Il Romanzo Nero (5) Mary Shelley

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Il più celebre mostro della letteratura e del cinema è senza dubbio Frankenstein di Mary Godwin Shelley, moglie del poeta Shelley.



"Passai l'estate del 1816 nei dintorni di Ginevra", scrive l'Autrice nella prefazione del romanzo, "il tempo era freddo e piovoso; la sera ci raccoglievamo attorno ad un gran fuoco di legna e ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, che ci erano capitate tra le mani. Queste letture destarono in noi un burlesco desiderio di emulazione. Decidemmo di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su qualche evento soprannaturale. Ma il tempo si fece improvvisamente sereno e i miei amici mi lasciarono per un'escursione sulle Alpi. Il mio racconto è il solo che sia stato portato a termine."

Gli amici di cui parla Mary sono il celebre poeta inglese Byron, che abitava vicino agli Shelley, nella famosa villa Diodati, dove secoli prima aveva soggiornato anche John Milton, e il suo giovane amico, il dottor Polidori.



Forse era con loro anche "Lewis il monaco", come ormai veniva chiamato l'autore del "Monaco" e questo spiegherebbe come il passatempo della "piccola società" si fosse indirizzato verso i cupi orizzonti del Nero.


Il racconto di Byron, "A fragment" resta incompleto, e sarà Polidori a portarlo a termine, pubblicandolo nel 1819 con il titolo "Il vampiro".  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/06/commento-al-vampiro-di-john-polidori.html

Il "Frankenstein o il Prometeo moderno" viene pubblicato nel 1818 e ottiene immediatamente un grande successo.


Frankenstein è un giovane studioso che utilizzando parti di corpo umano trafugate in cimiteri riesce a costruire un "omunculus" che poi passerà alla storia con il nome del suo creatore.
Il "mostro" è privo di anima e senza esperienza del mondo perciò fondamentalmente buono. In pochi giorni percorre le più importanti tappe della storia dell'uomo, dalla scoperta del fuoco alla cultura, quando trova in un bosco alcuni libri: "Paradiso Perduto", "Le vite" di Plutarco e "I dolori del giovane Werther".
Frankenstein, da queste letture, trae una problematica personale di carattere quasi esistenziale: "nessuno avrebbe pianto per la mia fine. La mia persona era orrenda, la mia statura gigantesca: che cosa significava tutto ciò? Chi ero? Da dove venivo? Qual'era la mia meta?"
Nonostante la sua bontà, nessuno vuole dargli quell'amore e quella simpatia di cui sente disperatamente bisogno. Ben presto, il "mostro" fa conoscenza con la realtà della vita sociale, con le ingiustizie e la cattiveria degli uomini. Diventa malvagio e usa la sua temibile forza per fare del male; si vendica della sua infelicità uccidendo la moglie, il fratello e l'amico del suo creatore. Poi fugge nell'Artico. Perseguitato e raggiunto dallo scienziato, che lo cerca per vendicarsi, il mostro si ribella ancora e uccide il suo creatore, per poi scomparire per sempre.
 


Nota di Lunaria: il mito di Frankenstein ha trovato legioni di fans che ne hanno proseguito le gesta o hanno rivisto e rielaborato il racconto:


A me è piaciuto anche la creatura di Frankenstein nel film "Van Helsing", che in più di una scena mostra tutta la sua sofferenza e solitudine:





Qui, uno stralcio:

"Quando i sentimenti sono stati eccitati da una veloce successione di eventi, niente è più doloroso per l'animo umano della calma mortale dell'inazione e della certezza che segue, e priva l'animo sia della speranza che della paura. Justine era morta, lei riposava, e io ero vivo. Il sangue scorreva libero nelle mie vene, ma un peso di disperazione e di rimorso mi opprimeva il cuore e niente avrebbe potuto rimuoverlo. Il sonno abbandonò i miei occhi; vagavo come uno spirito maligno perché avevo compiuto malvagità di indescrivibile orrore, e ancora molto, molto di più (ne ero certo), doveva accadere. Tuttavia, il mio cuore traboccava di gentilezza e di amore per la virtù. Avevo iniziato la vita pieno di buone intenzioni e ansioso di metterle in pratica e di rendermi utile al genere umano. Ora tutto era distrutto; invece di quella serenità di coscienza che mi avrebbe permesso di guardare al passato con soddisfazione, e da lì raccogliere la promessa di nuove speranze, fui preso dal rimorso e dal senso di colpa che mi spinsero in un inferno di torture così intense che nessuna lingua può descrivere. Questo stato d'animo consumava la mia salute, che, forse, non si era mai ripresa dal primo colpo che avevo subito. Schivavo la vista degli uomini; ogni suono di gioia o contentezza era per me una tortura; la solitudine era la mia unica consolazione - una solitudine profonda, buia e simile alla morte."

Fotogrammi da "La Maschera di Frankenstein" 1957