar: t'accosta, e leggi
(ché ciò solo a te lice) il verso inciso
in quel sasso colà ch'è mezzo ascosto
da quel folto spineto. Il capo stanco
qui della terra in grembo un garzon posa
alla Fortuna ed alla Fama ignoto.
Bella scienza la sua culla umile
non ebbe a sdegno, e di gentile impronta
melanconia nell'anima marchiollo.
Larga avea carità, sincero il core,
largo a' suoi voti guiderdon pur anco
concesse il Cielo: alla miseria ei diede,
quanto aveva, una lagrima; dal Cielo
ebbe, quanto bramava, un fido amico.
I merti suoi, le sue fralezze ascose
da quel che le ricopre angusto abisso
non cercar di ritrarre: e quelli e queste
in palpitante dubitosa speme
al suo Padre, al suo Dio posano in grembo.
(1) John Hampden, seguace di Cromwell e avversario di Carlo I Stuart;
(2) Miltone è John Milton, il celebre poeta inglese
(3) Qui si allude a Oliver Cromwell, lo statista