Gotico di Sangue



Lei voleva un amante Vampiro. Lo desiderava con tale passione da essere in perenne attesa del suo arrivo. Una di quelle sere si sarebbe svegliata sentendo un battito d'ali alla finestra, e poi sarebbe stata costretta a portare nastri di velluto e medaglioni col cammeo intorno al collo chiaro e delicato. Lo sapeva.
Si era completamente immersa nel mondo del suo amante Vampiro; divorava romanzi gotici, e vedeva tutte le notti i film dell'Orrore. Mantelli di seta e occhi di fuoco la proteggevano dalla crudeltà della notte, dalla mortalità e dalle vane e sciocche faide del mondo del sole. Le giornate come maestra d'asilo e le serate con qualche vogliosa conoscenza occasionale non riuscivano a staccarla dalla sua esistenza segreta; una parte del suo cervello, infatti, continuava sempre a confabulare, progettare, aspettare.
Spendeva tutti i suoi magri guadagni in antichità e vestiti complicati. Nel suo guardaroba figuravano candidi negligé e biancheria di pizzo. Niente croci e niente specchi, specie in camera da letto.
Nei candelabri facevano bella mostra lunghe candele bianche, e leggeva fino a tarda notte alla loro luce fumosa, si profumava e si agghindava, lasciando i capelli sciolti sulle spalle. Andava con lo sguardo continuamente alla finestra.
Si vendicava con gli amanti - pur godendo del fremito della vita, del sangue della vita, che batteva in loro - quando volevano restare la notte da lei, facendogli i toast bruciati e il caffè amaro l'indomani mattina a colazione. In cucina, naturalmente, teneva solo prodotti freschi e stoviglie di rame e di ferro; con suo rammarico, non poteva rinunciare al forno e al frigorifero. Quand'era sola, accendeva le candele in tutte le stanze e si faceva il bagno nell'acqua fresca.
Aspettava, e nel frattempo si preparava. E, finalmente, il suo amante Vampiro cominciò ad apparirle nei sogni. Insieme volavano sulle brughiere, scivolavano per i prati ammantati d'erica. Lui la portava nel suo castello diroccato, la spogliava, le toglieva la sottoveste trasparente, accarezzava il suo bel corpo e poi, al culmine della passione, le mordeva il collo inarcato, succhiandole la vita e dandole al suo posto la dannazione eterna e l'amore eterno.
Si svegliava da questi sogni madida di sudore, esausta. I bambini dell'asilo la trovavano silenziosa e tranquilla e, quando si toccava il collo candido e sorrideva con fare misterioso, avevano paura di lei.
Presto, molto presto, cantavano le sue vene, in preghiera e fervente attesa.

Presto.

Il suo unico rimpianto erano i bambini. Non avrebbe di certo sentito la mancanza di parenti e amici, di tutti quelli che aggrottavano la fronte e la scrutavano come se fosse il ritratto di qualcuno che dovevano riconoscere. Di quelli che le chiedevano di restare da loro un paio d'ore, di andare al cinema, o di accompagnarli al mare. Di quelli che avevano un rapporto con lei - o che credevano di averlo - per un semplice gesto delle lunghe mani bianche del Fato. Che volevano distrarla dalla sua vera, unica, passione; che volevano scoprire il segreto di quella passione. Perchè lei, fedele alla santità dell'attesa del suo amante Vampiro, non aveva mai parlato di lui a creatura terrena, ad anima umana. Non avrebbero capito, già lo sapeva. Non avrebbero compreso un simile sacrificio.
Ma avrebbe rimpianto i bambini. Il frutto del loro amore non avrebbe mai bisbigliato nella notte; il nobile volto di lui non si sarebbe mai intenerito alla vista della madre e del figlio dei suoi stessi lombi. Era questo il suo unico cruccio.
Stavano per arrivare le vacanze. Giugno pendeva come la nebbia, e i bambini fremevano nell'attesa. La loro vita sarebbe cominciata a giugno. Simpatizzava con i loro occhi scintillanti e i loro faccini sorridenti, sapendo che soffrivano nell'attesa quanto lei. In silenzio, mano a mano che i giorni passavano, dava ad ognuno di loro un tenero addio, stringendoseli al collo e posando una cascata di baci sulle loro guance.
Prenotò un posto sulla nave per Londra. Poi per la Romania, la Bulgaria, la Transilvania. Il sito ereditario del suo amato; la reazione violenta ai suoi sogni. Le gonne lunghe e abbombate, le spille e i medaglioni facevano aprire le valigie stracolme. Mentre lo riponeva in valigia si guardò nello specchietto. "Sto diventando pallida", pensò, e l'idea la spaventò e deliziò al tempo stesso.
Durante il viaggio divenne sempre più pallida, più magra, più esausta. Dopo essersi riavuta dalla delusione della nave da crociera moderna, si lanciò nel Continente per trovare rifugio nei treni cigolanti e nelle locande che aveva tanto sognato.
Le batteva forte il cuore ogni volta che passava davanti alle sagome scure di fortezza diroccate e antichi manieri. Restava seduta per ore tra la nebbia, a pregare il lupo ululante di venire da lei, a implorare il pipistrello di correre per unirsi a lei.
Prese l'abitudine di bere vino a letto a lume di candela, vino ricco, pastoso Borgogna rosso sangue. Con il passare dei giorni si stava amalgamando con il paesaggio, rifuggendo da se stessa come davanti alla croce ogni volta che squarci della sua vita passata, della sua falsa esistenza americana, invadevano la sua pace. 
Non teneva un diario; non contava i giorni dell'estate che correvano via. Era felice invece, di scoprirsi sempre più pallida.
Solo quando contò le monete che le restavano per comprare uno scialle da zingara si rese conto che il tempo a sua disposizione era finito. Il giorno dopo, purtroppo, doveva partire per Francoforte, e da lì prendere l'aereo che l'avrebbe riportata a New York. Il negoziante le chiese se si sentiva bene, e lei se ne andò col suo tesoro, tremante.
Si buttò sul letto.
"Così non va. Così non va". Pregò la notte. "Stanotte devi venire da me. Ho fatto qualunque cosa per te, amore mio, mio amato sopra ogni cosa. Devi salvarmi."
Poi pianse e singhiozzò fino a sentire male al petto.
Mandò giù il suo ultimo pasto a base di vitello alla paprika e rimase seduta in silenzio in camera sua. Il locandiere le portò un'altra bottiglia di Bergogna e, quando lei gli ebbe assicurato che stava benissimo, che era solo un po' stanca, le augurò un piacevole viaggio di ritorno. 
La notte passava. Anche se teneva il libro aperto, i suoi occhi erano incollati alle finestre, e le mani al bicchiere di vino. Oh! Sentirlo dentro le vene, farsi svuotare e poi riempire!

Presto, molto presto...

Poi, all'improvviso, accadde. Le finestre tremarono e si spalancarono verso l'interno. Una grande ombra, una cortina d'ebano, scese sul letto, e la stanza cominciò a girare, a girare, sempre più forte, e la investì un freddo mortale. Sentì, più che vedere, il bicchiere di vino che si frantumava per terra, e cercò di tenere gli occhi aperti mentre veniva sopraffatta, riempita, presa.
"Sei tu?" riuscì a sussurrare mentre i denti le battevano per il piacere, per il freddo e per il terrore. "Sei finalmente tu?"
Mani gelide la toccarono dappertutto: il viso, i seni, il collo inarcato in disperata offerta. Gelido, forte, instancabile. Qe di esultanza. La dannazione eterna, l'eterno amore. Il suo amante Vampiro era venuto, alla fine.

Quando riaprì gli occhi, lanciò un urlo e fuggì dalla luce accecante del sole. Chiusero immediatamente le tende e le dissero dove si trovava. Era di nuovo a casa, dove tutto era caldo e piacevole, e lei era salva dalla malattia che l'aveva quasi uccisa.
Si era ammalata prima di lasciare gli Stati Uniti. Quando era arrivata in Transilvania, l'anemia aveva raggiunto lo stadio acuto. Non aveva notato il pallore, la debolezza?
Anemia. Aveva un sorriso segreto sulle labbra esangui. Era questo che pensavano? Ma lui era venuto per lei, numerose volte. Nei sogni. E, quella notte, aveva voluto portarla finalmente nel suo castello per sempre, premiare il suo amore devoto, la sua passione per le brughiere e per le nebbie. Non doveva fare altro che aspettare, e prima o poi lui avrebbe finito l'opera.

Presto, molto presto.

Ma il suo stomaco non tollerava più il cibo; i medici si torcevano le mani e parlavano di misure drastiche, perchè era chiaro che la stavano perdendo.
Sotto le esortazioni insistenti del suo dottore, cominciò a fare delle passeggiate. Prima molto brevi, con dei dolori terribili ai piedi magrissimi. Avvolta in uno scialle di lana, nascosta dietro gli occhiali da sole, camminava a minuscoli passettini come una vecchia. Nelle ore più calde della giornata, le bruciava il collo in maniera insopportabile, e il dolore non le passava finché non si spostava all'ombra.
Le si rivoltava lo stomaco alla sola vista delle vetrine di alimentari. Davanti al macellaio, invece, si fermava e si leccava le labbra davanti alla carne cruda e sanguinolenta. Ma non riusciva a raggiungerlo. Non peggiorava, ma nemmeno migliorava.
"Sono in trappola", bisbigliava la notte alla luce delle candele. "Sto sparendo tra il tuo mondo e il mio, mio amato. Aiutami. Vieni da me." Si massaggiò il collo, che le faceva male, e pulsava ma non recava altri segni esterni dell'amore di lui. Aveva la gola secca, ma l'acqua non le placava la sete.
Finalmente, dopo tanto tempo, sognò di nuovo. Il suo amante Vampiro tornava da lei, felice del loro ricongiungimento. Si innalzavano sulle cime degli alberi, sulle pendici dei monti, fluttuavano come neri stendardi sopra le gole montane, e raggiungevano il suo castello. Stare stretti non era abbastanza, adorarsi non era abbastanza, e allora si abbandonava voluttuosamente alla passione, mentre lui la trasportava nella sottoveste diafana fino alle porte della sua fortezza.
Ma giunti davanti all'entrata, scuoteva la testa addolorato, perchè non poteva farla entrare nel suo oscuro regno. Le sue lacrime cocenti le bruciavano il collo, e lei fremeva a quel contatto, anche se strillava mentre lui la lasciava, sbiadendo tra i vapori con uno sguardo implorante negli occhi neri e lampeggianti.
Mancava qualcosa, infatti: le chiedeva un pegno d'amore per poterla legare per sempre al suo cuore. Un qualcosa che lei doveva dargli...
Camminava sotto il sole, debolissima, rattrappita. Bruciava di sete, di fame, di desiderio. Sognava ancora di lui, ma lui non poteva portarla nel suo cuore.
Giorni, notti e giorni. I piedi la condussero alla fine al cortile della scuola, dove un tempo, solo pochi mesi prima, aveva abbracciato e baciato i bambini, pensando che non li avrebbe rivisti mai più. Erano tutti lì, quei piccolini che l'avevano baciata con tanto affetto. La loro risata argentina era come un trillo di campane. Come le sembravano liberi, a lei che era così tormentata, come le sembravano felici e sereni.
I bambini.
Arrancò verso il cortile, spalancando gli occhi sotto le lenti scure.
Il suo unico rimpianto. Il suo unico dolore.
Aveva sete. Il calore che sentiva in faccia le faceva battere le guance di dolore.
Lacrime di gratitudine le colmavano gli occhi per la rivelazione che non giungeva troppo tardi. Piangendo, spalancò il cancello della scuola e tese un braccio scheletrico a un bambino che se ne stava in disparte a giocare con un gattino.
La testa fulva, le guance rosse, palpitava di sangue e di vita.
Per lui, come un segno del loro amore.
"Piccolo, ti ricordi di me?" gli disse piano.
Il bambino si voltò. E le sorrise timidamente, innocente e fiducioso.
Allora gli si avventò sopra come un grosso uccello alato, con gli occhi che le bruciavano sotto gli occhiali, i denti luccicanti.
Una volta, due...

Presto, molto presto.


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